domenica 27 novembre 2005

Ad Assisi "sacrificavano" anche i polli

Non potevamo mancare di segnalare questa intervista a Vittorio Messori comparsa su La Stampa il 21 novembre 2005.

Le residue certezze legate al "poverello di Assisi" si stanno sgretolando. Francesco pacifista? Animalista? Ecumenico? Tutte balle diffuse da "Una vulgata falsa, che ne svilisce il messaggio". Francesco è "il figlio più autentico della Chiesa delle crociate". (red.)



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“La Chiesa ha la memoria lunga. É dal meeting interreligioso del 1986 che Joseph Ratzinger aveva un conto da saldare con i frati di Assisi. Ora le cose sono a posto”. Vittorio Messori, lo scrittore cattolico italiano più letto nel mondo (unico ad aver scritto un libro con gli ultimi due Papi) svela cosa c'è dietro il “commissariamento” pontificio del Sacro Convento e racconta di quando il futuro Benedetto XVI si indignò per i sacrifici pagani compiuti sull'altare di Santa Chiara, a ridosso della cripta gotica che conserva i resti terreni della fondatrice dell'ordine delle Clarisse.

Sacrifici pagani ad Assisi?
“Ratzinger non ha perdonato alla comunità francescana gli eccessi della prima giornata di preghiera dei leader religiosi con Karol Wojtyla. Una carnevalata, a detta di molti, che forzò la mano al Papa e furono proprio i frati ad andare molto aldilà degli accordi presi. Permisero addirittura agli animisti africani di uccidere due polli sull'altare di Santa Chiara e ai pellerossa americani di danzare in chiesa. Ratzinger aveva fortissime perplessità dall'inizio, non volle andare ad Assisi e le sue riserve limitarono i danni”.

In che modo?
“La notte prima del meeting limò il testo del discorso frenando Giovanni Paolo II. E divenne nitido nella sua mente che l'enclave francescana, sganciata da ogni collegamento con il vescovo di Assisi, era un'anomalia da sanare. Andava limitata e riportata sotto il pieno controllo giuridico della Chiesa. Il conto per quelle basiliche cristiane cedute ai culti pagani è stato saldato 19 anni dopo”.

Troppa autonomia?
“I frati hanno abusato del cosiddetto spirito di Assisi. In realtà loro venerano e diffondono illegittimamente un santino romantico e di derivazione protestante, ossia il San Francesco del mito, uno scemo del villaggio che parla con lupi e uccellini, dà pacche sulle spalle a tutti. Una vulgata falsa, che ne svilisce il messaggio. Il Francesco della storia, infatti, è il figlio più autentico della Chiesa delle crociate”.

Non era pacifista?
“Assolutamente no. Alla quinta crociata, San Francesco partecipò come cappellano delle truppe mica da uomo di pace. Cercò in ogni modo il martirio per riconquistare la Terra Santa e cadde in depressione quando i crociati persero. Dal sultano non ci andò per dialogare ma per convertirlo e lo sfidò a camminare sui carboni ardenti per verificare se fosse più potente Cristo o Maometto. E non era neppure animalista. Nel Cantico delle creature gli animali non sono mai nominati. E poi, ma quale ecologista! Si oppone ai suoi seguaci che volevano diventare comunità vegetariana».

Ora, dunque, il Pontefice vuole ristabilire l'ortodossia?
“Certo. Anche a San Giovanni Rotondo i francescani avevano sfilato il santuario dal controllo della diocesi. Adesso sia lì che ad Assisi le iniziative dei frati andranno concordate con l'episcopato. Ed è un bene anche per il Sacro Convento, così la smetteranno con la demagogia del politicamente e teologicamente corretto. Stop all'artificio di pace, ecologia, ecumenismo e alle velleità pseudo-coraggiose che poi fanno stringere le mani dei dittatori e violare le chiese”.

Il Pontefice “normalizza”?
“Lo spirito di Assisi non è come lo hanno inteso i frati del Sacro Convento e Joseph Ratzinger è pienamente consapevole di questo colossale errore dalla giornata mondiale di preghiera del 1986. Tanto che tre anni fa riuscì ad attenuare la deriva sincretista dell'ultimo meeting interreligioso di Assisi. Il tradimento della figura storica di Francesco andava corretto. Ed è sconcertante che finora il vescovo di Assisi sapesse delle iniziative dei frati solo dai giornali”.

Fine della capitale mondiale dell'ecumenismo?
“I santuari devono coordinarsi con i vescovi. L'intervento di Ratzinger è inappuntabile. Il Pontefice ha seguito il suo stile, agendo in maniera rispettosa, perché non interferisce con la vita dell'ordine religioso, ma decisa, in modo che serva da avvertimento per tutti. Non sono più ammesse realtà ecclesiali sciolte dalle leggi della Chiesa. É scelta che rientra appieno nella strategia pastorale di Benedetto XVI. Toccherà anche ad altri. Nessuno può essere “Iegibus solutus”.

lunedì 21 novembre 2005

Lettera di Alessandro Santoro, prete delle Piagge in Firenze

Caro Spirito Santo, mi rivolgo a te che sei datore di vita e soffio di speranza per l’umanità intera perché tu possa penetrare nelle stanze del potere ecclesiastico per restituire quell’”alito di vita” e di profonda compassione nel cuore di questo nuovo Papa e del suo entourage perché imparino ad ascoltare la tua voce e non continuino, una volta per tutte, a farsi trascinare nei tatticismi e negli intrighi di palazzo e di potere.

Fa che questo Papa sia a piedi scalzi, semplice e umile, che diventi compagno di strada e di vita di chi fa fatica e si sente escluso e oppresso, come del resto ha fatto Gesù che ha scelto la Galilea delle genti, luogo dell’esclusione e della emarginazione per ridare vita al mondo.

Fa che questo Papa abbia il coraggio di incarnarsi nella storia degli altri, che abdichi alla Verità assoluta che schiaccia e uccide e senta il bisogno di incontrare e nutrirsi delle Verità dell’altro. Dio non ha un nome, prende ed assume il nome dei volti e delle storie degli emarginati di questo mondo e nessuno detiene la verità di Dio e può pretendere di possederla.

Fa che questo Papa scenda nei bassifondi della storia, che abbandoni i palazzi del potere, che non viva più in Vaticano, luogo del potere curiale e torni ad essere il pastore di tutti, uomo tra gli uomini senza più nessuna enfasi trionfalistica. Non abbiamo bisogno di un Papa con strutture forti e apparati pesanti, proprie dei sovrani e dei potenti, ma di un Papa che si spogli di tutto quello che lo separa e lo divide dalle persone, che sappia lasciare tutto ciò che lo rende ricco e possa concedersi l’unica ricchezza possibile per chi si fa servo, quella in umanità.
Siamo stanchi dei troppi orpelli, troppi luccichii, troppi ori che appesantiscono la sua casa, ed è arrivata l’ora che il Papa possa prendere le distanze da questo sfarzo senza senso e che impari a vivere nella povertà senza ostentazioni.

Fa che questo Papa sia capace di Vangelo, testimone e profeta di un Vangelo possibile per tutti, che sappia piangere con chi piange, ridere con chi ride, soffrire con chi soffre. Fa che sia intransigente solo nell’amore e continui a gridare forte contro tutte le guerre del mondo e possa aiutarci, e aiutare i grandi della terra, a considerare la guerra, le guerre e la corsa agli armamenti una assurda follia.
Fa che possa far diventare la guerra un tabù inaccettabile e cancelli l’ipocrisia assurda di chi, anche nella nostra Chiesa ritiene ancora plausibile una guerra giusta.

Fa che questo Papa sia capace di perdono, che non abbia paura a riconoscere la violenza e le violenze della nostra religione, che sappia soffiare nella nostre vite e nelle nostre comunità umane uno spirito di tenerezza, perché per tutti, chiunque sia, ci possa essere un pezzo di pane, una carezza, un abbraccio e una vera liberazione.

