lunedì 26 luglio 2010

IL PROCESSO DI DECOSTITUZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA POLITICO ITALIANO

1. La crisi della democrazia costituzionale

È in atto un processo di decostituzionalizzazione del sistema politico italiano. Questo processo si manifesta in una progressiva deformazione dell’assetto costituzionale diretta a introdurre una forma di democrazia plebiscitaria basata sull’onnipotenza della maggioranza e sulla neutralizzazione di quel sistema di limiti, vincoli e controlli che forma la sostanza della democrazia costituzionale.
L’idea elementare che è alla base di questo processo è che il consenso popolare è la sola fonte di legittimazione del potere politico e varrebbe perciò a legittimare ogni abuso e a delegittimare critiche, limiti e controlli. Il processo di decostituzionalizzazione si manifesta in una lunga serie di violazioni della lettera o dello spirito della prima parte della Costituzione: le tantissime leggi ad personam, che formano ormai un vero Corpus iuris ad personam finalizzato a sottrarre il presidente del Consiglio ai tanti processi penali dai quali è assediato; le leggi razziste contro gli immigrati, che hanno penalizzato lo status di clandestino; le misure demagogiche in tema di sicurezza, che hanno militarizzato il territorio, legittimato le ronde, previsto la schedatura dei senza tetto; il controllo politico e padronale dei media, soprattutto televisivi, che ha fatto precipitare l’Italia al 73.mo posto della di Freedom House sui livelli della libertà di stampa, in attesa di un ulteriore precipizio se verrà approvata la legge sulle intercettazioni che non solo limita le possibilità di indagine della magistratura ma introduce una sostanziale censura sull’informazione che ci costringerà, come nei regimi totalitari, ad apprendere dalla stampa estera le notizie sul nostro Paese. E ancora: i tagli alla spesa pubblica nella scuola e nella sanità; la crescita della precarizzazione del lavoro e della disoccupazione; l’aggressione al sindacato e alle garanzie giurisdizionali dei diritti dei lavoratori; il progetto di installare centrali nucleari contro cui si espresse 20 anni fa il referendum popolare.
Di solito questo indebolimento della dimensione costituzionale della nostra democrazia viene interpretato, sia a destra che a sinistra, come un prezzo pagato a un rafforzamento, e al conseguente primato della sua dimensione politica, del potere conferito agli elettori di scegliere volta a volta la coalizione di governo: in altre parole, come una riduzione e una svalutazione della legittimazione legale, a favore di una valorizzazione della legittimazione popolare della rappresentanza politica, ottenuta dalla possibilità dell’alter-nanza resa possibile dal sistema bipolare e dall’aperta rivendicazione dell’onnipotenza della maggioranza.

2. La crisi della democrazia politica
La tesi che qui sosterrò è opposta a questa rappresentazione. Dietro la pretesa valorizzazione della rappresentanza politica si nasconde una deformazione profonda delle istituzioni rappresentative, responsabile non solo della crisi della dimensione legale e costituzionale della democrazia, ma anche della tendenziale dissoluzione della sua dimensione politica e rappresentativa. Stiamo assistendo in Italia alla costruzione di un regime personale e illiberale di tipo nuovo, senza precedenti né confronti nella storia, che è il frutto di molteplici fattori di svuotamento della rappresentanza politica.

2.1. Il populismo e l’idea del capo
Il primo fattore è la verticalizzazione e personalizzazione della rappresentanza. Il fenomeno è presente in molte altre democrazie, nelle quali la rappresentanza si è venuta sempre più identificando nella persona del capo dello Stato o del governo e sono stati indeboliti ed esautorati i parlamenti. Ma in Italia, il fenomeno ha assunto forme e dimensioni che compromettono alla radice la rappresentanza politica. Per una lunga serie di fattori.
Il primo fattore è la connotazione apertamente populista assunta dal nostro sistema politico. La democrazia politica - secondo l’immagine offertane dall’attuale maggioranza e divenuta senso comune - consisterebbe, ben più che nella rappresentanza della pluralità degli interessi sociali e nella loro mediazione parlamentare, nella scelta elettorale di una maggioranza e soprattutto del capo della maggioranza, concepito come espressione organica della volontà popolare, dalla quale proverrebbe una legittimazione assoluta. Di qui l’insofferenza per le regole e per il pluralismo istituzionale: per l’indipen-denza della magistratura e perfino per il ruolo del parlamento, la cui rappresentatività è stata del resto svuotata dall’at-tuale legge elettorale che ha alterato l’oggetto stesso della rappresentanza: i parlamentari, essendo di fatto nominati dai vertici dei partiti, rappresentano oggi, più che gli elettori, coloro che li hanno nominati e dai quali dipendono.
Ebbene, questa idea dell’onnipotenza del capo quale incarnazione della volontà popolare è al tempo stesso antirappresentativa e anticostituzionale. È innanzitutto anti-rappresentativa, dato che nessuna maggioranza e tanto meno il capo della maggioranza può rappresentare la volontà del popolo intero e neppure quella della maggioranza degli elettori. (...).
Ma quell’idea è anche radicalmente anti-costituzionale, dato che ignora i limiti e i vincoli imposti dalle costituzioni ai poteri della maggioranza riproducendo, in termini parademocratici, una tentazione antica e pericolosa, che è all'ori-gine di tutte le demagogie populiste e autoritarie: l'opzione per il governo degli uomini, o peggio di un uomo - il capo della maggioranza - contrapposto al governo delle leggi e la conseguente insofferenza per la legalità avvertita come illegittimo intralcio all’azione di governo. Fu proprio questa concezione che fu rinnegata dalla Costituzione del ‘48 all’indomani della sconfitta del fascismo, che dopo aver conquistato il potere con mezzi legali, distrusse la democrazia edificando un regime totalitario proprio sull’idea del capo come espressione diretta della volontà popolare. (...).

