sabato 12 novembre 2005

Malattia planetaria

I gravissimi disordini che stanno sconvolgendo la Francia, la loro ampiezza, il loro carattere epidemico, impongono una riflessione che vada al di là delle facili ricette politiche legate all’immediatezza delle cronache. Io vi vedo i sintomi di una malattia planetaria. Il fatto che si manifestino con tanta virulenza nella civilissima Francia, e che abbiano anzi preso le mosse da quei «cento ettari» su cui più si è pensato nella storia dell'individuo occidentale, non deve farci perdere di vista il quadro complessivo in cui essi si iscrivono.

Se infatti si alza lo sguardo all’orizzonte, si scoprirà che ondate di instabilità si stanno muovendo simultaneamente in molte altre zone del mondo. Le radici del problema, io credo, non sono da ricercare tanto - o soltanto - negli errori commessi dai Paesi sviluppati nella gestione delle politiche migratorie, per meglio dire delle ondate di immigrati che li stanno investendo, quanto piuttosto nella vertiginosa crescita della disuguaglianza globale che si è verificata, e incessantemente è cresciuta, negli ultimi venticinque anni. L’ultima generazione è cresciuta in questa disuguaglianza crescente e i leader dei Paesi ricchi si sono illusi che milioni e miliardi si sarebbero adattati a questa situazione. Ora cominciamo a vedere che la crescita smodata della ricchezza di pochi non è più accettata da masse crescenti di poveri, ovvero di coloro che finiscono di sentirsi poveri (anche se con i metri del passato non lo sarebbero) di fronte all’ostentazione della ricchezza dei ricchi, che viene percepita come un’offesa.
Non è un caso che vengano dati alle fiamme i simboli della civiltà dei consumi e che, nello stesso tempo, la lotta politica e sindacale, che in altri tempi erano la norma, siano state scavalcate dall’esercizio di una violenza che non ha apparentemente obiettivi se non quello della distruzione.

Diamo un’occhiata a come è finito il recente summit pan-latino americano: un clamoroso fallimento dopo la constatazione di contraddizioni insanabili che hanno costretto il presidente degli Stati Uniti, George Bush, ad abbandonare la riunione senza avere ottenuto nulla, accompagnato dal conclamato dissenso dei dirigenti di Brasile, Argentina e Venezuela, cioè dei tre maggiori Paesi del continente latino americano. In questo caso il contrasto tra ricchi e poveri si è manifestato non nella forma di guerriglia urbana, ma in una rottura politica che non ha precedenti nella storia dei rapporti inter-americani.
E stiamo parlando, comunque, sempre del mondo occidentale, dove in apparenza sembrano essere in vigore gli stessi principi. Ma se spingiamo lo sguardo ancora un po’ oltre, non facciamo fatica a vedere un’area dove vivono oltre un miliardo d’individui che si sentono - così per lo meno a loro sembra - relegati ai margini del processo storico, respinti, umiliati, offesi. Sto parlando dei Paesi islamici, ovviamente. Che, per giunta, sono gli eredi di coloro che per 1500 anni esercitarono un’enorme influenza sul corso degli eventi mondiali e sulla cultura di tutte le civiltà vicine, inclusa quella europea.

Ho l’impressione che ciò che sta accadendo in Francia potrebbe ripetersi e moltiplicarsi in tutta Europa. A ben vedere, sebbene io mi auguri che ciò non accada, ve ne sono tutte le condizioni. In primo luogo, evidentemente, questi sono i frutti amari di una grave deficienza delle politiche di accoglimento migratorio che seguirono la fine del sistema coloniale. La Francia, che pure aveva accumulato una vasta esperienza dopo la tragedia della guerra algerina, sembrava aver realizzato un modello d’integrazione adeguato e funzionante. Adesso vediamo che le cose non stavano esattamente così e che la condizione sociale delle masse di immigrati era rimasta molto indietro sia rispetto alle condizioni dei cittadini di prima classe, sia rispetto alle aspettative maturate tra i cittadini di seconda classe. Il problema della giustizia e dell'uguaglianza è infine esploso come una bomba a scoppio ritardato.

Ma, come ho detto all’inizio, questo aspetto del problema è solo una parte e non la maggiore. Il fatto è che il «libero flusso dei capitali», che ha aperto e inaugurato l’era globale, non poteva non produrre alla lunga anche un immenso flusso di uomini e donne. Assai meno «libero», assai più obbligato, tragico, senza freni. E i nuovi arrivati sono diversi dai vecchi: conoscono - perché lo vedono in televisione - tutto ciò che viene reclamizzato come ottenibile, a portata di mano, ma sperimentano di non poterlo ottenere né adesso né mai. In questo assai simili a coloro che, nei Paesi ricchi, erano un tempo cittadini di prima classe e che stanno perdendo la loro cittadinanza tra i ricchi (o la speranza di ottenerla, prima o dopo). Lo prova il fatto che, nei disordini, si trovano implicati migliaia di giovani francesi, quelli di pelle bianca intendo dire.

E vorrei dire qualcosa anche sulla Russia. Io credo che la Russia non sia minacciata da una guerra con il mondo islamico. La Russia è da secoli un mondo di mondi, di popoli e di culture. Eppure i dirigenti politici russi non possono sfuggire, neppure loro, alla lezione dei tempi. Anche da noi si sta verificando una tensione crescente, che si manifesta in forme di disprezzo verso altre nazionalità. Sarebbe un errore sottovalutarle. Anche perché, in Russia come altrove, si troveranno assai rapidamente, quando non si siano già trovati, speculatori irresponsabili che vorranno usare queste tensioni a proprio vantaggio.

Mikhail Gorbaciov, La Stampa, 11 Novembre 2005

Nessun commento: