venerdì 29 gennaio 2010

Cristo, conversione dei cuori

Dal Convegno del 12 dicembre 2009 “Don Mazzolari e padre Bergamaschi, due pellegrini verso la verità”


Mi associo ai saluti e ai ringraziamenti rivolti fino ad ora ai presenti, presenti sia di qua che di là dal tavolo.

Sull’argomento dell’incontro faccio una permessa: parlerò principalmente di padre Aldo. Dico principalmente perché anche quello che dirò del suo maestro don Primo non è solo lettura mia ma, per lo più, lettura del discepolo padre Aldo. Dico subito che i due profeti sono stati i cantori di una utopia tanto celebrata e osannata quanto letteralmente tradita: l’utopia del Vangelo. So che l’utopia, in genere, è sempre un po’ derisa, ma a torto. L’utopia è in realtà la molla che spinge avanti di nascosto la storia. E questo lo dimostra proprio l’utopia del Vangelo. Se l’utopia fosse solo da deridere bisognerebbe strappare il Vangelo o buttarlo via. Ma nessuno, lo condivida o meno, ha il coraggio di farlo: grazie a Dio, ovviamente. Don Primo cantò il Vangelo da poeta, fu “il poeta del Vangelo”. Padre Aldo lo celebrò da filosofo, fu “il filosofo del Vangelo”. É una prima differenza da sottolineare che incide anche sui messaggi profetici dell’uno e dell’altro. Il poeta si lascia avvincere dalla bellezza della forma, il filosofo, invece, si sofferma sulla quadratura dei contenuti.

Ma c’è un’altra più importante differenza da sottolineare. Sul piano ecclesiale, il parroco di Bozzolo ha conosciuto gli incipienti e timidi entusiasmi dei rinnovatori preconciliari. Inoltre, sul piano politico-sociale, ha vissuto gli entusiasmi iniziali della riconquistata democrazia. E unitamente alla rinnovata democrazia ha vissuto la nuova realtà storica dei cattolici al potere. Invece, il cappuccino reggiano ha conosciuto gli entusiasmi conciliari prima, ma poi le misurate successive delusioni. Parallelamente, sul piano politico-sociale, ha sofferto le delusioni dell‘occupazione del potere da parte dei cattolici, nonché la loro successiva diaspora, Una diaspora, va detto, in linea con il pluralismo delle opzioni politiche, certificato autorevolmente anche dal Concilio Vaticano II. Un pluralismo, va aggiunto, che doveva rafforzare l’autonoma presenza dei cattolici in campo politico, che invece è stato praticamente cancellato dall’assunzione diretta e unitaria da parte della gerarchia ecclesiastica in nome dell’unità dei valori.

Orbene, sia la differenza delle tempre spirituali che le differenze delle fasi storiche, vissute dai due testimoni, hanno sicuramente inciso sulle idee e sul significato della loro testimonianza. Ed è proprio alla luce dei diversi quadri generali che si capiscono meglio, a mio giudizio, le affinità e le diversità di pensiero. Senza santificare i morti, mi permetto, ora, di esporre, nel tempo concesso, due temi tra quelli sicuramente di maggior spicco:
a) il cristianesimo come “novità esistenziale” e non come religione;
b) la città (polis) organizzata secondo l’amore cristiano.

Prendiamo il primo tema, cioè il cristianesimo non è una religione ma una “novità esistenziale”. Non entro nella discussione se Gesù Cristo avesse voluto o meno fondare una nuova religione. Certo è che padre Aldo non è il solo a definire la “religione” in una accezione negativa, cioè di tomba della fede. La Chiesa - non il Mondo, la Chiesa - ha crocefisso Cristo, scriveva con accentuata enfasi negli anni cinquanta del secolo scorso il teologo protestante Karl Barth.

In questa accezione negativa, per religione si intende l’esteriorità del rito, delle opere, della legge e dei dogmi anziché l’interiorità della fede, della vita, dello spirito e dell’esperienza personale. Ma c’è di peggio: la religione è diventata la tomba della fede cristiana quando da Costantino in poi, con il connubio spada-pastorale, la Chiesa ha fatto proprie le tentazioni di Satana che Cristo invece aveva decisamente rifiutate nel deserto, e precisamente: le tentazioni dell’autoritarismo dogmatico, del fascino manipolante del mistero e della forza perversa del potere temporale. Un potere temporale esercitato talvolta nella versione papicesarista (il Papa che strumentalizza Cesare), talvolta nella versione cesaropapista (Cesare che strumentalizza il Papa). Su queste tentazioni diaboliche fatte proprie dalla Chiesa nella storia, ricordo volentieri quello che mi disse di persona padre Aldo in una appassionata conversazione in convento. Mi disse esattamente: sul comodino di fianco al letto tieni sempre, vicino al Vangelo, la magnifica leggenda de “Il grande inquisitore” di Dostoevskij.

Al cristianesimo “caduto a rango di religione” il cappuccino reggiano contrappone il cristianesimo che si fa vita concreta del comandamento dell’amore, che si fa conversione del cuore (metanoia soleva ripetere spesso). Conversione del cuore che vuol dire - cito testualmente - «eliminare le contraddizioni della natura caduta non consentendo aggiornamenti commisurati ai propri vizi, bensì favorendo la responsabilità, in positivo, a mostrare appunto la novità della fede». Cristianesimo uguale, dunque, a novità di vita.

Ci dobbiamo ora chiedere: quali sono i cardini portanti una tale novità? La risposta di padre Bergamaschi è chiara e netta. Anzitutto c’è il cardine della fede. «Non credo nei miracoli, - diceva e scriveva il cappuccino - non credo nei miracoli della bacchetta magica perché sono cristiano, e in quanto tale credo solo in due interventi di Dio nel mondo: nella creazione e nella redenzione». La Verità sta in questa duplice sorgente: nella natura del creato e in Gesù Cristo, il Verbo (Logos) di Dio che si è fatto carne. In altre parole: la Verità si legge anzitutto nella creazione e poi nella Parola di Dio comunicata direttamente e una volta per sempre da Gesù. In Gesù, precisa padre Aldo, «nato e morto, ma non rimasto come non venuto dalla Palestina, ove la supposta “religione” rivelata aveva raggiunto il massimo della corruzione ... Venuto in Palestina - aggiungeva - per spezzare il legame che la religione aveva costruito tra un gruppo umano e Dio». Dopo di Lui chi crede nella rivelazione del Vero Dio ha l’obbligo di mostrare a tutti il suo Messaggio in cui sta la soluzione dei problemi umani per il fatto autenticamente rivoluzionario che mette al posto dell’«etica dell’homo homini lupus (l’uomo che si fa lupo per l’altro uomo) l’opposta’etica dell’homo homini Deus (l’uomo quale volto di Dio per l’altro uomo)». Altro che l’imperante individualismo “fai da te” dei nostri giorni!

Un altro importante cardine fondante la personale novità esistenziale è il rapporto che si viene a stabilire tra Cristo (cioè la Parola di Dio) e la Chiesa (cioè Popolo di Dio e Gerarchia Ecclesiastica compresa). Anche qui il pensiero di padre Aldo è chiaro, senza giri di parole. La Chiesa va definita, nella sua interezza comunitaria, come medium in quo, cioè come mezzo entro il quale tutti cerchiamo di comprendere il messaggio di Cristo. La Chiesa, considerata solamente nella sua struttura gerarchica, pertanto, non è il medium quod, cioè il mezzo, esso solo, che fa conoscere la verità. In altre parole, la gerarchia ecclesiastica fa un “servizio” che aiuta il Popolo di Dio a conoscere la verità, ma non ha il compito di “comandare” la verità. Solo se stiamo tutti (popolo di Dio e Gerarchia compresa) “sotto la Parola” si può dire, come si legge negli Atti degli Apostoli, che «si deve obbedire prima a Dio che agli uomini».

Certamente esiste un problema ermeneutico, vale a dire il problema di leggere correttamente il Vangelo. Ciò esclude, ad ogni buon conto, che l’autorità del magistero ecclesiastico debba porsi al di sopra della libertà di coscienza di ogni credente, guidato da una robusta razionalità sorretta - sostiene il Bergamaschi - dal Principio di non contraddizione. Siamo, come si vede, al rischio della libertà. Il rischio che in più grossa misura tocca i profeti e ne costituisce il loro tormento. Quel rischio che hanno conosciuto tanto padre Aldo quanto don Primo. Anche il parroco di Bozzolo aveva infatti sollevato il problema della identificazione di Verità e Chiesa. Qualcuno - ha scritto - fa troppo facile il passaggio dal Cristo persona al Cristo Chiesa, da una Umanità uscita dal seno purissimo di Maria Vergine a una umanità che siamo noi tutti, con le nostre tristezze.

Non entro nei dettagli dell’inevitabile e appassionato dramma dell’ubbidienza all’autorità gerarchica, specie da parte di chi ne ha fatto voto nella sua vocazione sacerdotale. Vorrei semplicemente notare la grande ma anche diversa nobiltà di stile dimostrata, pure in questo campo, dai nostri due testimoni di Cristo. Basta leggere attentamente le loro lettere di obbedienza al richiamo severo rivolto loro dalle rispettive legittime autorità. Nel 1951 don Primo, rispondendo alla lettera che gli vietava di scrivere sul suo Adesso, tra l’altro afferma: Adesso è meno di un attimo, mentre la Chiesa è la custode dell’Eterno ed io voglio rimanere nell’Eterno. Il che pare identificare tout-court Cristo con la Chiesa. Trentasette anni dopo, Padre Aldo, attenendosi all’insegnamento di Gesù, scrive tra l’altro ai suoi censori: «nell’ipotesi che qualcuno vi perseguiti o vi calunni pregate per loro». Il che mi sembra rispettare coerentemente la primalità di Cristo sulla Chiesa.

Passo, ora, al secondo tema annunciato: la società organizzata secondo l’amore cristiano. A dire il vero, se penso al perverso individualismo esagerato che sospinge molta, troppa gente ad appoggiarsi all’ideologia dei ricchi e dei potenti come uscita dalla loro miseria (un virus dell’individualismo che contagia persino il poverissimo continente africano), se penso a questo, ciò che ora dirò potrà sembrare una favola. Ma non posso non raccontarla brevemente nella speranza di una inedita “primavera dei cuori”. Padre Aldo cammina con logica stringente sul filo del comandamento di Gesù: Amatevi come io vi ho amato, cioè - precisa il cappuccino - senza profitto. É la carta costituzionale della sua polis cristiana che innerva i tre maggiori filoni del vivere sociale: l’eros, il denaro e il potere. Si tratta - afferma il nostro cappuccino - di finalizzare il sesso, il denaro e il potere evitando di farli fini a se stessi: il sesso per il sesso, il denaro per il denaro, il potere per il potere.

Entriamo così in Telergo, il luogo ideale a cui ha accennato il coordinatore di questo incontro, l’amico Nando Cottafavi. Il lavoro (ergon) realizza il suo fine (telos) solo quando genera e controlla il capitale. In breve, il capitale è comunitario, il frutto del lavoro viene suddiviso fra tutti così da soddisfare in modo uguale i bisogni di ognuno (parabola dei vignaioli) indipendentemente dalle mansioni e dai talenti dei singoli (parabola dei talenti). Questo non significa, sia chiaro, contestare la ricchezza e il progresso ma vivere la povertà intesa come uguaglianza contro le disparità talvolta stratosferiche derivanti dalla logica del profitto. E tutto ciò, infine, non perché imposto dall’alto in nome della legge bensì perché sentito e condiviso come espressione di fratellanza.

Padre Bergamaschi era consapevole della radicalità cristiana del suo progetto politico. Il che lo induceva a definire il progetto politico di don Mazzolari una «sinfonia incompiuta» che lo affaticava inutilmente per portare la fiaccola del risveglio cristiano nella democrazia soltanto formale del suo tempo, poi in continuo degrado. Padre Bergamaschi aveva anche un’anima profondamente laica, non in contraddizione, come vedremo, con la sua radicalità cristiana. Un’anima laica che non voleva imporre la propria visione del mondo e la propria etica a nessuno. Orbene, quest’anima lo ha condotto a proporre la «divisione delle etiche» nel senso che ogni etica potesse organizzarsi entro una propria area territoriale onde mostrare la propria validità senza offendere le altre; e ciò secondo un ordinamento impersonato da un Governo mondiale.

Realisticamente, la semplicità lineare ed elementare di una tale proposta cristiana radicale non trova spazio in un mondo complesso. Ma, a mio parere, può diventare una testimonianza fattibile nella veste di un nuovo tipo di monachesimo di ordine non religioso. Un monachesimo che si può realizzare in oasi di luce possibili in un mondo frantumato e conflittuale, impregnato di ossessive ricerche identitarie entro una perversa forma di globalizzazione.

