lunedì 26 luglio 2010

IL PROCESSO DI DECOSTITUZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA POLITICO ITALIANO

1. La crisi della democrazia costituzionale

È in atto un processo di decostituzionalizzazione del sistema politico italiano. Questo processo si manifesta in una progressiva deformazione dell’assetto costituzionale diretta a introdurre una forma di democrazia plebiscitaria basata sull’onnipotenza della maggioranza e sulla neutralizzazione di quel sistema di limiti, vincoli e controlli che forma la sostanza della democrazia costituzionale.
L’idea elementare che è alla base di questo processo è che il consenso popolare è la sola fonte di legittimazione del potere politico e varrebbe perciò a legittimare ogni abuso e a delegittimare critiche, limiti e controlli. Il processo di decostituzionalizzazione si manifesta in una lunga serie di violazioni della lettera o dello spirito della prima parte della Costituzione: le tantissime leggi ad personam, che formano ormai un vero Corpus iuris ad personam finalizzato a sottrarre il presidente del Consiglio ai tanti processi penali dai quali è assediato; le leggi razziste contro gli immigrati, che hanno penalizzato lo status di clandestino; le misure demagogiche in tema di sicurezza, che hanno militarizzato il territorio, legittimato le ronde, previsto la schedatura dei senza tetto; il controllo politico e padronale dei media, soprattutto televisivi, che ha fatto precipitare l’Italia al 73.mo posto della di Freedom House sui livelli della libertà di stampa, in attesa di un ulteriore precipizio se verrà approvata la legge sulle intercettazioni che non solo limita le possibilità di indagine della magistratura ma introduce una sostanziale censura sull’informazione che ci costringerà, come nei regimi totalitari, ad apprendere dalla stampa estera le notizie sul nostro Paese. E ancora: i tagli alla spesa pubblica nella scuola e nella sanità; la crescita della precarizzazione del lavoro e della disoccupazione; l’aggressione al sindacato e alle garanzie giurisdizionali dei diritti dei lavoratori; il progetto di installare centrali nucleari contro cui si espresse 20 anni fa il referendum popolare.
Di solito questo indebolimento della dimensione costituzionale della nostra democrazia viene interpretato, sia a destra che a sinistra, come un prezzo pagato a un rafforzamento, e al conseguente primato della sua dimensione politica, del potere conferito agli elettori di scegliere volta a volta la coalizione di governo: in altre parole, come una riduzione e una svalutazione della legittimazione legale, a favore di una valorizzazione della legittimazione popolare della rappresentanza politica, ottenuta dalla possibilità dell’alter-nanza resa possibile dal sistema bipolare e dall’aperta rivendicazione dell’onnipotenza della maggioranza.

2. La crisi della democrazia politica
La tesi che qui sosterrò è opposta a questa rappresentazione. Dietro la pretesa valorizzazione della rappresentanza politica si nasconde una deformazione profonda delle istituzioni rappresentative, responsabile non solo della crisi della dimensione legale e costituzionale della democrazia, ma anche della tendenziale dissoluzione della sua dimensione politica e rappresentativa. Stiamo assistendo in Italia alla costruzione di un regime personale e illiberale di tipo nuovo, senza precedenti né confronti nella storia, che è il frutto di molteplici fattori di svuotamento della rappresentanza politica.

2.1. Il populismo e l’idea del capo
Il primo fattore è la verticalizzazione e personalizzazione della rappresentanza. Il fenomeno è presente in molte altre democrazie, nelle quali la rappresentanza si è venuta sempre più identificando nella persona del capo dello Stato o del governo e sono stati indeboliti ed esautorati i parlamenti. Ma in Italia, il fenomeno ha assunto forme e dimensioni che compromettono alla radice la rappresentanza politica. Per una lunga serie di fattori.
Il primo fattore è la connotazione apertamente populista assunta dal nostro sistema politico. La democrazia politica - secondo l’immagine offertane dall’attuale maggioranza e divenuta senso comune - consisterebbe, ben più che nella rappresentanza della pluralità degli interessi sociali e nella loro mediazione parlamentare, nella scelta elettorale di una maggioranza e soprattutto del capo della maggioranza, concepito come espressione organica della volontà popolare, dalla quale proverrebbe una legittimazione assoluta. Di qui l’insofferenza per le regole e per il pluralismo istituzionale: per l’indipen-denza della magistratura e perfino per il ruolo del parlamento, la cui rappresentatività è stata del resto svuotata dall’at-tuale legge elettorale che ha alterato l’oggetto stesso della rappresentanza: i parlamentari, essendo di fatto nominati dai vertici dei partiti, rappresentano oggi, più che gli elettori, coloro che li hanno nominati e dai quali dipendono.
Ebbene, questa idea dell’onnipotenza del capo quale incarnazione della volontà popolare è al tempo stesso antirappresentativa e anticostituzionale. È innanzitutto anti-rappresentativa, dato che nessuna maggioranza e tanto meno il capo della maggioranza può rappresentare la volontà del popolo intero e neppure quella della maggioranza degli elettori. (...).
Ma quell’idea è anche radicalmente anti-costituzionale, dato che ignora i limiti e i vincoli imposti dalle costituzioni ai poteri della maggioranza riproducendo, in termini parademocratici, una tentazione antica e pericolosa, che è all'ori-gine di tutte le demagogie populiste e autoritarie: l'opzione per il governo degli uomini, o peggio di un uomo - il capo della maggioranza - contrapposto al governo delle leggi e la conseguente insofferenza per la legalità avvertita come illegittimo intralcio all’azione di governo. Fu proprio questa concezione che fu rinnegata dalla Costituzione del ‘48 all’indomani della sconfitta del fascismo, che dopo aver conquistato il potere con mezzi legali, distrusse la democrazia edificando un regime totalitario proprio sull’idea del capo come espressione diretta della volontà popolare. (...).

2.2. I conflitti di interesse ai vertici dello Stato
Il secondo fattore di crisi della rappresentanza politica è la progressiva confusione e concentrazione dei poteri. Mi riferisco - ancor più che alla lesione, che pure è costantemente tentata, del principio della separazione tra i pubblici poteri, e in particolare dell’indipendenza del potere giudiziario - al progressivo venir meno di una separazione ancor più importante, che fa parte del costituzionalismo profondo dello Stato moderno: la separazione tra sfera pubblica e sfera privata, ossia tra poteri politici e poteri economici.
Il tramite di questa confusione di poteri è costituito dal conflitto di interesse, che in Italia ha assunto le forme, senza confronti e senza precedenti, della concentrazione nelle stesse mani dei poteri di governo, di un enorme sistema di interessi e di poteri economici e finanziari, nonché dei poteri mediatici assicurati dal quasi monopolio dell'informazione televisiva. Al punto che non può neppure parlarsi, propriamente, di conflitto di interessi, bensì di un aperto primato degli interessi privati del presidente del consiglio sugli interessi pubblici e di una subordinazione dei secondi ai primi (...).
Per questo possiamo parlare, a proposito dell’anomalia italiana, di una singolare regressione premoderna allo stato patrimoniale contrassegnato da connotati populisti (...), che si manifesta in una sorta di privatizzazione o di appropriazione privata della sfera pubblica. Si tratta di un fenomeno nuovo nella storia delle istituzioni politiche, non paragonabile alla vecchia degenerazione della sfera pubblica, quando la politica era corrotta, comprata e subordinata agli interessi economici privati e tuttavia da questi pur sempre distinta e separata. Allora, all’epoca di “Tangentopoli”, fu svelato un rapporto corrotto ed occulto tra politica ed economia. Ma il rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, per quanto corrotto, rimaneva pur sempre un rapporto di distinzione e di separazione. Oggi, dalle collusioni occulte fra interessi pubblici e interessi privati su cui si era retto il vecchio sistema della corruzione si è passati alla loro confusione esplicita e istituzionalizzata, in forza della quale alla vecchia corruzione, peraltro non venuta meno a causa della voracità del nuovo ceto politico, si è sostituita la diretta gestione politica dei propri personali interessi: sia che si tratti dell’abolizione delle imposte sulle successioni e sulle donazioni, o dell’approvazione a ripetizione di leggi ad personam in materia di giustizia, o della censura del dissenso e dell’informazione, o della difesa e del rafforzamento del monopolio televisivo. (...).
     