Fa che questo Papa non ci riempia di encicliche e di documenti, troppe parole hanno inchiostrato la nostra fede, fa che cresca nell’ascolto di quella parola di Dio che è la vita degli uomini e delle donne. L’unica parola possibile da rendere viva e vera nella nostra storia è quella del Vangelo. Rendi questo Papa carico di utopia, capace di vedere oltre e di darci il coraggio di fare un passo più in là, un Papa meno maestro e più fratello, meno grande e più debole, meno forte e più dolce, meno sicuro e più compagno. Gesù sognava e praticava il sogno di Dio, fatto di una politica di giustizia, di una economia di uguaglianza e di un Dio pienamente libero; fà che negli occhi, nelle mani, nel cuore, nella pancia, nei piedi di questo Papa ci possa essere questo stesso sogno necessario perché questo nostro affaticato mondo riabbia la vita e “l’abbia in abbondanza”.

Fa che questo Papa abbia il coraggio di abbandonare i segni del potere e possa ritrovare e concedersi il potere dei segni, perché la nostra Chiesa possa spogliarsi della porpora e rivestirsi del grembiule, possa abbandonare i conservatorismi comodi al potere e recuperare la libertà piena e viva dei figli di Dio.

Fa che questo Papa ridia spazio e attualità alla rivoluzione del Concilio che voleva che le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini e dei poveri diventassero pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce del Vicario di Cristo e delle comunità cristiane. Le grandi aperture e novità del Concilio sono state tradite e burocratizzate, la tensione verso il nuovo si è persa nei meandri delle chiusure, delle prudenze e meschinità curiali.

Fa che questo Papa possa finalmente ridare spazio ad una collegialità vera, ad una chiesa Popolo di Dio, ad una comunione incarnata, ad una conversione senza mezze misure e compromessi. Dagli la forza ed il coraggio di proporre un nuovo concilio dove la Chiesa ripensi se stessa con il contributo vero e profondo di tutti, proprio di tutti.

Fa che questo Papa si apra all’idea di libertà e di responsabilità, che rinneghi una Chiesa moralista e sessuofoba, che possa dare spazio con pari dignità a tutte le relazioni affettive, a quell’amore plurale fatto anche di omossessuali, transessuali, divorziati, separati; è anche attraverso di loro che l’amore di Dio, così grande e universale ritroverà spazio nelle nostre comunità, troppo spesso abituate soltanto a giudicare e a condannare e non ad accogliere e a celebrare la vita.

Fa che questo Papa sappia riconoscere il valore imprescindibile delle donne, perché senza la loro sensibilità, la loro capacità di “precederci” e di amare con tenerezza, la Chiesa rimarrà sempre sterile ed incapace di futuro.

A Te Spirito Santo l’impegno di portare il respiro di tutti i piccoli e i poveri del mondo e soffiare questa brezza leggera dei perdenti e dei vinti nel cuore del Principe della Chiesa perché possa rinunciare ai titoli e alle lusinghe del Potere e possa farsi degno del Vangelo di libertà e di pace del nostro fratello Gesù di Nazaret. Così lo sentiremo compagno e amico in questa avventura che è la vita.

Alessandro Santoro

martedì 15 novembre 2005

SE LO SCETTICO AFFRONTA LA FEDE

Che cos'è un miracolo? L'infrazione di una legge di natura, l'interruzione della regolarità del suo ciclo. Ma siccome noi non conosciamo la natura fino nei suoi recessi più segreti, la credenza nel miracolo è il sostituto della nostra ignoranza. Così parla David Hume, filosofo empirista inglese, in un suo Trattato sui miracoli, scritto nel 1720 e inserito nella decima sezione dei suoi Saggi filosofici del 1743, dove si riassume il Trattato sulla natura umana (1740), al cui interno il trattato sui miracoli non compariva.

L'inserzione  ha quindi un carattere provocatorio e consapevolmente scandalistico per smobilitare un pezzo forte della credenza umana, sempre disposta a dar credito allo "straordinario" per il piacere istintivo che l'animo umano prova di fronte all'insolito.

Il filosofo illuminista, nella sua argomentazione, utilizza uno dei temi generali della sua filosofia secondo cui la fede, per sua natura, non poggia sulla ragione, perché io non credo in ciò che so. Non credo che due più due faccia quattro perchè lo so. E intorno a ciò che so non c'è bisogno di fede. La fede, infatti, è un assenso della volontà (e non dell'intelletto) su un dato di fatto, ma siccome i dati di fatto sono contingenti e non necessari come la verità di ragione, l'assenso che ad essi si concede è assolutamente gratuito.

Così argomentando, lo scettico Hume, per quelle strane vertigini a cui ci abitua il pensiero, finisce col sostenere a sua insaputa quanto già sostenevano Paolo di Tarso e Tommaso d'Acquino quando dicevano che la fede è promossa non dall'evidenza del contenuto  (ut ad proprium terminum) ma dalla volontà /ex voluntate) perchè, a differenza del sapere, la fede imprigiona l'intelletto conducendolo "in captivitatem", per cui, di fronte alla fede, l'intelletto è inquieto (nondum quietatus), in una condizione di timore e infermità (in infirmitate et timore et remore multo).

Questa affinità di argomentazione con i padri antichi medievali della dottrina cristiana, se poteva sfuggire a Hume, non sfugge al vescovo di Salisbury John Douglas che, in una lunga lettera aperta indirizzata ad Adam Smith dal titolo Criterion dedica una sezione ai miracoli, distinguendo quelli riferiti dal Vangelo a cui bisogna dare la massima credibilità e quelli a cui il popolo di tanto in tanto presta fede. Questo secondo tipo di miracolo, scrive Douglas: “Sono opera della natura, scambiati per prodigi dall’ignoranza, dalla suggestione del popolo e dalla macchinazione perversa di qualche furbo.”

Il riferimento del vescovo di Salisbury è ai miracoli attribuiti post mortem all’Abbè de Paris, santo giansenista in odore di eresia, la cui devozione era osteggiata dalle chiese sia cattolica sia protestante. Ma quel che qui interessa è che, nel confutare la fede popolare nei miracoli, John Douglas utilizza gli stessi argomenti adottati da Hume contro la fede in generale, rivelando una curiosa contaminazione con lo spirito illuminista che vedeva nel progresso delle scienze l’erosione della fede.

E come Hume utilizza, non sappiamo con quanta consapevolezza, argomenti cristiani contro la fede, così Douglas utilizza, lui sì consapevolmente, argomenti scettico-illuministici contro la fede popolare. Dal punto di vista della ragione Hume ha tutte le ragioni, mentre dal punto di vista della fede il vescovo di Salisbury avrebbe potuto risolvere la questione rifacendosi al quel passo del Vangelo dove Cristo, senza esitazione, dice: “Voi credete perché vedete, ma beati saranno coloro che crederanno senza vedere”. Tra fede e ragione, infatti, non c’è concomitanza e tanto meno subordinazione perché, come ci ricorda Hume, la fede affonda le sue radici nella dimensione irrazionale, di cui l’uomo si alimenta quando la ragione non offre sufficienti ancoraggi.

Umberto Galimberti
 

sabato 12 novembre 2005

Malattia planetaria

I gravissimi disordini che stanno sconvolgendo la Francia, la loro ampiezza, il loro carattere epidemico, impongono una riflessione che vada al di là delle facili ricette politiche legate all’immediatezza delle cronache. Io vi vedo i sintomi di una malattia planetaria. Il fatto che si manifestino con tanta virulenza nella civilissima Francia, e che abbiano anzi preso le mosse da quei «cento ettari» su cui più si è pensato nella storia dell'individuo occidentale, non deve farci perdere di vista il quadro complessivo in cui essi si iscrivono.

Se infatti si alza lo sguardo all’orizzonte, si scoprirà che ondate di instabilità si stanno muovendo simultaneamente in molte altre zone del mondo. Le radici del problema, io credo, non sono da ricercare tanto - o soltanto - negli errori commessi dai Paesi sviluppati nella gestione delle politiche migratorie, per meglio dire delle ondate di immigrati che li stanno investendo, quanto piuttosto nella vertiginosa crescita della disuguaglianza globale che si è verificata, e incessantemente è cresciuta, negli ultimi venticinque anni. L’ultima generazione è cresciuta in questa disuguaglianza crescente e i leader dei Paesi ricchi si sono illusi che milioni e miliardi si sarebbero adattati a questa situazione. Ora cominciamo a vedere che la crescita smodata della ricchezza di pochi non è più accettata da masse crescenti di poveri, ovvero di coloro che finiscono di sentirsi poveri (anche se con i metri del passato non lo sarebbero) di fronte all’ostentazione della ricchezza dei ricchi, che viene percepita come un’offesa.
Non è un caso che vengano dati alle fiamme i simboli della civiltà dei consumi e che, nello stesso tempo, la lotta politica e sindacale, che in altri tempi erano la norma, siano state scavalcate dall’esercizio di una violenza che non ha apparentemente obiettivi se non quello della distruzione.

Diamo un’occhiata a come è finito il recente summit pan-latino americano: un clamoroso fallimento dopo la constatazione di contraddizioni insanabili che hanno costretto il presidente degli Stati Uniti, George Bush, ad abbandonare la riunione senza avere ottenuto nulla, accompagnato dal conclamato dissenso dei dirigenti di Brasile, Argentina e Venezuela, cioè dei tre maggiori Paesi del continente latino americano. In questo caso il contrasto tra ricchi e poveri si è manifestato non nella forma di guerriglia urbana, ma in una rottura politica che non ha precedenti nella storia dei rapporti inter-americani.
E stiamo parlando, comunque, sempre del mondo occidentale, dove in apparenza sembrano essere in vigore gli stessi principi. Ma se spingiamo lo sguardo ancora un po’ oltre, non facciamo fatica a vedere un’area dove vivono oltre un miliardo d’individui che si sentono - così per lo meno a loro sembra - relegati ai margini del processo storico, respinti, umiliati, offesi. Sto parlando dei Paesi islamici, ovviamente. Che, per giunta, sono gli eredi di coloro che per 1500 anni esercitarono un’enorme influenza sul corso degli eventi mondiali e sulla cultura di tutte le civiltà vicine, inclusa quella europea.

Ho l’impressione che ciò che sta accadendo in Francia potrebbe ripetersi e moltiplicarsi in tutta Europa. A ben vedere, sebbene io mi auguri che ciò non accada, ve ne sono tutte le condizioni. In primo luogo, evidentemente, questi sono i frutti amari di una grave deficienza delle politiche di accoglimento migratorio che seguirono la fine del sistema coloniale. La Francia, che pure aveva accumulato una vasta esperienza dopo la tragedia della guerra algerina, sembrava aver realizzato un modello d’integrazione adeguato e funzionante. Adesso vediamo che le cose non stavano esattamente così e che la condizione sociale delle masse di immigrati era rimasta molto indietro sia rispetto alle condizioni dei cittadini di prima classe, sia rispetto alle aspettative maturate tra i cittadini di seconda classe. Il problema della giustizia e dell'uguaglianza è infine esploso come una bomba a scoppio ritardato.

Ma, come ho detto all’inizio, questo aspetto del problema è solo una parte e non la maggiore. Il fatto è che il «libero flusso dei capitali», che ha aperto e inaugurato l’era globale, non poteva non produrre alla lunga anche un immenso flusso di uomini e donne. Assai meno «libero», assai più obbligato, tragico, senza freni. E i nuovi arrivati sono diversi dai vecchi: conoscono - perché lo vedono in televisione - tutto ciò che viene reclamizzato come ottenibile, a portata di mano, ma sperimentano di non poterlo ottenere né adesso né mai. In questo assai simili a coloro che, nei Paesi ricchi, erano un tempo cittadini di prima classe e che stanno perdendo la loro cittadinanza tra i ricchi (o la speranza di ottenerla, prima o dopo). Lo prova il fatto che, nei disordini, si trovano implicati migliaia di giovani francesi, quelli di pelle bianca intendo dire.

E vorrei dire qualcosa anche sulla Russia. Io credo che la Russia non sia minacciata da una guerra con il mondo islamico. La Russia è da secoli un mondo di mondi, di popoli e di culture. Eppure i dirigenti politici russi non possono sfuggire, neppure loro, alla lezione dei tempi. Anche da noi si sta verificando una tensione crescente, che si manifesta in forme di disprezzo verso altre nazionalità. Sarebbe un errore sottovalutarle. Anche perché, in Russia come altrove, si troveranno assai rapidamente, quando non si siano già trovati, speculatori irresponsabili che vorranno usare queste tensioni a proprio vantaggio.

Mikhail Gorbaciov, La Stampa, 11 Novembre 2005

domenica 6 novembre 2005

Dr. Sergio e Mr. Cofferati

Il problema non è di stabilire se la legalità è un valore di destra o di sinistra, e nemmeno quello di schierarsi pro o contro Cofferati, ma di vedere che tipo di problemi sollevano le ordinanze del sindaco di Bologna alle nostre coscienze beate, use ad assopirsi nelle visioni del mondo che le ideologie offrono con generosità, impedendoci di vedere come è davvero il mondo, come cambia, e che posizione dobbiamo assumere di fronte ai suoi radicali mutamenti.

Una prima contraddizione in cui tutti ci veniamo a trovare, e che le ordinanze di Cofferati evidenziano, è quella tra "il mondo della vita" e "il mondo della legge". Tutti stiamo dalla parte del mondo della vita perché è bello, perché a regolarlo è l'anarchia del desiderio che conosce solo il principio del piacere, dove basta desiderare per avere. Memoria infantile. Fissazione a un'età da cui, se non ci fossimo evoluti, non saremmo divenuti adulti.

È bello bere tutti insieme la birra in piazza facendo tutto il rumore che ci piace, lasciando le lattine e quant'altro sul selciato. È bello. Non si può negare. Così come non si può negare che è bello e anche facile occupare una casa abusiva semplicemente perché se ne ha bisogno, trascurando in pari tempo chi, come noi, ne ha altrettanto bisogno, ma non ne ha la forza. È bello vivere tutti assieme tra occupanti, tra gente che si sente dalla stessa parte, come i bambini quando fanno banda o gruppo. È bello. Ma non è adulto.

Il mondo della vita ti porta anche gli immigrati in casa. E siccome gli immigrati valgono meno della merce che producono e comunque hanno minor possibilità di circolazione di quanta non ne abbiano i beni da loro prodotti, con loro si può fare ciò che si vuole. Li si può impiegare regolarmente, oppure in nero, li si può cooptare nelle forme del caporalato che li assolda a giornata, oppure per altri mestieri che vanno racket allo spaccio. Il mondo della vita è che questo ed è per vivere che gli immigrati si adattano a questo. Dietro le loro facce che sembrano icone della sofferenza, c'è chi nell'illegalità li usa per fare gli affari suoi, sporchi o puliti che siano.

Il mondo della vita è variopinto e ricco ospita tutte le forme dell'esistenza che riescono a trovare espressione, ma senza regole è possibile la loro convivenza? Non dimentichiamo che la regola è l'unico argine al sopruso, che tale rimane anche quando si presenta sotto le forme del bisogno, della necessità, o addirittura della carità. Anche la mafia, fuori dalla legalità, dà lavoro ai figli della sua terra, viene incontro al bisogno, alla necessità, e se volete anche alla carità.

Oltre alla contraddizione tra il mondo della vita e il mondo della legge, le ordinanze di Cofferati mettono opportunamente in luce la stridente contraddizione, che la nostra assopita coscienza fatica ad avvertire, tra il "mondo delle idee" e le nostre "pratiche di vita". Davvero riusciamo a sopportare tutto quello che le nostre idee predicano? La loro predica la conosciamo: dobbiamo assistere con piacere ai giovani che bevono la birra in piazza fino a tarda ora perché è segno di socializzazione, dobbiamo capire quelli che occupano la case perché gli affitti sono troppo elevati, dobbiamo accogliere gli immigrati, trovar loro un lavoro e una sistemazione, e tollerare che nel frattempo ci lavino i vetri puliti delle nostre automobili per consentir loro di sbarcare il lunario.

Tutto giusto, tutto bello, tutto vero. Ma ce la facciamo? Davvero le nostre forze di sopportazione sono all'altezza delle nostre idee, o abbiamo posto l'asticella delle nostre idee troppo in alto per sentirci nobili, elevati e soprattutto giusti, ma assolutamente inadeguati per quanto riguarda i margini di tolleranza che la nostra vita vissuta ci concede? Certo è bello sentir parlare per strada l'arabo, il cinese, il bengalese, mescolati al bolognese, come si mescolano i colori differenti della pelle e degli occhi che si incrociano. Si ha la sensazione tangibile di essere entrati davvero nella modernità, nella società complessa, nella globalizzazione che non è solo Internet o movimento di capitali, ma incrocio di lingue, mescolanze di odori, facce diverse da quelle patinate della pubblicità.

Ma poi quando ci capita di storcere il naso perché nauseati dall'aroma che proviene dal ristorante cinese sotto casa, quando esitiamo a salire in ascensore con due nigeriani per altro gentili, quando imprechiamo per la scarsa igiene e il degrado delle nostre vie lastricate di lattine di birra e mozziconi di sigarette con espressioni più vicine al razzismo che al semplice disagio, non ci viene il sospetto che le nostre idee siano troppo accoglienti e filantropiche rispetto alla nostra capacità di sopportazione, quasi che il nostro corpo si rifiutasse alla generosità delle nostre idee?

Non abbiamo alle volte concepito idee troppo grandi rispetto alle nostre capacità? E queste idee non ci piombano addosso per sconfiggerci intimamente? Non è meglio che un po' di legalità abbassi l'asticella dove abbiamo collocato le nostre idee filantropiche per renderle compatibili col grado di tolleranza di cui siamo di fatto capaci, ma non oltre?

Le ordinanze di Cofferati hanno dunque messo in evidenza due contraddizioni rimosse dalle nostre coscienze beate e assopite, due limiti che il mondo della legge pone opportunamente al mondo della vita per renderla praticabile, e che le pratiche di vita pongono al mondo delle nostre idee che sono tanto più filantropiche e generose quanto più siamo certi che nessuno ce ne chiede l'attuazione. Ma c'è un terzo elemento che non è una contraddizione, ma un rischio da cui le ordinanze di Cofferati tentano di metterci al riparo: il rischio della "deterritorializzazione" come risvolto negativo della globalizzazione.

Per deterritorializzazione intendo quel processo (accompagnato dalla percezione diffusa che siamo solo all'inizio) che traduce le grandi città in agglomerati di sconosciuti, senza più quel tessuto sociale che creava quel rapporto fiduciario tra gli abitanti del territorio i quali, se anche non si conoscevano, sapevano di sottostare a quella legge non scritta che era l'uso e il costume degli abitanti di quella città. Già da vent'anni i demografi che, al pari dei geologi nessuno ascolta perché gli uni e gli altri parlano di tempi che non sono l'oggi e il domani, avevano annunciato che nel 2030 i quattro quinti dell'umanità si sarebbero raccolti in 30 città. E questo cosa significa? Significa che le città avrebbero perso i loro connotati e sarebbero diventate pure estensioni di uomini, concentrati l'uno a fianco dell'altro, con l'unico vincolo che è il procacciamento del denaro. Non più un denaro prodotto dalle arti e dai mestieri del territorio, ma un denaro da tutto sradicato, che ha nei confini del territorio il suo maggior ostacolo.

Già oggi merci e denaro percorrono le vie del mondo più liberi dell'uomo, e rispetto a loro l'uomo trova il proprio riconoscimento solo come funzionario delle merci e funzionario del denaro. Funzionari legali come tutti quelli che vanno in fabbrica o in ufficio, funzionari illegali come quelli che, ai bordi della città, premono con le loro pratiche di capitalizzazione selvaggia che da sempre sono la prostituzione, l'usura, il commercio della droga e delle armi.

Ma quando il denaro legale o illegale che sia, diventa l'unico vincolo di convivenza di quegli agglomerati di varia umanità che, senza più usi, costumi e tradizioni comuni, solo per pigrizia mentale continuiamo a chiamare "città", allora è prevedibile che il tessuto di convivenza si dissolva e l'azione criminale, se non gesto quotidiano, rischia di diventare gesto frequente.