2.2. I conflitti di interesse ai vertici dello Stato
Il secondo fattore di crisi della rappresentanza politica è la progressiva confusione e concentrazione dei poteri. Mi riferisco - ancor più che alla lesione, che pure è costantemente tentata, del principio della separazione tra i pubblici poteri, e in particolare dell’indipendenza del potere giudiziario - al progressivo venir meno di una separazione ancor più importante, che fa parte del costituzionalismo profondo dello Stato moderno: la separazione tra sfera pubblica e sfera privata, ossia tra poteri politici e poteri economici.
Il tramite di questa confusione di poteri è costituito dal conflitto di interesse, che in Italia ha assunto le forme, senza confronti e senza precedenti, della concentrazione nelle stesse mani dei poteri di governo, di un enorme sistema di interessi e di poteri economici e finanziari, nonché dei poteri mediatici assicurati dal quasi monopolio dell'informazione televisiva. Al punto che non può neppure parlarsi, propriamente, di conflitto di interessi, bensì di un aperto primato degli interessi privati del presidente del consiglio sugli interessi pubblici e di una subordinazione dei secondi ai primi (...).
Per questo possiamo parlare, a proposito dell’anomalia italiana, di una singolare regressione premoderna allo stato patrimoniale contrassegnato da connotati populisti (...), che si manifesta in una sorta di privatizzazione o di appropriazione privata della sfera pubblica. Si tratta di un fenomeno nuovo nella storia delle istituzioni politiche, non paragonabile alla vecchia degenerazione della sfera pubblica, quando la politica era corrotta, comprata e subordinata agli interessi economici privati e tuttavia da questi pur sempre distinta e separata. Allora, all’epoca di “Tangentopoli”, fu svelato un rapporto corrotto ed occulto tra politica ed economia. Ma il rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, per quanto corrotto, rimaneva pur sempre un rapporto di distinzione e di separazione. Oggi, dalle collusioni occulte fra interessi pubblici e interessi privati su cui si era retto il vecchio sistema della corruzione si è passati alla loro confusione esplicita e istituzionalizzata, in forza della quale alla vecchia corruzione, peraltro non venuta meno a causa della voracità del nuovo ceto politico, si è sostituita la diretta gestione politica dei propri personali interessi: sia che si tratti dell’abolizione delle imposte sulle successioni e sulle donazioni, o dell’approvazione a ripetizione di leggi ad personam in materia di giustizia, o della censura del dissenso e dell’informazione, o della difesa e del rafforzamento del monopolio televisivo. (...).
     
2.3. La spoliticizzazione e la corruzione del senso civico
C’è poi un secondo aspetto, per così dire dal basso, della crisi della democrazia politica: lo sviluppo del qualunquismo che si manifesta da un lato nell’omologazione dei consenzienti, dall’altro nella denigrazione dei dissenzienti. La denigrazione dei dissenzienti si manifesta in una pluralità di divisioni e di rotture della solidarietà sociale all’insegna dell’op-posizione amico/nemico, bene/male, amore/odio. Dove il nemico ha sembianze sociali o politiche o culturali: gli immigrati, i delinquenti di strada, i comunisti, l’opposizione, la libera stampa, gli intellettuali, il sindacato, la magistratura. In tutti i casi è un nemico che mente e complotta, per il quale vengono riesumate vecchi categorie della propaganda fascista: sono disfattiste, anti-nazionali e anti-italiane le critiche della stampa e dell’opposizione; sono eversivi i processi e le indagini giudiziarie. In particolare, sono complotti - gestiti dai comunisti - i processi penali oppure le rivelazioni scandalistiche sulla vita privata del capo.
L’omologazione dei consenzienti, d’altro canto, avviene per il tramite della spoliticizzazione di larghi settori dell’elet-torato, che si manifesta, oltre che nell’astensionismo o nel qualunquismo, nel declino del senso civico e nell’indebo-limento dell’opinione pubblica. Che cosa è infatti l’opinione pubblica? È l’opinione che si forma sulle “questioni pubbliche”, cioè di pubblico interesse perché riguardanti gli interessi di tutti; e che perciò viene meno allorquando si dissolve in una somma di opinioni vertenti tutte sui molteplici e diversi interessi personali. (...).
Ebbene, la distruzione dell’opinione pubblica avviene con la disinformazione e con la menzogna. Ma avviene soprattutto allorquando viene promosso il disinteresse e l’indifferenza per gli interessi pubblici: quando dall’oriz-zonte politico del cittadino svanisce l’idea stessa di “interesse generale” e la sua attenzione politica viene rivolta soltanto ai suoi interessi personali e privati, assunti come criteri esclusivi della sua valutazione politica, a cominciare da quella che si manifesta nell’esercizio del diritto di voto.  È chiaro che questa indifferenza dei cittadini per gli interessi generali e questo loro isolamento nei loro interessi privati formano il miglior terreno di coltura della passivizzazione politica e, con essa, del populismo e della delega a un capo. C’è una pagina assai nota di Tocqueville, di straordinaria attualità, che illustra questo nesso tra depressione dello spirito pubblico e dispotismo: “Il dispotismo”, scrisse Tocqueville, “vede nell'isolamento degli uomini la garanzia più certa della propria durata, e in generale mette ogni cura nel tenerli se-parati... Innalza barriere tra loro e li divide”, “fa dell'indif-ferenza una specie di virtù pubblica”, li trasforma in una “folla innumerevole di uomini” ciascuno dei quali “vive per conto suo ed è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca ma non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso, e se ancora possiede una famiglia, si può dire per lo meno che non ha più patria”. E aggiunge: il potere dispotico “è contento che i cittadini si svaghino, purché non pensino che a svagarsi”.

3. I rimedi alla crisi: quattro indicazioni
Ebbene, di fronte a questo processo di decostituzionalizzazione, noi pensiamo che la sinistra debba opporre una rigida difesa dell’assetto costituzionale della nostra democrazia; che debba liberarsi dall’egemonia culturale della destra, nella consapevolezza che oggi l’attacco è non tanto e non solo alla Costituzione italiana del ’48, ma al costituzionalismo quale sistema di limiti e vincoli a tutti i poteri; e che è soprattutto il valore del costituzionalismo che venti anni di tentativi di riforma regressiva della nostra Costituzione hanno logorato e messo in crisi nel senso comune. In questa prospettiva ci sembra che possano formularsi quattro indicazioni, che richiedono tutte un mutamento della politica costituzionale della sinistra.

3.1. Abbandonare ogni progetto di riforma complessiva
La prima indicazione è che le forze di opposizione dovrebbero abbandonare, almeno in questa legislatura, ogni progetto di riforma costituzionale complessiva. Con questa destra, dovrebbe ormai essere chiaro, le uniche riforme possibili sono quelle dirette a trasformare il nostro sistema in senso autocratico e padronale. Ne sono prova i due progetti di riforma costituzionale proposti dalla destra – la loro carta di identità costituzionale, per così dire – diretti inequivocabilmente a trasformare in costituzione formale la decostituzionalizzazione di fatto prodottasi della nostra democrazia: la riforma varata nella legislatura 2001-2006 e bocciata dal referendum e la bozza di revisione in 37 articoli dell’intera carta costituzionale, consegnata al presidente Napolitano dall’on. Calderoli all’indomani delle elezioni regionali.
(...) Certamente, grazie alle divisioni della destra, questo progetto sarà accantonato. Dobbiamo però prendere atto del suo carattere sovversivo e della mancanza di senso del limite di questa destra; la cui impudenza è ormai arrivata al punto che dalle leggi ad personam si vorrebbe passare alla costituzione ad personam, la cui unica, trasparente finalità è chiaramente quella di fare dell’attuale presidente del consiglio un autocrate incontrastato e incontrollato.

3.2. Solo revisioni specifiche 
La seconda indicazione, che suggerisce anche un forte argomento da opporre alle proposte della destra, è che la nostra Costituzione non consente la sua integrale riscrittura, ma solo singoli emendamenti. (...). L’art.138 che ne disciplina l’esercizio non consente perciò che con legge di revisione possa scriversi una costituzione interamente nuova e diversa. Consente solo revisioni specifiche di questa o quella norma costituzionale consistenti in emendamenti di contenuto omogeneo: se non altro perché il referendum cui la revisione può essere sottoposta non deve riguardare, come la Corte costituzionale ha più volte ribadito, istituti eterogenei in ordine ai quali l’elettore può avere opinioni in parte favorevoli e in parte sfavorevoli. (...).
Del resto le costituzioni serie non si modificano ad ogni cambio di stagione. Pensiamo a come sarebbe accolto negli Stati Uniti un progetto di riforma complessiva della Costituzione del 1786. Naturalmente questo non vuol dire che la Costituzione del ‘48 non sia, in tempi migliori, modificabile. Il costituzionalismo può ben essere sviluppato, come dimostrano le costituzioni di terza generazione dell’America Latina. 
(...) Ma pensiamo, soprattutto, alla prospettiva sempre più urgente di un costituzionalismo globale, che introduca idonee garanzie a quell’embrione di Costituzione del mondo che già oggi è costituito dalla Carta dell’Onu, dalla Dichiarazione universale dei diritti del ’48, dai Patti del 1966 e dalle tante carte sovranazionali dei diritti di carattere regionale: un costituzionalismo globale in grado di mettere al bando le guerre e di colmare quel vuoto di diritto pubblico, responsabile oggi, nell’attuale crisi delle sovranità statali, di una globalizzazione selvaggia e senza regole che sta provocando la crescita delle disuguaglianze, la morte per fame o per malattie non curate di milioni di esseri umani ogni anno, le tante catastrofi ambientali e il pericolo per la sopravvivenza stessa dell’umanità sul nostro pianeta.

3.3. Una sola urgente riforma
Frattanto, ed è questa la nostra terza indicazione, c’è una sola, urgente riforma che le forze di opposizione dovrebbero promuovere, quella dell’art. 138 Cost. in tema di revisione della Costituzione medesima: la previsione, per ogni revisione, di una maggioranza qualificata di almeno due terzi dei componenti del Parlamento; l’esclusione da qualunque revisione, ma solo la possibilità di espansione e rafforzamento, dei diritti fondamentali e dei principi supremi, come l’ugua-glianza, la dignità della persona, la pace e la separazione dei poteri; infine l’esplicita limitazione, oggi solo implicita, del potere di revisione, cui non dovrebbero essere consentiti tentativi di riforma dell'intera costituzione, ma solo l’approvazione di emendamenti di questa o quella singola e determinata norma costituzionale.

3.4. Il metodo elettorale proporzionale
Infine, e vengo alla questione più dolente, la legge elettorale. L’esperienza di questi anni dovrebbe averci insegnato che, a tutela dell’uguaglianza nel diritto di voto e contro le derive populiste, la sola garanzia è il metodo elettorale proporzionale e il sistema parlamentare. Solo la democrazia parlamentare basata sul metodo proporzionale, favorendo lo sviluppo dei partiti e per il loro tramite la rappresentanza di interessi sociali e di opzioni politiche diverse e talora in conflitto, è infatti idonea a garantire il pluralismo politico e la rappresentanza dell’intero elettorato e ad impedire involuzioni monocratiche generate invece, come nei sistemi maggioritari, dalla personalizzazione della rappresentanza. (...).
Sarebbe perciò necessario, a questo punto, un sereno bilancio degli effetti perversi del bipolarismo. Il sistema bipolare è una sorta di stampo calato sulla società, che artificialmente ne nega il pluralismo politico, mortifica i dissensi, offusca le differenze degli interessi rappresentati, semplifica la complessità sociale costringendo gli elettori a schierarsi con una delle parti in conflitto e trasformando le elezioni in una partita nella quale si vince anche solo per un punto. Un’esigua minoranza di elettori incerti, prevalentemente spoliticizzati e più degli altri esposti al condizionamento della propaganda, decide infatti l’esito delle elezioni con un alto grado di casualità. È così che questo sistema ha distrutto i partiti, ha allargato il fossato tra ceto politico e società, ha ridotto le competizioni elettorali a guerre di spot tra coalizioni che si contendono il centro e quindi devono essere tanto più rissose quanto più devono tendere ad omologarsi. (...). Ma soprattutto il sistema bipolare, favorendo la personalizzazione della rappresentanza e il culto del capo, ha cambiato il senso comune sulla democrazia, fornendo il principale sostegno alla sua involuzione in senso populista e autoritario.
Oggi la scelta bipolare continua ad essere difesa, in Italia, dalla maggioranza delle forze politiche, incluse, incredibilmente, le forze della sinistra che ne hanno subito i danni maggiori. Dobbiamo invece riflettere sui guasti da essa prodotti. (...).
Concludo con un’ultima osservazione. Certamente, fino ad oggi la democrazia costituzionale e la Costituzione italiana hanno resistito, grazie all’effettività della separazione dei poteri: dell’indipendenza della magistratura ordinaria e della giurisdizione costituzionale. Ma non possiamo essere certi che questa resistenza, di carattere solo istituzionale, non sarà travolta, se proseguirà la corruzione del senso comune in materia di democrazia. Esiste infatti un’interazione tra involuzione istituzionale e senso comune: l’opinione pubblica può ben essere trasformata e corrotta dalla demagogia politica sviluppata dal sistema politico-mediatico e retroagire in suo favore sotto forma di consenso di massa. Per questo ciò che oggi soprattutto si richiede è lo sviluppo, a sinistra, di una cultura costituzionale opposta e alternativa a quella della destra e, insieme, un forte impegno di pedagogia civile, diretto a rifondare nel senso comune i valori del costituzionalismo democratico: del pluralismo politico e istituzionale, dei principi di uguaglianza e dignità delle persone, del ruolo di difesa degli interessi generali spettante alla politica e, soprattutto, di una concezione della democrazia come sistema fragile e complesso di separazioni ed equilibri tra poteri, di limiti di forma e di sostanza al loro esercizio, di garanzie dei diritti fondamentali, di tecniche di controllo e riparazione contro le loro violazioni.

Luigi Ferrajoli

31.07.2010



Fonte: http://www.adistaonline.it/index.php?op=articolo&id=47589

venerdì 29 gennaio 2010

Cristo, conversione dei cuori

Dal Convegno del 12 dicembre 2009 “Don Mazzolari e padre Bergamaschi, due pellegrini verso la verità”


Mi associo ai saluti e ai ringraziamenti rivolti fino ad ora ai presenti, presenti sia di qua che di là dal tavolo.

Sull’argomento dell’incontro faccio una permessa: parlerò principalmente di padre Aldo. Dico principalmente perché anche quello che dirò del suo maestro don Primo non è solo lettura mia ma, per lo più, lettura del discepolo padre Aldo. Dico subito che i due profeti sono stati i cantori di una utopia tanto celebrata e osannata quanto letteralmente tradita: l’utopia del Vangelo. So che l’utopia, in genere, è sempre un po’ derisa, ma a torto. L’utopia è in realtà la molla che spinge avanti di nascosto la storia. E questo lo dimostra proprio l’utopia del Vangelo. Se l’utopia fosse solo da deridere bisognerebbe strappare il Vangelo o buttarlo via. Ma nessuno, lo condivida o meno, ha il coraggio di farlo: grazie a Dio, ovviamente. Don Primo cantò il Vangelo da poeta, fu “il poeta del Vangelo”. Padre Aldo lo celebrò da filosofo, fu “il filosofo del Vangelo”. É una prima differenza da sottolineare che incide anche sui messaggi profetici dell’uno e dell’altro. Il poeta si lascia avvincere dalla bellezza della forma, il filosofo, invece, si sofferma sulla quadratura dei contenuti.

Ma c’è un’altra più importante differenza da sottolineare. Sul piano ecclesiale, il parroco di Bozzolo ha conosciuto gli incipienti e timidi entusiasmi dei rinnovatori preconciliari. Inoltre, sul piano politico-sociale, ha vissuto gli entusiasmi iniziali della riconquistata democrazia. E unitamente alla rinnovata democrazia ha vissuto la nuova realtà storica dei cattolici al potere. Invece, il cappuccino reggiano ha conosciuto gli entusiasmi conciliari prima, ma poi le misurate successive delusioni. Parallelamente, sul piano politico-sociale, ha sofferto le delusioni dell‘occupazione del potere da parte dei cattolici, nonché la loro successiva diaspora, Una diaspora, va detto, in linea con il pluralismo delle opzioni politiche, certificato autorevolmente anche dal Concilio Vaticano II. Un pluralismo, va aggiunto, che doveva rafforzare l’autonoma presenza dei cattolici in campo politico, che invece è stato praticamente cancellato dall’assunzione diretta e unitaria da parte della gerarchia ecclesiastica in nome dell’unità dei valori.

Orbene, sia la differenza delle tempre spirituali che le differenze delle fasi storiche, vissute dai due testimoni, hanno sicuramente inciso sulle idee e sul significato della loro testimonianza. Ed è proprio alla luce dei diversi quadri generali che si capiscono meglio, a mio giudizio, le affinità e le diversità di pensiero. Senza santificare i morti, mi permetto, ora, di esporre, nel tempo concesso, due temi tra quelli sicuramente di maggior spicco:
a) il cristianesimo come “novità esistenziale” e non come religione;
b) la città (polis) organizzata secondo l’amore cristiano.

Prendiamo il primo tema, cioè il cristianesimo non è una religione ma una “novità esistenziale”. Non entro nella discussione se Gesù Cristo avesse voluto o meno fondare una nuova religione. Certo è che padre Aldo non è il solo a definire la “religione” in una accezione negativa, cioè di tomba della fede. La Chiesa - non il Mondo, la Chiesa - ha crocefisso Cristo, scriveva con accentuata enfasi negli anni cinquanta del secolo scorso il teologo protestante Karl Barth.

In questa accezione negativa, per religione si intende l’esteriorità del rito, delle opere, della legge e dei dogmi anziché l’interiorità della fede, della vita, dello spirito e dell’esperienza personale. Ma c’è di peggio: la religione è diventata la tomba della fede cristiana quando da Costantino in poi, con il connubio spada-pastorale, la Chiesa ha fatto proprie le tentazioni di Satana che Cristo invece aveva decisamente rifiutate nel deserto, e precisamente: le tentazioni dell’autoritarismo dogmatico, del fascino manipolante del mistero e della forza perversa del potere temporale. Un potere temporale esercitato talvolta nella versione papicesarista (il Papa che strumentalizza Cesare), talvolta nella versione cesaropapista (Cesare che strumentalizza il Papa). Su queste tentazioni diaboliche fatte proprie dalla Chiesa nella storia, ricordo volentieri quello che mi disse di persona padre Aldo in una appassionata conversazione in convento. Mi disse esattamente: sul comodino di fianco al letto tieni sempre, vicino al Vangelo, la magnifica leggenda de “Il grande inquisitore” di Dostoevskij.

Al cristianesimo “caduto a rango di religione” il cappuccino reggiano contrappone il cristianesimo che si fa vita concreta del comandamento dell’amore, che si fa conversione del cuore (metanoia soleva ripetere spesso). Conversione del cuore che vuol dire - cito testualmente - «eliminare le contraddizioni della natura caduta non consentendo aggiornamenti commisurati ai propri vizi, bensì favorendo la responsabilità, in positivo, a mostrare appunto la novità della fede». Cristianesimo uguale, dunque, a novità di vita.

Ci dobbiamo ora chiedere: quali sono i cardini portanti una tale novità? La risposta di padre Bergamaschi è chiara e netta. Anzitutto c’è il cardine della fede. «Non credo nei miracoli, - diceva e scriveva il cappuccino - non credo nei miracoli della bacchetta magica perché sono cristiano, e in quanto tale credo solo in due interventi di Dio nel mondo: nella creazione e nella redenzione». La Verità sta in questa duplice sorgente: nella natura del creato e in Gesù Cristo, il Verbo (Logos) di Dio che si è fatto carne. In altre parole: la Verità si legge anzitutto nella creazione e poi nella Parola di Dio comunicata direttamente e una volta per sempre da Gesù. In Gesù, precisa padre Aldo, «nato e morto, ma non rimasto come non venuto dalla Palestina, ove la supposta “religione” rivelata aveva raggiunto il massimo della corruzione ... Venuto in Palestina - aggiungeva - per spezzare il legame che la religione aveva costruito tra un gruppo umano e Dio». Dopo di Lui chi crede nella rivelazione del Vero Dio ha l’obbligo di mostrare a tutti il suo Messaggio in cui sta la soluzione dei problemi umani per il fatto autenticamente rivoluzionario che mette al posto dell’«etica dell’homo homini lupus (l’uomo che si fa lupo per l’altro uomo) l’opposta’etica dell’homo homini Deus (l’uomo quale volto di Dio per l’altro uomo)». Altro che l’imperante individualismo “fai da te” dei nostri giorni!

Un altro importante cardine fondante la personale novità esistenziale è il rapporto che si viene a stabilire tra Cristo (cioè la Parola di Dio) e la Chiesa (cioè Popolo di Dio e Gerarchia Ecclesiastica compresa). Anche qui il pensiero di padre Aldo è chiaro, senza giri di parole. La Chiesa va definita, nella sua interezza comunitaria, come medium in quo, cioè come mezzo entro il quale tutti cerchiamo di comprendere il messaggio di Cristo. La Chiesa, considerata solamente nella sua struttura gerarchica, pertanto, non è il medium quod, cioè il mezzo, esso solo, che fa conoscere la verità. In altre parole, la gerarchia ecclesiastica fa un “servizio” che aiuta il Popolo di Dio a conoscere la verità, ma non ha il compito di “comandare” la verità. Solo se stiamo tutti (popolo di Dio e Gerarchia compresa) “sotto la Parola” si può dire, come si legge negli Atti degli Apostoli, che «si deve obbedire prima a Dio che agli uomini».

Certamente esiste un problema ermeneutico, vale a dire il problema di leggere correttamente il Vangelo. Ciò esclude, ad ogni buon conto, che l’autorità del magistero ecclesiastico debba porsi al di sopra della libertà di coscienza di ogni credente, guidato da una robusta razionalità sorretta - sostiene il Bergamaschi - dal Principio di non contraddizione. Siamo, come si vede, al rischio della libertà. Il rischio che in più grossa misura tocca i profeti e ne costituisce il loro tormento. Quel rischio che hanno conosciuto tanto padre Aldo quanto don Primo. Anche il parroco di Bozzolo aveva infatti sollevato il problema della identificazione di Verità e Chiesa. Qualcuno - ha scritto - fa troppo facile il passaggio dal Cristo persona al Cristo Chiesa, da una Umanità uscita dal seno purissimo di Maria Vergine a una umanità che siamo noi tutti, con le nostre tristezze.

Non entro nei dettagli dell’inevitabile e appassionato dramma dell’ubbidienza all’autorità gerarchica, specie da parte di chi ne ha fatto voto nella sua vocazione sacerdotale. Vorrei semplicemente notare la grande ma anche diversa nobiltà di stile dimostrata, pure in questo campo, dai nostri due testimoni di Cristo. Basta leggere attentamente le loro lettere di obbedienza al richiamo severo rivolto loro dalle rispettive legittime autorità. Nel 1951 don Primo, rispondendo alla lettera che gli vietava di scrivere sul suo Adesso, tra l’altro afferma: Adesso è meno di un attimo, mentre la Chiesa è la custode dell’Eterno ed io voglio rimanere nell’Eterno. Il che pare identificare tout-court Cristo con la Chiesa. Trentasette anni dopo, Padre Aldo, attenendosi all’insegnamento di Gesù, scrive tra l’altro ai suoi censori: «nell’ipotesi che qualcuno vi perseguiti o vi calunni pregate per loro». Il che mi sembra rispettare coerentemente la primalità di Cristo sulla Chiesa.

Passo, ora, al secondo tema annunciato: la società organizzata secondo l’amore cristiano. A dire il vero, se penso al perverso individualismo esagerato che sospinge molta, troppa gente ad appoggiarsi all’ideologia dei ricchi e dei potenti come uscita dalla loro miseria (un virus dell’individualismo che contagia persino il poverissimo continente africano), se penso a questo, ciò che ora dirò potrà sembrare una favola. Ma non posso non raccontarla brevemente nella speranza di una inedita “primavera dei cuori”. Padre Aldo cammina con logica stringente sul filo del comandamento di Gesù: Amatevi come io vi ho amato, cioè - precisa il cappuccino - senza profitto. É la carta costituzionale della sua polis cristiana che innerva i tre maggiori filoni del vivere sociale: l’eros, il denaro e il potere. Si tratta - afferma il nostro cappuccino - di finalizzare il sesso, il denaro e il potere evitando di farli fini a se stessi: il sesso per il sesso, il denaro per il denaro, il potere per il potere.

Entriamo così in Telergo, il luogo ideale a cui ha accennato il coordinatore di questo incontro, l’amico Nando Cottafavi. Il lavoro (ergon) realizza il suo fine (telos) solo quando genera e controlla il capitale. In breve, il capitale è comunitario, il frutto del lavoro viene suddiviso fra tutti così da soddisfare in modo uguale i bisogni di ognuno (parabola dei vignaioli) indipendentemente dalle mansioni e dai talenti dei singoli (parabola dei talenti). Questo non significa, sia chiaro, contestare la ricchezza e il progresso ma vivere la povertà intesa come uguaglianza contro le disparità talvolta stratosferiche derivanti dalla logica del profitto. E tutto ciò, infine, non perché imposto dall’alto in nome della legge bensì perché sentito e condiviso come espressione di fratellanza.

Padre Bergamaschi era consapevole della radicalità cristiana del suo progetto politico. Il che lo induceva a definire il progetto politico di don Mazzolari una «sinfonia incompiuta» che lo affaticava inutilmente per portare la fiaccola del risveglio cristiano nella democrazia soltanto formale del suo tempo, poi in continuo degrado. Padre Bergamaschi aveva anche un’anima profondamente laica, non in contraddizione, come vedremo, con la sua radicalità cristiana. Un’anima laica che non voleva imporre la propria visione del mondo e la propria etica a nessuno. Orbene, quest’anima lo ha condotto a proporre la «divisione delle etiche» nel senso che ogni etica potesse organizzarsi entro una propria area territoriale onde mostrare la propria validità senza offendere le altre; e ciò secondo un ordinamento impersonato da un Governo mondiale.

Realisticamente, la semplicità lineare ed elementare di una tale proposta cristiana radicale non trova spazio in un mondo complesso. Ma, a mio parere, può diventare una testimonianza fattibile nella veste di un nuovo tipo di monachesimo di ordine non religioso. Un monachesimo che si può realizzare in oasi di luce possibili in un mondo frantumato e conflittuale, impregnato di ossessive ricerche identitarie entro una perversa forma di globalizzazione.

Mi avvio alla conclusione con una riflessione sulla funzione della profezia nella storia. I profeti non sono quelli che prevedono il futuro, non sono dei veggenti. Sono, in realtà, dei portatori e dei testimoni di una verità. Sono, più semplicemente ancora, dei grandi educatori dell’umanità che parlano in nome di Dio. Il problema è di sapere ascoltare i profeti, senza lavarsene troppo facilmente le mani. Conosciamo tutti la definizione data da Papa Giovanni XXIII di don Mazzolari nell’udienza in Vaticano l’anno 1959: Tromba dello Spirito Santo in terra mantovana. Senza dubbio un alto riconoscimento. Pure tutti conosciamo il giudizio espresso successivamente da Papa Paolo VI: Aveva il passo troppo lungo; noi si stentava tenergli dietro. Ha sofferto lui, abbiamo sofferto anche noi. È il destino dei profeti. É vero che c’è della sofferenza. Non mi piace, però, quando il realismo del passo lento diventa un alibi per tenere il passo del gambero. Più che alla sofferenza mi piace guardare alla francescana “perfetta letizia”, come è stata definita dal nostro padre cappuccino con un linguaggio da nuova frontiera: un gridare “selliamo i cavalli” quando c’è in giro il gusto borghese del bivacco.

A questo punto mi domando: sulla scia dei due pellegrini verso la verità, quali linee di presenza cristiana si possono tracciare per dare alla realtà dei nostri giorni una speranza di futuro meno preoccupante? Gli appassionati scritti e le vibranti parole (dette sia in pubblico che in privato) hanno lasciato viva l’impronta di una Chiesa profetica che sintetizzo in alcune istanze distintive:

Anzitutto, il bisogno di una Chiesa della spiritualità. Prima della ripetizione formale dei riti, dell’istituzione chiusa in se stessa, della tradizione di dogmi rigidi che fabbricano Dio a immagine e somiglianza dell’uomo che vive nel tempo, anziché sospingere l’uomo in avanti fino a somigliare sempre più a Dio; prima di tutto questo c’è il bisogno della “novità esistenziale”, ricordata sopra. In una filippica accorata rivolta alla politica del suo tempo, don Primo ha scritto sull’Adesso: Oggi non conta l’uomo di sinistra né l’uomo di destra, né di centro, ma solo la “nuova creatura”. Questa è la casa da cui partire per il rinnovamento. Non conta cambiare l’età o il nome; conta il cuore nuovo. Chi non parte da qui si riempie di rinnovamento solo la bocca.

Un altro segno lasciato in eredità è la domanda di una “Chiesa della fratellanza”. Oltre la carità agli azzoppati - ripeteva spesso padre Aldo - è doveroso correggere il sistema che crea gli azzoppatori. Parallelamente, la ricerca identitaria vale fino a che non si trincera dietro il proprio egocentrismo ma che si apre all’altro, diverso o meno che sia,.ovviamente dentro l’invito senza paura al rispetto vicendevole.

Ultimo importante segno lasciato dai nostri profeti è l’appello per una Chiesa maestra di autentica laicità, cioè lontana dalla sempre ricorrente tentazione teocratica. Data la cruciale attualità dell’argomento, spendo in proposito poche parole. In primo luogo, sottolineo che la laicità non è un’etica ma un atteggiamento etico di rispetto di tutte le etiche, religiose e non. Ciò evita l’errore di chi continua a confondere, con incredibile ritardo culturale, laicità con non-credenza per cui si contrappone ancora spesso, per esempio, laico a cattolico. La vera contrapposizione, invece, sta tra laicità e fondamentalismo (o integralismo che dir si voglia). Di conseguenza si devono definire fondamentalisti sia i credenti cattolici, sia i diversamente credenti e sia i non credenti, così come si devono definire laici sia gli uni che gli altri. La specificità di quest’ultimi sta nella saggezza di agire da credenti nella ecclesìa e da cittadini nella polis.

In secondo luogo, la laicità è autentica se è positiva, cioè capace di dare spazio pubblico a tutte le etiche. Non è quindi agnostica, alla francese per intenderci, nel senso di ridurre le etiche (religiose o non) a fatto privato. La laicità positiva, inoltre, non esclude valori civili comuni. In altri termini non esclude un ethos condiviso che consenta concretamente la convivenza pacifica di tutte le etiche. Si tratta, in sostanza, di dar vita a quell’ethos meta-politico di cui hanno parlato, in dialogo costruttivo, Papa Benedetto XVI e il filosofo Habermas. Un ethos globale, tipo una aggiornata “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” deliberata dall’ONU esattamente 51 anni fa; un ethos globale che escluda la logica cosiddetta democratica del numero e sia invece frutto di un dialogo alla pari tra tutte le etiche senza imposizioni da parte di alcuna. Affrontare con questo spirito laico e meta-politico insieme le questioni, tanto per esemplificare, di bioetica o l’educazione al pluralismo etico-religioso nella scuola, invertirebbe il pericoloso degrado della democrazia, dei costumi e dei rapporti tra le civiltà.

Una Chiesa profetica, come sopra triplicemente segnata dai nostri due grandi educatori, pone a suo fondamento una scelta coraggiosa e coerente: la scelta di non inseguire la croce di Costantino ma di seguire fedelmente la croce del Golgota. Quella vera di Gesù che ha predicato e vissuto, fino al prezzo della vita, la distinzione tra il Regno di Cesare nella sua dura storicità e il Regno di Dio nel suo profondo mistero di Verità-Amore. Certo, e concludo, abbiamo molto bisogno di profeti per apprendere l’apparente paradosso di vivere, unitamente distinti, il Gesù della storia e il Gesù della fede.


Nando Bacchi