2.3. La spoliticizzazione e la corruzione del senso civico
C’è poi un secondo aspetto, per così dire dal basso, della crisi della democrazia politica: lo sviluppo del qualunquismo che si manifesta da un lato nell’omologazione dei consenzienti, dall’altro nella denigrazione dei dissenzienti. La denigrazione dei dissenzienti si manifesta in una pluralità di divisioni e di rotture della solidarietà sociale all’insegna dell’op-posizione amico/nemico, bene/male, amore/odio. Dove il nemico ha sembianze sociali o politiche o culturali: gli immigrati, i delinquenti di strada, i comunisti, l’opposizione, la libera stampa, gli intellettuali, il sindacato, la magistratura. In tutti i casi è un nemico che mente e complotta, per il quale vengono riesumate vecchi categorie della propaganda fascista: sono disfattiste, anti-nazionali e anti-italiane le critiche della stampa e dell’opposizione; sono eversivi i processi e le indagini giudiziarie. In particolare, sono complotti - gestiti dai comunisti - i processi penali oppure le rivelazioni scandalistiche sulla vita privata del capo.
L’omologazione dei consenzienti, d’altro canto, avviene per il tramite della spoliticizzazione di larghi settori dell’elet-torato, che si manifesta, oltre che nell’astensionismo o nel qualunquismo, nel declino del senso civico e nell’indebo-limento dell’opinione pubblica. Che cosa è infatti l’opinione pubblica? È l’opinione che si forma sulle “questioni pubbliche”, cioè di pubblico interesse perché riguardanti gli interessi di tutti; e che perciò viene meno allorquando si dissolve in una somma di opinioni vertenti tutte sui molteplici e diversi interessi personali. (...).
Ebbene, la distruzione dell’opinione pubblica avviene con la disinformazione e con la menzogna. Ma avviene soprattutto allorquando viene promosso il disinteresse e l’indifferenza per gli interessi pubblici: quando dall’oriz-zonte politico del cittadino svanisce l’idea stessa di “interesse generale” e la sua attenzione politica viene rivolta soltanto ai suoi interessi personali e privati, assunti come criteri esclusivi della sua valutazione politica, a cominciare da quella che si manifesta nell’esercizio del diritto di voto.  È chiaro che questa indifferenza dei cittadini per gli interessi generali e questo loro isolamento nei loro interessi privati formano il miglior terreno di coltura della passivizzazione politica e, con essa, del populismo e della delega a un capo. C’è una pagina assai nota di Tocqueville, di straordinaria attualità, che illustra questo nesso tra depressione dello spirito pubblico e dispotismo: “Il dispotismo”, scrisse Tocqueville, “vede nell'isolamento degli uomini la garanzia più certa della propria durata, e in generale mette ogni cura nel tenerli se-parati... Innalza barriere tra loro e li divide”, “fa dell'indif-ferenza una specie di virtù pubblica”, li trasforma in una “folla innumerevole di uomini” ciascuno dei quali “vive per conto suo ed è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca ma non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso, e se ancora possiede una famiglia, si può dire per lo meno che non ha più patria”. E aggiunge: il potere dispotico “è contento che i cittadini si svaghino, purché non pensino che a svagarsi”.

3. I rimedi alla crisi: quattro indicazioni
Ebbene, di fronte a questo processo di decostituzionalizzazione, noi pensiamo che la sinistra debba opporre una rigida difesa dell’assetto costituzionale della nostra democrazia; che debba liberarsi dall’egemonia culturale della destra, nella consapevolezza che oggi l’attacco è non tanto e non solo alla Costituzione italiana del ’48, ma al costituzionalismo quale sistema di limiti e vincoli a tutti i poteri; e che è soprattutto il valore del costituzionalismo che venti anni di tentativi di riforma regressiva della nostra Costituzione hanno logorato e messo in crisi nel senso comune. In questa prospettiva ci sembra che possano formularsi quattro indicazioni, che richiedono tutte un mutamento della politica costituzionale della sinistra.

3.1. Abbandonare ogni progetto di riforma complessiva
La prima indicazione è che le forze di opposizione dovrebbero abbandonare, almeno in questa legislatura, ogni progetto di riforma costituzionale complessiva. Con questa destra, dovrebbe ormai essere chiaro, le uniche riforme possibili sono quelle dirette a trasformare il nostro sistema in senso autocratico e padronale. Ne sono prova i due progetti di riforma costituzionale proposti dalla destra – la loro carta di identità costituzionale, per così dire – diretti inequivocabilmente a trasformare in costituzione formale la decostituzionalizzazione di fatto prodottasi della nostra democrazia: la riforma varata nella legislatura 2001-2006 e bocciata dal referendum e la bozza di revisione in 37 articoli dell’intera carta costituzionale, consegnata al presidente Napolitano dall’on. Calderoli all’indomani delle elezioni regionali.
(...) Certamente, grazie alle divisioni della destra, questo progetto sarà accantonato. Dobbiamo però prendere atto del suo carattere sovversivo e della mancanza di senso del limite di questa destra; la cui impudenza è ormai arrivata al punto che dalle leggi ad personam si vorrebbe passare alla costituzione ad personam, la cui unica, trasparente finalità è chiaramente quella di fare dell’attuale presidente del consiglio un autocrate incontrastato e incontrollato.

3.2. Solo revisioni specifiche 
La seconda indicazione, che suggerisce anche un forte argomento da opporre alle proposte della destra, è che la nostra Costituzione non consente la sua integrale riscrittura, ma solo singoli emendamenti. (...). L’art.138 che ne disciplina l’esercizio non consente perciò che con legge di revisione possa scriversi una costituzione interamente nuova e diversa. Consente solo revisioni specifiche di questa o quella norma costituzionale consistenti in emendamenti di contenuto omogeneo: se non altro perché il referendum cui la revisione può essere sottoposta non deve riguardare, come la Corte costituzionale ha più volte ribadito, istituti eterogenei in ordine ai quali l’elettore può avere opinioni in parte favorevoli e in parte sfavorevoli. (...).
Del resto le costituzioni serie non si modificano ad ogni cambio di stagione. Pensiamo a come sarebbe accolto negli Stati Uniti un progetto di riforma complessiva della Costituzione del 1786. Naturalmente questo non vuol dire che la Costituzione del ‘48 non sia, in tempi migliori, modificabile. Il costituzionalismo può ben essere sviluppato, come dimostrano le costituzioni di terza generazione dell’America Latina. 
(...) Ma pensiamo, soprattutto, alla prospettiva sempre più urgente di un costituzionalismo globale, che introduca idonee garanzie a quell’embrione di Costituzione del mondo che già oggi è costituito dalla Carta dell’Onu, dalla Dichiarazione universale dei diritti del ’48, dai Patti del 1966 e dalle tante carte sovranazionali dei diritti di carattere regionale: un costituzionalismo globale in grado di mettere al bando le guerre e di colmare quel vuoto di diritto pubblico, responsabile oggi, nell’attuale crisi delle sovranità statali, di una globalizzazione selvaggia e senza regole che sta provocando la crescita delle disuguaglianze, la morte per fame o per malattie non curate di milioni di esseri umani ogni anno, le tante catastrofi ambientali e il pericolo per la sopravvivenza stessa dell’umanità sul nostro pianeta.

3.3. Una sola urgente riforma
Frattanto, ed è questa la nostra terza indicazione, c’è una sola, urgente riforma che le forze di opposizione dovrebbero promuovere, quella dell’art. 138 Cost. in tema di revisione della Costituzione medesima: la previsione, per ogni revisione, di una maggioranza qualificata di almeno due terzi dei componenti del Parlamento; l’esclusione da qualunque revisione, ma solo la possibilità di espansione e rafforzamento, dei diritti fondamentali e dei principi supremi, come l’ugua-glianza, la dignità della persona, la pace e la separazione dei poteri; infine l’esplicita limitazione, oggi solo implicita, del potere di revisione, cui non dovrebbero essere consentiti tentativi di riforma dell'intera costituzione, ma solo l’approvazione di emendamenti di questa o quella singola e determinata norma costituzionale.

3.4. Il metodo elettorale proporzionale
Infine, e vengo alla questione più dolente, la legge elettorale. L’esperienza di questi anni dovrebbe averci insegnato che, a tutela dell’uguaglianza nel diritto di voto e contro le derive populiste, la sola garanzia è il metodo elettorale proporzionale e il sistema parlamentare. Solo la democrazia parlamentare basata sul metodo proporzionale, favorendo lo sviluppo dei partiti e per il loro tramite la rappresentanza di interessi sociali e di opzioni politiche diverse e talora in conflitto, è infatti idonea a garantire il pluralismo politico e la rappresentanza dell’intero elettorato e ad impedire involuzioni monocratiche generate invece, come nei sistemi maggioritari, dalla personalizzazione della rappresentanza. (...).
Sarebbe perciò necessario, a questo punto, un sereno bilancio degli effetti perversi del bipolarismo. Il sistema bipolare è una sorta di stampo calato sulla società, che artificialmente ne nega il pluralismo politico, mortifica i dissensi, offusca le differenze degli interessi rappresentati, semplifica la complessità sociale costringendo gli elettori a schierarsi con una delle parti in conflitto e trasformando le elezioni in una partita nella quale si vince anche solo per un punto. Un’esigua minoranza di elettori incerti, prevalentemente spoliticizzati e più degli altri esposti al condizionamento della propaganda, decide infatti l’esito delle elezioni con un alto grado di casualità. È così che questo sistema ha distrutto i partiti, ha allargato il fossato tra ceto politico e società, ha ridotto le competizioni elettorali a guerre di spot tra coalizioni che si contendono il centro e quindi devono essere tanto più rissose quanto più devono tendere ad omologarsi. (...). Ma soprattutto il sistema bipolare, favorendo la personalizzazione della rappresentanza e il culto del capo, ha cambiato il senso comune sulla democrazia, fornendo il principale sostegno alla sua involuzione in senso populista e autoritario.
Oggi la scelta bipolare continua ad essere difesa, in Italia, dalla maggioranza delle forze politiche, incluse, incredibilmente, le forze della sinistra che ne hanno subito i danni maggiori. Dobbiamo invece riflettere sui guasti da essa prodotti. (...).
Concludo con un’ultima osservazione. Certamente, fino ad oggi la democrazia costituzionale e la Costituzione italiana hanno resistito, grazie all’effettività della separazione dei poteri: dell’indipendenza della magistratura ordinaria e della giurisdizione costituzionale. Ma non possiamo essere certi che questa resistenza, di carattere solo istituzionale, non sarà travolta, se proseguirà la corruzione del senso comune in materia di democrazia. Esiste infatti un’interazione tra involuzione istituzionale e senso comune: l’opinione pubblica può ben essere trasformata e corrotta dalla demagogia politica sviluppata dal sistema politico-mediatico e retroagire in suo favore sotto forma di consenso di massa. Per questo ciò che oggi soprattutto si richiede è lo sviluppo, a sinistra, di una cultura costituzionale opposta e alternativa a quella della destra e, insieme, un forte impegno di pedagogia civile, diretto a rifondare nel senso comune i valori del costituzionalismo democratico: del pluralismo politico e istituzionale, dei principi di uguaglianza e dignità delle persone, del ruolo di difesa degli interessi generali spettante alla politica e, soprattutto, di una concezione della democrazia come sistema fragile e complesso di separazioni ed equilibri tra poteri, di limiti di forma e di sostanza al loro esercizio, di garanzie dei diritti fondamentali, di tecniche di controllo e riparazione contro le loro violazioni.