Forse le ordinanze di Cofferati tentano un'estrema difesa del territorio con la specificità dei suoi usi, costumi e rapporti fiduciari, contro il processo di deterritorializzazione che diventa irreversibile quando il denaro, e solo il denaro, assurge a unico generatore simbolico di comportamenti, mentalità, relazione fra gli uomini. E tutto ciò nel tentativo, non si sa quanto utopico o realistico, di consentire a chi viene dopo di noi di riconoscersi ancora nella specificità di una città, e non nell'anonimato di un amorfo agglomerato umano, dove non solo gli immigrati, ma gli stessi abitanti della città faticheranno a reperire la loro identità e la loro appartenenza.


Umberto Galimberti

Salute!

Quindici milioni di persone muoiono ogni anno a causa di malattie infettive. Il 97% dei decessi avviene nei Paesi in Via di Sviluppo. La maggior parte di queste morti sono morti evitabili.

Polmonite, tubercolosi, malaria, diarrea e HIV/AIDS sono le malattie infettive responsabili della metà dei decessi . L'AIDS è la prima causa di morte nei paesi dell'Africa sub-sahariana.

Secondo l'OMS ( World Health Report 2004 ), queste sono le cifre di mortalità per le principali malattie infettive:
infezioni respiratorie: 4 milioni di morti;
AIDS/HIV: 2,8 milioni;
diarrea: 1,8 milioni;
tubercolosi: 1,6 milioni;
malaria: 1,3 milioni;
malattie infantili prevenibili: 1,1 milioni
meningite: 173.000;
leishmaniosi: 51.000
tripanosomiasi (malattia del sonno): 48.000.

Le morti materne (correlate alla gravidanza o al parto) sono ancora 510.000 all'anno ( World Health Report 2004 ).

Nel Sud del mondo e nei paesi in transizione dell'Est europeo ci sono circa due miliardi di persone che non hanno accesso alle cure adatte.

I Paesi a reddito più basso portano il peso dell'85% del carico globale di malattie, ma ancora incidono solo per l'11% della spesa sanitaria globale (fonte : World Bank Development Indicators 2002-publications.worldbank.org/WDI)


Le malattie infettive sono responsabili di più dei 2/3 dei decessi nella fascia sub-sahariana del continente africano.
A causa della non potabilità dell'acqua che consumano, circa 2 miliardi di individui ogni anno sono colpiti da diverse malattie e conseguentemente ogni anno muoiono più di 2 milioni di donne, di uomini e di bambini (fonte: Documento conclusivo del secondo Forum Mondiale dell'Acqua-2005)


Su 1.233 farmaci immessi sul mercato negli ultimi 25 anni del secolo scorso, solo 13 hanno un'indicazione specifica per le malattie tropicali (fonte : Trouiller et al., Lancet 2002, 359). La situazione resta tragicamente invariata
Malattie considerate scomparse stanno ricomparendo e diffondendo in forme molto pericolose, perché resistenti ai trattamenti standard (farmaco-resistenza): i farmaci conosciuti non sono più completamente efficaci.


Il 90% degli investimenti per la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci è destinato a problemi sanitari che riguardano il 10% della popolazione mondiale ( fonte : “ 10/90 Report on Health Research 2003-2004” – Global Forum for Health Research 2004)
Solo lo 0,2% degli investimenti per la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci riguarda polmonite, diarrea e tubercolosi, che causano il 18% delle morti nel mondo.
I costi stimati per il 2005 per le attività di cura, prevenzione e riduzione del danno sociale da infezione da HIV/AIDS nei Paesi a basse risorse finanziarie ammontano a 11,5 miliardi di dollari ( fonte : “The Macroeconomics of HIV/AIDS”, pag. 211-212, International Monetary Fund, 2004)
I costi stimati per conseguire gli obiettivi internazionali di lotta alla malaria ammontano a 3,2 miliardi di dollari all'anno, di cui il 36% per i farmaci efficaci e il 17% per test diagnostici rapidi ( fonte “World Malaria Report 2005”, section III, Roll Back Malaria-WHO/Unicef, 2005)


da http://www.msf.it/cosafacciamo/accesso/situazione.shtml