lunedì 3 ottobre 2005

quattro ottobre duemilacinque

Se il tempo è il pulviscolo sperimentabile dell'eternità, i 780 anni che ci separano dalla morte di Francesco d'Assisi non sono un segmento apprezzabile della storia umana.

Gli schiamazzi dei garibaldini e l'oratoria metallica dei rivoluzionari dell'89 sono ancora udibili dietro l'angolo della storia europea.

Poco più in là, è percepibile il plumbeo respiro del contadino dell'Ancien régime e persino il nitrito dei cavalli dei capitani di ventura. Ma è sufficiente raccordare la mano all'orecchio per distinguere, tra le urla religiose dei crociati, il Cantico delle creature del povero cristiano Francesco.

Se è vero che l'umanità ha bisogno di una storia monumentale, perché - come afferma Nietzsche - ciò che un giorno fu capace di dilatare la nozione di uomo e di realizzarla con maggior bellezza, deve esistere in eterno, allora Francesco d'Assisi appartiene alla piccola famiglia di quei giganti che si chiamano l'un l'altro a dialogo, attraverso le desolate distanze delle ère.

Egli, tuttavia, non resta incorruttibile come un satiro di fronte alle civiltà che passano; ma pur camminando scalzo ripropone agli uomini fratelli un discorso sulla totalità dell'essere, senza mai proclamare l'innocenza del divenire.

Francesco, infatti, non divinizza ogni cosa esistente, ma si sforza di portare ogni essere esistente - e primo fra tutti, l'uomo - alla sua perfezione divina.

La storia, perciò, non ha bisogno di lottare contro il tempo per richiamarlo in vita o per schierarlo di nuovo in battaglia. Chi parla dell'essere e lo attesta non ha neanche bisogno, per nobilitare se stesso, di operare per la comunità; né ha bisogno di intermediario alcuno per diventare illustre e memorabile.

Chi parla dell'essere e lo attesta risulta vivo e presente in sé e per sé, né mai conosce la mestizia del tramonto. (a.b.)

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