Luigi Ferrajoli

31.07.2010



Fonte: http://www.adistaonline.it/index.php?op=articolo&id=47589

venerdì 29 gennaio 2010

Cristo, conversione dei cuori

Dal Convegno del 12 dicembre 2009 “Don Mazzolari e padre Bergamaschi, due pellegrini verso la verità”


Mi associo ai saluti e ai ringraziamenti rivolti fino ad ora ai presenti, presenti sia di qua che di là dal tavolo.

Sull’argomento dell’incontro faccio una permessa: parlerò principalmente di padre Aldo. Dico principalmente perché anche quello che dirò del suo maestro don Primo non è solo lettura mia ma, per lo più, lettura del discepolo padre Aldo. Dico subito che i due profeti sono stati i cantori di una utopia tanto celebrata e osannata quanto letteralmente tradita: l’utopia del Vangelo. So che l’utopia, in genere, è sempre un po’ derisa, ma a torto. L’utopia è in realtà la molla che spinge avanti di nascosto la storia. E questo lo dimostra proprio l’utopia del Vangelo. Se l’utopia fosse solo da deridere bisognerebbe strappare il Vangelo o buttarlo via. Ma nessuno, lo condivida o meno, ha il coraggio di farlo: grazie a Dio, ovviamente. Don Primo cantò il Vangelo da poeta, fu “il poeta del Vangelo”. Padre Aldo lo celebrò da filosofo, fu “il filosofo del Vangelo”. É una prima differenza da sottolineare che incide anche sui messaggi profetici dell’uno e dell’altro. Il poeta si lascia avvincere dalla bellezza della forma, il filosofo, invece, si sofferma sulla quadratura dei contenuti.

Ma c’è un’altra più importante differenza da sottolineare. Sul piano ecclesiale, il parroco di Bozzolo ha conosciuto gli incipienti e timidi entusiasmi dei rinnovatori preconciliari. Inoltre, sul piano politico-sociale, ha vissuto gli entusiasmi iniziali della riconquistata democrazia. E unitamente alla rinnovata democrazia ha vissuto la nuova realtà storica dei cattolici al potere. Invece, il cappuccino reggiano ha conosciuto gli entusiasmi conciliari prima, ma poi le misurate successive delusioni. Parallelamente, sul piano politico-sociale, ha sofferto le delusioni dell‘occupazione del potere da parte dei cattolici, nonché la loro successiva diaspora, Una diaspora, va detto, in linea con il pluralismo delle opzioni politiche, certificato autorevolmente anche dal Concilio Vaticano II. Un pluralismo, va aggiunto, che doveva rafforzare l’autonoma presenza dei cattolici in campo politico, che invece è stato praticamente cancellato dall’assunzione diretta e unitaria da parte della gerarchia ecclesiastica in nome dell’unità dei valori.

Orbene, sia la differenza delle tempre spirituali che le differenze delle fasi storiche, vissute dai due testimoni, hanno sicuramente inciso sulle idee e sul significato della loro testimonianza. Ed è proprio alla luce dei diversi quadri generali che si capiscono meglio, a mio giudizio, le affinità e le diversità di pensiero. Senza santificare i morti, mi permetto, ora, di esporre, nel tempo concesso, due temi tra quelli sicuramente di maggior spicco:
a) il cristianesimo come “novità esistenziale” e non come religione;
b) la città (polis) organizzata secondo l’amore cristiano.

Prendiamo il primo tema, cioè il cristianesimo non è una religione ma una “novità esistenziale”. Non entro nella discussione se Gesù Cristo avesse voluto o meno fondare una nuova religione. Certo è che padre Aldo non è il solo a definire la “religione” in una accezione negativa, cioè di tomba della fede. La Chiesa - non il Mondo, la Chiesa - ha crocefisso Cristo, scriveva con accentuata enfasi negli anni cinquanta del secolo scorso il teologo protestante Karl Barth.

In questa accezione negativa, per religione si intende l’esteriorità del rito, delle opere, della legge e dei dogmi anziché l’interiorità della fede, della vita, dello spirito e dell’esperienza personale. Ma c’è di peggio: la religione è diventata la tomba della fede cristiana quando da Costantino in poi, con il connubio spada-pastorale, la Chiesa ha fatto proprie le tentazioni di Satana che Cristo invece aveva decisamente rifiutate nel deserto, e precisamente: le tentazioni dell’autoritarismo dogmatico, del fascino manipolante del mistero e della forza perversa del potere temporale. Un potere temporale esercitato talvolta nella versione papicesarista (il Papa che strumentalizza Cesare), talvolta nella versione cesaropapista (Cesare che strumentalizza il Papa). Su queste tentazioni diaboliche fatte proprie dalla Chiesa nella storia, ricordo volentieri quello che mi disse di persona padre Aldo in una appassionata conversazione in convento. Mi disse esattamente: sul comodino di fianco al letto tieni sempre, vicino al Vangelo, la magnifica leggenda de “Il grande inquisitore” di Dostoevskij.

Al cristianesimo “caduto a rango di religione” il cappuccino reggiano contrappone il cristianesimo che si fa vita concreta del comandamento dell’amore, che si fa conversione del cuore (metanoia soleva ripetere spesso). Conversione del cuore che vuol dire - cito testualmente - «eliminare le contraddizioni della natura caduta non consentendo aggiornamenti commisurati ai propri vizi, bensì favorendo la responsabilità, in positivo, a mostrare appunto la novità della fede». Cristianesimo uguale, dunque, a novità di vita.

Ci dobbiamo ora chiedere: quali sono i cardini portanti una tale novità? La risposta di padre Bergamaschi è chiara e netta. Anzitutto c’è il cardine della fede. «Non credo nei miracoli, - diceva e scriveva il cappuccino - non credo nei miracoli della bacchetta magica perché sono cristiano, e in quanto tale credo solo in due interventi di Dio nel mondo: nella creazione e nella redenzione». La Verità sta in questa duplice sorgente: nella natura del creato e in Gesù Cristo, il Verbo (Logos) di Dio che si è fatto carne. In altre parole: la Verità si legge anzitutto nella creazione e poi nella Parola di Dio comunicata direttamente e una volta per sempre da Gesù. In Gesù, precisa padre Aldo, «nato e morto, ma non rimasto come non venuto dalla Palestina, ove la supposta “religione” rivelata aveva raggiunto il massimo della corruzione ... Venuto in Palestina - aggiungeva - per spezzare il legame che la religione aveva costruito tra un gruppo umano e Dio». Dopo di Lui chi crede nella rivelazione del Vero Dio ha l’obbligo di mostrare a tutti il suo Messaggio in cui sta la soluzione dei problemi umani per il fatto autenticamente rivoluzionario che mette al posto dell’«etica dell’homo homini lupus (l’uomo che si fa lupo per l’altro uomo) l’opposta’etica dell’homo homini Deus (l’uomo quale volto di Dio per l’altro uomo)». Altro che l’imperante individualismo “fai da te” dei nostri giorni!

Un altro importante cardine fondante la personale novità esistenziale è il rapporto che si viene a stabilire tra Cristo (cioè la Parola di Dio) e la Chiesa (cioè Popolo di Dio e Gerarchia Ecclesiastica compresa). Anche qui il pensiero di padre Aldo è chiaro, senza giri di parole. La Chiesa va definita, nella sua interezza comunitaria, come medium in quo, cioè come mezzo entro il quale tutti cerchiamo di comprendere il messaggio di Cristo. La Chiesa, considerata solamente nella sua struttura gerarchica, pertanto, non è il medium quod, cioè il mezzo, esso solo, che fa conoscere la verità. In altre parole, la gerarchia ecclesiastica fa un “servizio” che aiuta il Popolo di Dio a conoscere la verità, ma non ha il compito di “comandare” la verità. Solo se stiamo tutti (popolo di Dio e Gerarchia compresa) “sotto la Parola” si può dire, come si legge negli Atti degli Apostoli, che «si deve obbedire prima a Dio che agli uomini».

Certamente esiste un problema ermeneutico, vale a dire il problema di leggere correttamente il Vangelo. Ciò esclude, ad ogni buon conto, che l’autorità del magistero ecclesiastico debba porsi al di sopra della libertà di coscienza di ogni credente, guidato da una robusta razionalità sorretta - sostiene il Bergamaschi - dal Principio di non contraddizione. Siamo, come si vede, al rischio della libertà. Il rischio che in più grossa misura tocca i profeti e ne costituisce il loro tormento. Quel rischio che hanno conosciuto tanto padre Aldo quanto don Primo. Anche il parroco di Bozzolo aveva infatti sollevato il problema della identificazione di Verità e Chiesa. Qualcuno - ha scritto - fa troppo facile il passaggio dal Cristo persona al Cristo Chiesa, da una Umanità uscita dal seno purissimo di Maria Vergine a una umanità che siamo noi tutti, con le nostre tristezze.

Non entro nei dettagli dell’inevitabile e appassionato dramma dell’ubbidienza all’autorità gerarchica, specie da parte di chi ne ha fatto voto nella sua vocazione sacerdotale. Vorrei semplicemente notare la grande ma anche diversa nobiltà di stile dimostrata, pure in questo campo, dai nostri due testimoni di Cristo. Basta leggere attentamente le loro lettere di obbedienza al richiamo severo rivolto loro dalle rispettive legittime autorità. Nel 1951 don Primo, rispondendo alla lettera che gli vietava di scrivere sul suo Adesso, tra l’altro afferma: Adesso è meno di un attimo, mentre la Chiesa è la custode dell’Eterno ed io voglio rimanere nell’Eterno. Il che pare identificare tout-court Cristo con la Chiesa. Trentasette anni dopo, Padre Aldo, attenendosi all’insegnamento di Gesù, scrive tra l’altro ai suoi censori: «nell’ipotesi che qualcuno vi perseguiti o vi calunni pregate per loro». Il che mi sembra rispettare coerentemente la primalità di Cristo sulla Chiesa.

Passo, ora, al secondo tema annunciato: la società organizzata secondo l’amore cristiano. A dire il vero, se penso al perverso individualismo esagerato che sospinge molta, troppa gente ad appoggiarsi all’ideologia dei ricchi e dei potenti come uscita dalla loro miseria (un virus dell’individualismo che contagia persino il poverissimo continente africano), se penso a questo, ciò che ora dirò potrà sembrare una favola. Ma non posso non raccontarla brevemente nella speranza di una inedita “primavera dei cuori”. Padre Aldo cammina con logica stringente sul filo del comandamento di Gesù: Amatevi come io vi ho amato, cioè - precisa il cappuccino - senza profitto. É la carta costituzionale della sua polis cristiana che innerva i tre maggiori filoni del vivere sociale: l’eros, il denaro e il potere. Si tratta - afferma il nostro cappuccino - di finalizzare il sesso, il denaro e il potere evitando di farli fini a se stessi: il sesso per il sesso, il denaro per il denaro, il potere per il potere.

Entriamo così in Telergo, il luogo ideale a cui ha accennato il coordinatore di questo incontro, l’amico Nando Cottafavi. Il lavoro (ergon) realizza il suo fine (telos) solo quando genera e controlla il capitale. In breve, il capitale è comunitario, il frutto del lavoro viene suddiviso fra tutti così da soddisfare in modo uguale i bisogni di ognuno (parabola dei vignaioli) indipendentemente dalle mansioni e dai talenti dei singoli (parabola dei talenti). Questo non significa, sia chiaro, contestare la ricchezza e il progresso ma vivere la povertà intesa come uguaglianza contro le disparità talvolta stratosferiche derivanti dalla logica del profitto. E tutto ciò, infine, non perché imposto dall’alto in nome della legge bensì perché sentito e condiviso come espressione di fratellanza.

Padre Bergamaschi era consapevole della radicalità cristiana del suo progetto politico. Il che lo induceva a definire il progetto politico di don Mazzolari una «sinfonia incompiuta» che lo affaticava inutilmente per portare la fiaccola del risveglio cristiano nella democrazia soltanto formale del suo tempo, poi in continuo degrado. Padre Bergamaschi aveva anche un’anima profondamente laica, non in contraddizione, come vedremo, con la sua radicalità cristiana. Un’anima laica che non voleva imporre la propria visione del mondo e la propria etica a nessuno. Orbene, quest’anima lo ha condotto a proporre la «divisione delle etiche» nel senso che ogni etica potesse organizzarsi entro una propria area territoriale onde mostrare la propria validità senza offendere le altre; e ciò secondo un ordinamento impersonato da un Governo mondiale.

Realisticamente, la semplicità lineare ed elementare di una tale proposta cristiana radicale non trova spazio in un mondo complesso. Ma, a mio parere, può diventare una testimonianza fattibile nella veste di un nuovo tipo di monachesimo di ordine non religioso. Un monachesimo che si può realizzare in oasi di luce possibili in un mondo frantumato e conflittuale, impregnato di ossessive ricerche identitarie entro una perversa forma di globalizzazione.

Mi avvio alla conclusione con una riflessione sulla funzione della profezia nella storia. I profeti non sono quelli che prevedono il futuro, non sono dei veggenti. Sono, in realtà, dei portatori e dei testimoni di una verità. Sono, più semplicemente ancora, dei grandi educatori dell’umanità che parlano in nome di Dio. Il problema è di sapere ascoltare i profeti, senza lavarsene troppo facilmente le mani. Conosciamo tutti la definizione data da Papa Giovanni XXIII di don Mazzolari nell’udienza in Vaticano l’anno 1959: Tromba dello Spirito Santo in terra mantovana. Senza dubbio un alto riconoscimento. Pure tutti conosciamo il giudizio espresso successivamente da Papa Paolo VI: Aveva il passo troppo lungo; noi si stentava tenergli dietro. Ha sofferto lui, abbiamo sofferto anche noi. È il destino dei profeti. É vero che c’è della sofferenza. Non mi piace, però, quando il realismo del passo lento diventa un alibi per tenere il passo del gambero. Più che alla sofferenza mi piace guardare alla francescana “perfetta letizia”, come è stata definita dal nostro padre cappuccino con un linguaggio da nuova frontiera: un gridare “selliamo i cavalli” quando c’è in giro il gusto borghese del bivacco.

A questo punto mi domando: sulla scia dei due pellegrini verso la verità, quali linee di presenza cristiana si possono tracciare per dare alla realtà dei nostri giorni una speranza di futuro meno preoccupante? Gli appassionati scritti e le vibranti parole (dette sia in pubblico che in privato) hanno lasciato viva l’impronta di una Chiesa profetica che sintetizzo in alcune istanze distintive:

Anzitutto, il bisogno di una Chiesa della spiritualità. Prima della ripetizione formale dei riti, dell’istituzione chiusa in se stessa, della tradizione di dogmi rigidi che fabbricano Dio a immagine e somiglianza dell’uomo che vive nel tempo, anziché sospingere l’uomo in avanti fino a somigliare sempre più a Dio; prima di tutto questo c’è il bisogno della “novità esistenziale”, ricordata sopra. In una filippica accorata rivolta alla politica del suo tempo, don Primo ha scritto sull’Adesso: Oggi non conta l’uomo di sinistra né l’uomo di destra, né di centro, ma solo la “nuova creatura”. Questa è la casa da cui partire per il rinnovamento. Non conta cambiare l’età o il nome; conta il cuore nuovo. Chi non parte da qui si riempie di rinnovamento solo la bocca.

Un altro segno lasciato in eredità è la domanda di una “Chiesa della fratellanza”. Oltre la carità agli azzoppati - ripeteva spesso padre Aldo - è doveroso correggere il sistema che crea gli azzoppatori. Parallelamente, la ricerca identitaria vale fino a che non si trincera dietro il proprio egocentrismo ma che si apre all’altro, diverso o meno che sia,.ovviamente dentro l’invito senza paura al rispetto vicendevole.

Ultimo importante segno lasciato dai nostri profeti è l’appello per una Chiesa maestra di autentica laicità, cioè lontana dalla sempre ricorrente tentazione teocratica. Data la cruciale attualità dell’argomento, spendo in proposito poche parole. In primo luogo, sottolineo che la laicità non è un’etica ma un atteggiamento etico di rispetto di tutte le etiche, religiose e non. Ciò evita l’errore di chi continua a confondere, con incredibile ritardo culturale, laicità con non-credenza per cui si contrappone ancora spesso, per esempio, laico a cattolico. La vera contrapposizione, invece, sta tra laicità e fondamentalismo (o integralismo che dir si voglia). Di conseguenza si devono definire fondamentalisti sia i credenti cattolici, sia i diversamente credenti e sia i non credenti, così come si devono definire laici sia gli uni che gli altri. La specificità di quest’ultimi sta nella saggezza di agire da credenti nella ecclesìa e da cittadini nella polis.

In secondo luogo, la laicità è autentica se è positiva, cioè capace di dare spazio pubblico a tutte le etiche. Non è quindi agnostica, alla francese per intenderci, nel senso di ridurre le etiche (religiose o non) a fatto privato. La laicità positiva, inoltre, non esclude valori civili comuni. In altri termini non esclude un ethos condiviso che consenta concretamente la convivenza pacifica di tutte le etiche. Si tratta, in sostanza, di dar vita a quell’ethos meta-politico di cui hanno parlato, in dialogo costruttivo, Papa Benedetto XVI e il filosofo Habermas. Un ethos globale, tipo una aggiornata “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” deliberata dall’ONU esattamente 51 anni fa; un ethos globale che escluda la logica cosiddetta democratica del numero e sia invece frutto di un dialogo alla pari tra tutte le etiche senza imposizioni da parte di alcuna. Affrontare con questo spirito laico e meta-politico insieme le questioni, tanto per esemplificare, di bioetica o l’educazione al pluralismo etico-religioso nella scuola, invertirebbe il pericoloso degrado della democrazia, dei costumi e dei rapporti tra le civiltà.

Una Chiesa profetica, come sopra triplicemente segnata dai nostri due grandi educatori, pone a suo fondamento una scelta coraggiosa e coerente: la scelta di non inseguire la croce di Costantino ma di seguire fedelmente la croce del Golgota. Quella vera di Gesù che ha predicato e vissuto, fino al prezzo della vita, la distinzione tra il Regno di Cesare nella sua dura storicità e il Regno di Dio nel suo profondo mistero di Verità-Amore. Certo, e concludo, abbiamo molto bisogno di profeti per apprendere l’apparente paradosso di vivere, unitamente distinti, il Gesù della storia e il Gesù della fede.


Nando Bacchi

venerdì 20 novembre 2009

Opus Dei segreta



A Sua Santità Benedetto XVI,

[...] ho assistito con il dolore che solo una madre può provare, alla totale trasformazione di mio figlio, entrato come «numerario» nell’Opus Dei. Mi sono ritrovata di fronte a un figlio svuotato degli affetti che prima nutriva per i genitori e i familiari, un giovane al quale sembrava stravolta l’anima e il cuore.

Il direttore spirituale, neppure sacerdote ma laico, messo appositamente al suo fianco dirigeva la sua vita, le sue scelte e pian piano cambiava la sua personalità plasmando un essere umano nuovo, duro e inflessibile, totalmente sconosciuto ai miei occhi. Tutto ciò che lo riguardava era avvolto dal mistero, tutto era tenuto nascosto.

La nostra famiglia ha accusato un duro colpo e stava per disgregarsi a causa dell’Opus Dei. Solo la vera Fede è riuscita a tenerla unita contro un potere oscuro, perché di questo si tratta: l’Opus Dei offusca la mente e gli occhi di giovani buoni provenienti da sane famiglie e quindi facili prede. Sono molte ormai le testimonianze di genitori che si vedono sottratti i figli (soprattutto adolescenti) con un indottrinamento basato sulla manipolazione e sulla cieca obbedienza scevra da critiche.
Sappiamo bene che tutti gli adepti devono far affluire denaro all’Opus Dei. Stipendi «confiscati» insieme a ogni altro bene materiale. Se un membro tenta di uscire per ricostruirsi una nuova vita, inizia un forte accanimento…
(dalla lettera di Franca Rotonnelli De Gironimo, 20 novembre 2007, a oggi senza risposta)

Esiste un mondo dell’Opus Dei che molti ignorano. In questo libro proviamo a raccontarlo. Per quattordici anni sono stata numeraria dell’Opera. Ho svolto incarichi di direzione a Milano, presso il Tandem Club di viale Lombardia, e a Verona, presso la residenza universitaria Clivia di via Severo Tirapelle. La mia prima testimonianza pubblica è stata riportata nel libro Opus Dei segreta del giornalista Ferruccio Pinotti (Bur-Rizzoli 2006). Da quel momento si sono moltiplicati i contatti con chi, ex numerari o famiglie di numerari, mi cercava per saperne di più, per condividere esperienze, denunciare trattamenti subìti, l’isolamento e l’abbandono dopo l’uscita dall’organizzazione, la difficoltà di ricostruirsi una vita.

Insieme con molti ex numerari italiani ci siamo ritrovati, a partire dalla primavera del 2008, in un forum on-line riservato e non accessibile, per cercare di costruire anche in Italia quello che già da qualche anno esiste, non senza difficoltà e ostacoli, in Spagna e negli Stati Uniti, cioè degli spazi critici di analisi su cosa davvero sia l’Opus Dei, gestiti soprattutto da ex membri, persone che parlano perché sanno, hanno visto e vissuto sulla propria pelle l’integralismo e la potenza dell’organizzazione.

Da Bari a Milano, da Palermo a Verona, le testimonianze raccolte rispondono a quanti, dopo l’uscita di Opus Dei segreta, hanno isolato la mia voce come frutto di una vicenda del tutto personale. Un caso umano. E anche alle critiche di chi mi diceva: «Sapevi dove stavi andando, nessuno ti ha obbligata». Mettere insieme più voci può aiutare a raccontare una verità taciuta. Non sapevamo a cosa andavamo incontro. Sapevamo di entrare in un cammino di santità nel mondo, secondo una spiritualità laica. Invece stavamo avviandoci in un percorso dogmatico e ideologico, nel quale non si accettano critiche, che impone una condotta di vita fin dalla giovane età attraverso questi meccanismi di gratificazione: voi siete la «milizia di Dio», gli «eletti», i «prescelti».

Ci sono in gioco le vite di centinaia di giovani. Questo libro vuole aiutare chi oggi non ha il coraggio di denunciare il proprio malessere per riguadagnare la libertà. E vuole riprendere – attraverso una ricostruzione dei documenti «interni», non ufficiali, che rivelano come è organizzata e come funziona davvero l’Opus Dei –, la questione sollevata da una interrogazione parlamentare di più di venti anni fa, ovvero «se il governo non ritenga che… l’Opus Dei dovrebbe qualificarsi come associazione segreta vietata dalla legge». A noi ex numerari la domanda pare attuale. Chiediamo una risposta che non si limiti a considerare le sole fonti ufficiali dell’Opera.

Emanuela Provera, Chiarelettere

giovedì 5 novembre 2009

Difendo quella croce

[...] Gesù Cristo è un fatto storico e una persona reale, morta ammazzata dopo indicibili torture, pur potendosi agevolmente salvare con qualche parola ambigua, accomodante, politichese, paracula. È, da duemila anni, uno “scandalo” sia per chi crede alla resurrezione, sia per chi si ferma al dato storico della crocifissione. L’immagine vivente di libertà e umanità, di sofferenza e speranza, di resistenza inerme all’ingiustizia, ma soprattutto di laicità (“date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”) e gratuità (“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”).

Gratuità: la parola più scandalosa per questi tempi dominati dagli interessi, dove tutto è in vendita e troppi sono all’asta. Gesù Cristo è riconosciuto non solo dai cristiani, ma anche dagli ebrei e dai musulmani, come un grande profeta. Infatti fu proprio l’ideologia più pagana della storia, il nazismo – l’ha ricordato Antonio Socci - a scatenare la guerra ai crocifissi. È significativo che oggi nessun politico né la Chiesa riescano a trovare le parole giuste per raccontarlo.

Eppure basta prendere a prestito il lessico familiare di Natalia Ginzburg, ebrea e atea, che negli anni Ottanta scrisse: “Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente… Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli scolari ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato morto nel martirio come milioni di ebrei nei lager? Nessuno prima di lui aveva mai detto che gli uomini sono tutti uguali e fratelli. A me sembra un bene che i bambini, i ragazzi lo sappiano fin dai banchi di scuola”.

Basterebbe raccontarlo a tanti ignorantissimi genitori, insegnanti, ragazzi: e nessuno – ateo, cristiano, islamico, ebreo, buddista che sia - si sentirebbe minimamente offeso dal crocifisso. Ma, all’uscita della sentenza europea, nessun uomo di Chiesa è riuscito a farlo. Forse la gerarchia è troppo occupata a fare spot per l’8 per mille, a batter cassa per le scuole private e le esenzioni fiscali, a combattere Dan Brown e Halloween, e le manca il tempo per quell’uomo in croce. Anzi, le mancano proprio le parole. Oggi i peggiori nemici del crocifisso sono proprio i chierici. E i clericali.

Marco Travaglio - da Il Fatto Quotidiano n°38 del 5 novembre 2009

venerdì 30 ottobre 2009

Il carteggio tra don Farinella e le Em.ze Bertone e Bagnasco, cardinali

Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, ha chiesto e ottenuto la pubblicazione sul settimanale cattolico genovese “Il Cittadino” della sua risposta a due mie lettere a lui indirizzate (11-09 e 08-10 2009). La lettera è accompagnata da una seconda, scritta dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e, non possiamo dimenticare, anche presidente della CEI. Lo stesso giorno della pubblicazione ho inviato ai due cardinali la mia risposta, chiedendo che venga pubblicata sullo stesso settimanale. Non credo di pensare male, se dico che non la pubblicheranno mai. Lo hanno fatto già altre volte. Per questo motivo rendo la pubblica come risposta pacata, con una premessa previa.

Premessa
Si narra nel vangelo di Luca (23,12) che Erode e Pilato erano nemici e dopo essersi palleggiato Gesù come uno stravagante, divennero amici. Le mie prese pubbliche sulle attività politiche del Segretario di Stato e del Presidente della CEI (sottolineo politiche, non pastorali o dottrinali) hanno avuto come primo effetto quello di avvicinare i due cardinali che, sul caso Boffo/Feltri, sembravano essersi divaricati. E’ evidente che nella Chiesa io lavoro per la comunione e non per dividere.

Il fatto che due cardinali si compattino per rispondere ufficialmente (carta con tanto di stemma del cardinale Bertone), a mio parere sta a significare che ho toccato nervi scoperti che fanno male, tanto male che i due porporati non rispondono minimamente agli interrogativi che io pongo, ma esprimono il loro disappunto perché non sanno cosa rispondere e forse hanno informazioni più dirette di quelle che posso avere io (non ho servizi segreti a mio servizio) della gravità e della profondità del dissenso all’interno della Chiesa che si configura sempre più come uno scisma sommerso e, oggi, non più tanto silenzioso.

Nel 2009 sono usciti, senza scalpore, ma con notevole impatto, due libri, editi ambedue da Il Segno dei Gabrielli, San Pietro in Cariano (VR), che dovrebbero essere un campanello di allarme per la gerarchia di ciò che sta accadendo nel fiume carsico del mondo cattolico: Piero Cappelli Lo scisma silenzioso. Dalla casta clericale alla profezia della fede e J. M. Castillo, La Chiesa e i diritti umani. Chi vive “sulla strada” vede con sgomento lo scollamento sempre più largo tra la gerarchia cattolica e la vita reale dei credenti che ormai vivono una propria vita con una religiosità personalizzata. Su questo specifico punto, mi riservo di essere più puntuale in una lettera riservata al mio vescovo perché possa valutare e riflettere sulla gravità del momento.

Il cardinale Bagnasco parla delle mie prese di posizione come di “atteggiamento che suscita in molti – cristiani e non – non poco stupore e disappunto”. Mi piacerebbe che fosse più esplicito su questo punto, dicendo “chi, perché e quanti” sono i “disappuntati”. Ricevo migliaia di lettere e solo quattro contestazioni, di cui due sulle mie posizioni nei confronti dei militari morti in Afghanistan (la documentazione è a disposizione, non tanto per la quantità, quanto per i contenuti e le motivazioni). Nessuno può accusarmi di essere malato di protagonismo perché ho rifiutato in questi giorni intervisti a tv locali e nazionali, e quelle che appaiono sono improvvisate. In internet circolano solo un paio di mie foto e non da me divulgate. Non cerco consenso e non sono alla testa di alcun movimento. Testimonio solo per me stesso, da me stesso. Quando ho da dire qualcosa lo comunico a circa un migliaio di persone con le quali sono in contatto. Il resto viene da solo.

Mi è parso di leggere nelle due lettere un velato avvertimento, quasi un avviso ad un successivo provvedimento disciplinare nei miei confronti. Poiché sono prete cattolico per vocazione e per scelta libera e non per convenienza, dichiaro pubblicamente che accetterò qualunque provvedimento inerente la dottrina e la morale e la disciplina canonica, gli unici campi su cui i vescovi hanno competenza su di me e che io riconosco. Lo devono fare però nella debita forma, prevista dal Diritto. I cardinali Bertone e Bagnasco si occupano di politica e di politici e intervengono spesso identificandosi con la Chiesa tout-court compiendo un illecito dal punto di vista teologico perché la Chiesa è molto più ampia della gerarchia che è solo una componente di essa. La materia su sui stiamo discutendo appartiene alle cose fallibili e alle vicende di questo mondo, sulle quali l’opinione dei cardinali si pone sullo stesso piano di quella di chiunque altro. Essi infatti non possono invocare il magistero perché nelle lettere a Bertone e/o a Bagnasco non tocco argomenti di dottrina.

Sono prete cattolico e apostolico, non sono romano perché la romanità non è una caratteristica che rientra tra le quattro espresse nel simbolo niceno-costantinopolitano. Mi avvalgo della mia libertà di valutare ciò che accade nel mio tempo e di leggerlo alla luce del vangelo e del magistero definito. Possono piacere o non piacere il contenuto e il tono, ma nessuno può accusarmi di eresia o di altro inerente la fede. La domanda è le cose che dico sono vere o false? Sono parzialmente vere o parzialmente false? In genere si trincera dietro il tono chi non ha argomenti da contrapporre.

Prego Dio che l’annuncio del Vangelo nella sua purezza prenda il sopravvento sulla diplomazia o i doveri istituzionali che possono oscurare, e di fatto oscurano, il ministero sacerdotale che vescovi preti dovremmo sempre perseguire. Resta il fatto che la presenza del cardinale Bertone a quella mostra, senza una parola altra ha suscitato in moltissimi “– cristiani e non – non poco stupore e disappunto”. Anzi: scandalo.


RISPOSTA di d. FARINELLA AL CARDINALE BERTONE E AL CARDINALE BAGNASCO

Genova, 21 ottobre 2009

Sig. Cardinale,

la ringrazio per la sua risposta alla mia lettera aperta dell’8 ottobre 2009 e le rispondo volentieri, sperando anche che “Il Cittadino”, settimanale cattolico della diocesi di Genova, voglia ospitarmi non dico con la stessa evidenza riservata a lei, su sua esplicita richiesta, ma almeno analoga.

Per prima cosa è meglio sgombrare il terreno delle questioni personali che rischiano di confondere e sulle quali lei fa parecchie confusioni. E’ vero che lei mi ha nominato “Amministratore parrocchiale della parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete”, che dal 1995 non è più “parrocchia personale e gentilizia”, come erroneamente lei dice ancora, nonostante le scrissi a suo tempo, documenti alla mano, perché la famiglia proprietaria vi ha rinunciato dinnanzi al notaio, cedendola alla diocesi. Lei però non dice tutta la verità sul “come” si è arrivati a questa nomina e non certo per la sua “benevolenza nei miei confronti durante il mio episcopato genovese”.

Dopo il mio rientro da Gerusalemme, rimasi ospite nella canonica di San Torpete (da oltre venti anni chiusa al pubblico perché inagibile), ma senza alcun incarico pastorale e per due anni andai a mendicare una chiesa dove celebrare la Messa, nel suo più totale disinteresse. Quando la misura mi parve colma, venni da lei che mi propose di nominarmi “parroco” di San Torpete, parrocchia senza parrocchiani e senza territorio, ormai a parziale restauro terminato, dandomi il mandato di farne un centro culturale. La settimana dopo, testimone l’ausiliare mons. Luigi Palletti, lei si rimangiò la nomina per intervenute difficoltà e mi propose di fare il cappellano di una comunità di sei suore ultraottuagenarie in via al capo di Santa Chiara. Accettai e andai a visitare il posto accompagnato dal vescovo ausiliare e dal vicario dei religiosi, padre Cesare Ghilardi. Splendida vista sul mare di Boccadasse, ma non se ne fece nulla perché non c’era nemmeno lo spazio per sistemare la mia grande biblioteca.

Dopo alcuni giorni, venni di nuovo da lei e le dissi che se mi avesse tenuto ancora senza incarichi in diocesi, unico prete disoccupato, non solo non avrebbe avuto diritto di parlare di crisi di vocazioni e di mancanza di preti, ma che non avrebbe potuto celebrare la Santa Messa in buona coscienza. Alzandomi in piedi aggiunsi che da quel momento lei poteva fare il vescovo della diocesi, ma io avrei fatto il papa di me stesso perché lei mi condannava ad essere un prete acefalo. Presi la mia borsa e me ne andai dal suo studio, ma lei mi corse dietro e mi fermò fisicamente, dicendo al vicario che avrebbe risolto le difficoltà intercorse e confermò la mia nomina a parroco di San Torpete. Dopo un mese, arrivò la sua nomina non a parroco, ma ad “Amministratore parrocchiale”, figura giuridica con le funzioni di parroco, senza esserlo formalmente: insomma lei mi nominò precario a vita, come sono tutt’ora. Il cardinale Bagnasco conosce tutta la storia e anche altro.

Lei tiene a dire che “nei nostri colloqui fraterni ho raccolto le tue difficoltà personali cercando di aiutarti” e io faccio fatica a ricordare “colloqui fraterni” perché nella mia mente sono sedimentati solo ricordi di scontri, compreso quello inerente la nomina a bibliotecario della Franzoniana che lei propose, poi disdisse, poi ripropose e infine lasciò cadere senza nemmeno darmi direttamente una spiegazione plausibile, mentre si permise di dire ad un gruppo di preti che “io ce l’avevo con lei”.

Lei dice che ha “cercato di aiutarmi nelle difficoltà”, e ci tengo a questo riguardo a dire che quando le feci presente, testimone il vicario generale, che in parrocchia non vi erano libri liturgici e arredi utilizzabili per la liturgia, lei mi fece avere dal suo segretario, don Stefano Olivastri, mille euro (che io scrissi nel bilancio della parrocchia, prenotando i lezionari e il messale: i bilanci sono depositati in curia e ho l’avvertenza di allegare anche i sottoconti). Ricevetti una parrocchia immersa nei debiti e inutilizzabile e, forse lei non lo ricorda, per oltre un anno è rimasta chiusa al pubblico, nonostante lei l’avesse inaugurata in pompa magna nel 2005.

Per un anno celebrai nella vicina chiesa di San Giorgio, senza che lei si scomponesse nella sua benevolenza episcopale. Il 7 dicembre 2005 lei venne a casa mia e le feci fare il giro di tutta la chiesa e della canonica e lei si mise le mani ai capelli per lo stato di degrado dei locali dove vivevo, dicendo: “e dire che me l’hanno anche fatta inaugurare!”. Mi disse anche di presentarle un progetto che lei poi propose insieme alla Biblioteca Franzoniana e alla Chiese delle Vigne in quel progetto ministeriale di recupero dei fondi “ex colombiane” e che con enorme fatica sto portando a compimento. Cominciai a celebrare in San Torpete il 16 luglio 2006. In seguito, fu il cardinale Bagnasco a darmi qualche suppellettile da altare che gli avevano regalato. Questo per la precisione. Ora veniamo al resto.

Lei ha ragione nel dire che “come sacerdoti possiamo e dobbiamo lavorare con cuore puro, senza odio e senza preconcetti ideologici”. Come non essere d’accordo? A me pare però che lei confonda la forza, forse anche la veemenza, la sofferenza e l’amore alla Chiesa per odio e ideologia. Posso tranquillizzarla con assoluta certezza: non so cosa sia l’ideologia e non conosco l’odio. Chi mi conosce dice che sono più materno che paterno ed è vero perché sono tenerissimo. Mi pare che lei confonda lo stile letterario con i sentimenti. Dico spesso al cardinale Bagnasco che ho sbagliato secolo: avrei dovuto nascere nel sec. II, quello dei polemisti, più consono al mio stile retorico. Da qui a dire che possa provare odio per lei o per Berlusconi ce ne corre; e molto.

Sig. Cardinale, lei nella sua lettera però non risponde ad alcuno dei problemi che io ho posto e lo ammette: “non commento le tue esternazioni, tanto sono marcate da accuse e interpretazioni infondate”. Libero di farlo, ma gli interrogativi restano nella loro pesantezza perché non mi aiuta a capire dove sta l’infondatezza. La domanda è: le cose che ho dette sono vere o sono false? Se sono vere lei mi dovrebbe ringraziare, se sono false, mi dovrebbe spiegare perché sono false. Lei non fa né l’una cosa né l’altra. Non può limitarsi a fare una semplice predica in cui non tanto velatamente mi fa passare per uno “stravagante”. O Dio, accetto tutto, ma non la non verità!

Al contrario nella sua risposta si domanda: “Che cosa ti fa agire in questo modo offensivo verso di me, verso la Chiesa che è in Genova, il suo presbiterio e il suo Pastore?”. Non capisco perché tira in ballo “la Chiesa che è in Genova, il suo presbiterio e il suo Pastore”, che io non nomino nemmeno. Col cardinale Bagnasco ho un rapporto personale, improntato a reciproca schiettezza e forse anche stima e con lui continuerò a rapportarmi in totale verità perché amo la Chiesa, forse più di Dio.

Se lei si è sentito offeso, sono pronto a chiederle scusa, ma se le cose che ho scritto sono vere soltanto per un decimo, allora lei una qualche scusa la deve dare non a Paolo Farinella, prete, che conta nulla, ma al popolo di Dio che lei dice di servire e che è rimasto scandalizzato dalla sua presenza a quella mostra in quelle circostanze e in quelle ore. Il cardinale Bagnasco parla di “dovere istituzionale”, ma il suo e il mio primo dovere non è “istituzionale” verso un potere corrotto e corruttore, ma di testimonianza di quella Verità che esprime il Vangelo. Molti non hanno letto il suo discorso, per altro abbastanza ovvio, ma hanno visto le immagini che le tv hanno trasmesso: lei era accanto ad un presidente del consiglio, che, in quelle stesse ore, la Suprema Corte Costituzionale rimandava davanti al suo giudice naturale dove è accusato di corruzione di testimone e di giudice e di una serie di altri delitti che lei conosce meglio di me. Egli voleva apparire accanto a lei e voleva che tutti vedessero.

La gente che frequenta le nostre parrocchie dice: se il Segretario di Stato del Papa, va a braccetto con Berlusconi nello stesso giorno in cui la sua corruzione è scoperta, vuol dire che lo protegge. Ne venivamo da una estate di fuoco che avrebbe ammazzato anche una mandria di bisonti: la moglie accusa il marito Presidente del Consiglio di frequentare minorenni; lui spergiura sui figli in tv e dà quattro versioni diverse del fatto; non solo non chiede scusa agli Italiani, ma si vanta di essere il loro modello; si paragona a Dio e a Gesù Cristo; paga le prostitute dando in cambio posti di ministre e di deputate; il suo magnaccia è indagato per tratta di prostitute e commercio di stupefacenti; dispensa al telefono suggerimenti erotici per amori saffici e soffici (registrazioni rese pubbliche); attacca il Presidente della Repubblica e frantuma la coesione dell’Italia, modificando con i suoi stili di vita l’antropologia del nostro popolo; incita alla illegalità, all’egoismo economico e alla furbizia di chi la fa franca … e lei si fa vedere a suo fianco sorridente, soddisfatto di approfittare “di tutte le forme istituzionali e pastorali che mi sono offerte”? Non credo che in quella forma istituzionale lei abbia approfittato.

Sig. cardinale, venga a vivere tra la gente comune e a sentire cosa si dice del fatto che il Papa abbia acconsentito a ricevere Berlusconi all’aeroporto dicendo: “Che piacere rivederla!”, mettendo così una pietra tombale sull’etica che si predica e sulla verità che si propaganda. Come faccio io prete a compiere il mio dovere, se un cardinale, sottoposto solo al Papa, dopo avere rifiutato la presenza del Presidente del Consiglio alla perdonanza dell’Aquila, si presenta ora accanto a lui senza alcuna precisazione o un qualche distinguo?

Oramai lo sappiamo, nel mondo berlusconizzato la verità non è più quella ontologica, ma solo quella che appare e che lui fa apparire, visto l’uso diabolico e criminoso che fa della tv. In questo ciarpame, l’unico che ha pagato le spese sull’altare della diplomazia interessata è stato il povero Dino Boffo che avete sacrificato alla ragion di Stato e delle convenienze. Il 7 agosto 2009 in un incontro riservato, avevo preventivato al cardinale Bagnasco quello che sarebbe successo in autunno dopo la nomina di Feltri a Il Giornale e di Belpietro a Libero. Dopo nemmeno tre settimane le mie previsioni si sono verificate tutte, una dopo l’altra come un rosario. La nostra gente è disorientata e, vedendo quelle immagini, si lascia andare: se il cardinale assolve Berlusconi, io mi assolvo da solo/da sola.

Lei dice di avere una “responsabilità di carattere universale, approfittando di tutte le forme istituzionali e pastorali che mi sono offerte”. Lo credo e non la invidio affatto, ma non a qualunque costo, non a qualunque prezzo. Nel suo discorso alla mostra, non ho letto un cenno alla situazione degradata che abbiamo e stiamo ancora vivendo, a motivo dei comportamenti e delle scelte disumane dell’attuale governo (una per tutte: legge sul reato di clandestinità, che grida vendetta al cospetto di Dio, Padre di tutti gli uomini e di tutte le donne, creati a “sua immagine e somiglianza”).

Lei ha parlato da diplomatico, e, a mio parere, non da sacerdote. Prima di fare il discorso e a microfoni aperti, io penso che avrebbe dovuto invitare il Presidente del Consiglio a chiedere scusa per il suo operato, tanto più in contraddizione, in quanto lui si spaccia per cattolico credente. Oppure, avrebbe dovuto dire: “Sig. Presidente del Consiglio, sono qui per inaugurare una mostra, ma non pensi che la mia presenza possa essere una assoluzione preventiva per il suo comportamento deplorevole e scandaloso che esige una riparazione pubblica”. Lei non lo ha fatto, ma si è adeguato diplomaticamente alla bisogna e se non ha messo in imbarazzo il presidente del consiglio, non ha reso, a mio modesto parere, un servizio alla Chiesa.

Ho ricevuto migliaia di lettere, migliaia di e-mail e di telefonate di adesione e non creda che tutto questo mi faccia piacere perché è una sofferenza per me sentirmi dire che “se sono ancora nella Chiesa è perché vi sono preti come lei”. La gente crede di farmi un complimento, invece affonda il coltello nella piaga perché è il segno che le persone dietro al Vangelo corrono a braccia spalancate, ma si fermano davanti agli interessi e ai comportamenti degli uomini di Chiesa che dovrebbero testimoniare la vita eterna, l’amore di Dio e la via del Vangelo. Forse lei e gli altri eminentissimi vivete troppo nel palazzo ovattato di incenso e di onori, e vi sfugge il polso feriale della gente comune che pretende da noi coerenza e verità. Sì, io mi aspetto dai miei vescovi che mi siano di esempio, di esempio trasparente e se vogliono che non mi occupi di politica e di politici, comincino a farlo loro e io li seguirò obbediente e pacifico.

Paolo Farinella, prete cattolico (poco romano)

martedì 30 giugno 2009

È il tempo per parlare

Nota su recenti vicende della politica italiana

Il libro del Qoélet ci insegna che “sotto il cielo” c’è il tempo idoneo per ogni cosa (cfr. 3, 1-8). Qui, in particolare, si vuole mettere in rilievo il richiamo al “tempo per parlare”.

Il giusto equilibrio fra silenzio e parola è parte integrante di una condotta umanamente saggia. Riguarda i rapporti interpersonali e quelli sociali, politici, istituzionali. La parola, elemento distintivo dell’uomo, ha una straordinaria varietà di modulazioni, che ci consentono di esprimere l’intera gamma dei nostri pensieri, sentimenti, emozioni. Tramite la parola si può insegnare, sostenere, incoraggiare, lenire il dolore, trasmettere vicinanza, comunicare tenerezza, ma anche ammonire, correggere, dissentire, riprovare, condannare.

Ecco, quando consideriamo le recenti vicende nelle quali è stato direttamente chiamato in causa il nostro Presidente del Consiglio (sentenza di condanna in primo grado per corruzione dell’avv. Mills, caso delle cosiddette veline, ragazza napoletana, feste in residenze di sua proprietà), ci persuadiamo che è il tempo non del silenzio, ma della parola decisa e inequivoca.

Contro una lettura minimizzante dei fatti citati, riscontriamo piuttosto il manifestarsi di questioni di singolare rilievo culturale, etico e politico, che ci interpellano e che esigono da noi un giudizio non evasivo. Il quadro si fa ancora più preoccupante, se consideriamo gli episodi in questione nel contesto di alcune scelte strategiche dell’attuale maggioranza governativa, a seguito delle quali risulta palese il rischio d’intaccare regole ed equilibri indispensabili per il corretto funzionamento della nostra democrazia. Si pensi, per esempio: alla concezione del partito, strumento cardine di un sistema democratico, come semplice “appendice” della volontà di un “capo” assoluto; alla distorsione dei meccanismi di reclutamento del personale politico; alla negligenza ricorrente circa il rispetto della divisione dei poteri costituzionali; al depotenziamento del principio proprio dello Stato di diritto, secondo il quale la legge è uguale per tutti; al conflitto d’interessi macroscopico nel campo televisivo (emblematiche, in proposito, anche le ultime nomine RAI).

In tempi di debole senso del “bene comune”, ai nostri governanti e amministratori abbiamo imparato (purtroppo!) a non chiedere molto, ma almeno un livello minimo di decenza etica e istituzionale la pretendiamo, a motivo del solenne impegno da essi assunto di onorare la Carta costituzionale e i suoi princìpi-valori d’ispirazione.

Fra i punti qualificanti di un comportamento corretto degli uomini delle istituzioni in regime democratico vi è l’obbligo di dire la verità ai cittadini. In caso contrario, s’incrina il rapporto fiduciario con gli elettori e viene inquinato il tessuto della vita civile.

Riguardo alle suddette vicende riguardanti il Presidente del Consiglio, abbiamo assistito, da parte del medesimo, a un’evidente sequenza di reticenze, contraddizioni, vere e proprie bugie. I tentativi di addomesticare i diversi casi che l’hanno chiamato in causa sono risultati inefficaci, quando non controproducenti. Vale proprio la pena di dire, con l’antico proverbio, che anche questa volta il rammendo è risultato peggiore del buco.

Il capo del governo è vincolato, come, del resto, tutte le altre figure istituzionali, al dovere di dire la verità al Paese. Se contravviene a simile regola elementare, menoma il patto di lealtà con il popolo e, di conseguenza, depotenzia la legittimità, morale innanzitutto, di ricoprire l’alto incarico. A tale proposito, nelle democrazie anglosassoni (almeno per questo aspetto, più mature della nostra) non si guarda in faccia a nessuno. Fosse anche il massimo esponente dello Stato, se mente o dà le dimissioni o va soggetto a impeachment. I casi Nixon e Clinton negli Stati Uniti sono a tutti noti. Da noi invece non succede niente (o quasi). Ma è mai possibile che, al di là degli orientamenti politici di ciascuno, non si colga la gravità in sé dei comportamenti (alcuni dei quali addirittura di rilevanza penale) sopra denunciati? A tanto è giunto il livello di assuefazione degli Italiani?

Il tentativo di rubricare come fatto “privato”, dunque sottratto alla sfera della responsabilità “pubblica”, buona parte delle ultime vicende nelle quali è implicato il Presidente del Consiglio risulta specioso. Non vogliamo certo intaccare la sacrosanta distinzione fra le due sfere, “privata” e “pubblica”, appunto: in un sistema democratico la prima va debitamente tutelata per assicurare la legittima privacy di ogni cittadino, garanzia, fra l’altro, di rispetto della sua libertà e dignità. Ma nel caso in esame la questione si presenta con connotati particolari. Come tutti i cittadini, anche le maggiori cariche istituzionali hanno il sacrosanto diritto alla privacy, però quest’ultima non può mai essere invocata quale paravento rispetto al dovere della responsabilità, della coerenza e della trasparenza nel modo di agire. Non intendiamo fare del moralismo: semplicemente crediamo sia tempo di ribadire ad alta voce l’a b c, cioè la grammatica elementare del comportamento dell’uomo politico in regime di democrazia.

Le vicende in discussione rivelano, da parte del capo del governo, una visione e gestione disinvolte del proprio ruolo pubblico, al quale -conviene ricordarlo- è intrinsecamente connesso un elevato grado di potere. Un Presidente “ricattabile” costituisce un problema serio per l’intero Paese, oltre che causa di discredito istituzionale nei rapporti con l’estero. Di tutto ciò si ha eco anche su prestigiosi organi di stampa internazionali. È difficile pensare che giornali stranieri di prima fila siano asserviti a un disegno “eversivo” predisposto dalla (scombinata) sinistra di casa nostra! Ma tant’è!

Circa l’inderogabile necessità della coerenza fra parole e stile di vita degli uomini politici (e il richiamo ha preso spunto proprio dai comportamenti censurabili del Presidente del Consiglio) sono intervenute, seppur con accenti diversi, importanti testate del giornalismo cattolico (il quotidiano “Avvenire”, il settimanale “Famiglia Cristiana”). Si tratta di un’esigenza autorevolmente riproposta, per i delicati aspetti etici coinvolti, da esponenti dell’episcopato italiano.

Insomma, abbiamo molto da riflettere sugli ultimi casi che hanno visto protagonista il capo del governo. Lo ribadiamo a chiare lettere: non è, come qualcuno vuole far credere, una semplice vicenda di gossip. Sono in gioco, invece, questioni serie, che riguardano il ruolo e le responsabilità istituzionale, politica e (perché no?) anche educativa di una così alta carica dello Stato. Di conseguenza, è in gioco la qualità stessa della democrazia nel nostro Paese. Ecco perché non risulta ammissibile il silenzio: piuttosto è il “tempo per parlare”, di dire ad alta voce che non possiamo e non vogliamo rassegnarci a deprimenti spettacoli da basso impero. Pur nella consapevolezza dei suoi limiti, “Città dell’uomo”, l’associazione fondata da Giuseppe Lazzati e impegnata nel promuovere una cultura politica fedele alla visione cristiana dell’uomo e ai valori della Costituzione, avverte il dovere di levare alta la voce della denuncia.


Il Consiglio Direttivo di “Città dell’uomo”

Milano, giugno 2009 - “Città dell’uomo”. Associazione fondata da Giuseppe Lazzati

giovedì 5 marzo 2009

Appello per una chiesa più solidale e compassionevole

Molti fatti con i quali veniamo a contatto ci dicono che oggi la Chiesa tende progressivamente a isolarsi dal mondo contemporaneo. Molti uomini e donne, specie giovani, avvertono, da parte loro, una radicale estraneità dalla Chiesa. Tra Chiesa e società sembra essersi determinata una drammatica frattura su questioni importanti come la libertà di coscienza, i diritti umani (fuori e dentro la Chiesa), il pluralismo religioso, la laicità della politica e dello Stato. La Chiesa appare ripiegata su se stessa, chiusa e incapace di dialogare con gli uomini e le donne del nostro tempo.

Siamo molto preoccupati per le conseguenze negative che tale perdurante situazione produce per l’annuncio del Vangelo. Per questo, ci sembra saggio riprendere e rilanciare la feconda intuizione di Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura del Concilio Vaticano II: quella di «un balzo in avanti» della chiesa per una testimonianza in grado di rispondere «alle esigenze del nostro tempo».

Il tentativo in atto di contenere lo Spirito del Concilio è, a nostro avviso, un grave errore che, se perseguito fino in fondo, non può che aumentare in modo irreparabile lo steccato tra Chiesa e società, Vangelo e vita, annuncio e testimonianza. A noi sembra che l’insistere su visioni e norme anti-storiche o non biblicamente fondate o, talvolta, anti-cristiane, non aiuti la credibilità ecclesiale nell’annuncio del regno di Dio.

Vanno ripensati, ad esempio, le questioni riguardanti l’esercizio della collegialità episcopale e del primato papale, i criteri nella nomina dei vescovi che salvaguardino il pluralismo, la condizione dei divorziati, dei separati e delle persone omosessuali, l’accesso delle donne ai ministeri ecclesiali, la dignità del morire non terrorizzati.

Vogliamo una Chiesa che non imponga mai a nessuno le proprie convinzioni sui problemi dell’etica e della politica e si fidi solo della forza libera e mite della fede e della grazia di Dio.

Vogliamo una Chiesa che pratichi la compassione e trovi nella pietà la sua gloria. E faccia sue le parole che il santo padre Giovanni XXIII incise sul frontone del Concilio: «Oggi la sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità. Essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi non rinnovando condanne ma mostrando la validità della sua dottrina... La Chiesa vuol mostrarsi madre amorevole di tutti, benigna, paziente, piena di misericordia e di bontà, anche verso i figli da lei separati».

Vogliamo una Chiesa che sappia dialogare con gli uomini e le donne e le loro culture, senza chiusure e condizionamenti ideologici, e impari ad ascoltare e a ricevere con gioia le cose vere e buone di cui gli interlocutori sono portatori. La verità e la bontà sono di Dio, il quale le dà a tutti gli uomini e non solo ai cristiani.

Vogliamo che al centro della Chiesa venga messo il Vangelo e la sua radicalità. Solo così la Chiesa potrà essere vista e sperimentata come “esperta in umanità”. È tempo che, senza paura, nella Chiesa e nella città prendiamo la parola da cristiani adulti e responsabili, pronti a rendere conto della speranza cristiana.

Palermo 25 febbraio 2009


Promotori dell’appello sono alcuni sacerdoti e laici, non solo palermitani. In ordine alfabetico: Giuseppe Barbera (laico), Nino Fasullo (prete), Rosellina Garbo (laica), Rosario Giuè (prete), Tommaso Impellitteri (laico), Teresa Passatello (laica), Teresa Restivo (laica), Franco Romano (parroco), Zina Romeo (laica), Rosanna Rumore (laica), Cosimo Scordato (prete), Francesco Michele Stabile (parroco).

L’appello finora ha raccolto più di 300 adesioni. Tra cui i seguenti preti: Aurelio Antista (prete), Liborio Asciutto (parroco), Gregorio Battaglia (prete), Alberto Neglia (prete), Egidio Palombo (prete); Giovanni Calcara (frate), Gianni Novelli (prete).

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Si può inviare la propria adesione a queste e-mail: chiesacitta@libero.it oppure: rivistasegno@libero.it