Mi avvio alla conclusione con una riflessione sulla funzione della profezia nella storia. I profeti non sono quelli che prevedono il futuro, non sono dei veggenti. Sono, in realtà, dei portatori e dei testimoni di una verità. Sono, più semplicemente ancora, dei grandi educatori dell’umanità che parlano in nome di Dio. Il problema è di sapere ascoltare i profeti, senza lavarsene troppo facilmente le mani. Conosciamo tutti la definizione data da Papa Giovanni XXIII di don Mazzolari nell’udienza in Vaticano l’anno 1959: Tromba dello Spirito Santo in terra mantovana. Senza dubbio un alto riconoscimento. Pure tutti conosciamo il giudizio espresso successivamente da Papa Paolo VI: Aveva il passo troppo lungo; noi si stentava tenergli dietro. Ha sofferto lui, abbiamo sofferto anche noi. È il destino dei profeti. É vero che c’è della sofferenza. Non mi piace, però, quando il realismo del passo lento diventa un alibi per tenere il passo del gambero. Più che alla sofferenza mi piace guardare alla francescana “perfetta letizia”, come è stata definita dal nostro padre cappuccino con un linguaggio da nuova frontiera: un gridare “selliamo i cavalli” quando c’è in giro il gusto borghese del bivacco.

A questo punto mi domando: sulla scia dei due pellegrini verso la verità, quali linee di presenza cristiana si possono tracciare per dare alla realtà dei nostri giorni una speranza di futuro meno preoccupante? Gli appassionati scritti e le vibranti parole (dette sia in pubblico che in privato) hanno lasciato viva l’impronta di una Chiesa profetica che sintetizzo in alcune istanze distintive:

Anzitutto, il bisogno di una Chiesa della spiritualità. Prima della ripetizione formale dei riti, dell’istituzione chiusa in se stessa, della tradizione di dogmi rigidi che fabbricano Dio a immagine e somiglianza dell’uomo che vive nel tempo, anziché sospingere l’uomo in avanti fino a somigliare sempre più a Dio; prima di tutto questo c’è il bisogno della “novità esistenziale”, ricordata sopra. In una filippica accorata rivolta alla politica del suo tempo, don Primo ha scritto sull’Adesso: Oggi non conta l’uomo di sinistra né l’uomo di destra, né di centro, ma solo la “nuova creatura”. Questa è la casa da cui partire per il rinnovamento. Non conta cambiare l’età o il nome; conta il cuore nuovo. Chi non parte da qui si riempie di rinnovamento solo la bocca.

Un altro segno lasciato in eredità è la domanda di una “Chiesa della fratellanza”. Oltre la carità agli azzoppati - ripeteva spesso padre Aldo - è doveroso correggere il sistema che crea gli azzoppatori. Parallelamente, la ricerca identitaria vale fino a che non si trincera dietro il proprio egocentrismo ma che si apre all’altro, diverso o meno che sia,.ovviamente dentro l’invito senza paura al rispetto vicendevole.

Ultimo importante segno lasciato dai nostri profeti è l’appello per una Chiesa maestra di autentica laicità, cioè lontana dalla sempre ricorrente tentazione teocratica. Data la cruciale attualità dell’argomento, spendo in proposito poche parole. In primo luogo, sottolineo che la laicità non è un’etica ma un atteggiamento etico di rispetto di tutte le etiche, religiose e non. Ciò evita l’errore di chi continua a confondere, con incredibile ritardo culturale, laicità con non-credenza per cui si contrappone ancora spesso, per esempio, laico a cattolico. La vera contrapposizione, invece, sta tra laicità e fondamentalismo (o integralismo che dir si voglia). Di conseguenza si devono definire fondamentalisti sia i credenti cattolici, sia i diversamente credenti e sia i non credenti, così come si devono definire laici sia gli uni che gli altri. La specificità di quest’ultimi sta nella saggezza di agire da credenti nella ecclesìa e da cittadini nella polis.

In secondo luogo, la laicità è autentica se è positiva, cioè capace di dare spazio pubblico a tutte le etiche. Non è quindi agnostica, alla francese per intenderci, nel senso di ridurre le etiche (religiose o non) a fatto privato. La laicità positiva, inoltre, non esclude valori civili comuni. In altri termini non esclude un ethos condiviso che consenta concretamente la convivenza pacifica di tutte le etiche. Si tratta, in sostanza, di dar vita a quell’ethos meta-politico di cui hanno parlato, in dialogo costruttivo, Papa Benedetto XVI e il filosofo Habermas. Un ethos globale, tipo una aggiornata “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” deliberata dall’ONU esattamente 51 anni fa; un ethos globale che escluda la logica cosiddetta democratica del numero e sia invece frutto di un dialogo alla pari tra tutte le etiche senza imposizioni da parte di alcuna. Affrontare con questo spirito laico e meta-politico insieme le questioni, tanto per esemplificare, di bioetica o l’educazione al pluralismo etico-religioso nella scuola, invertirebbe il pericoloso degrado della democrazia, dei costumi e dei rapporti tra le civiltà.

Una Chiesa profetica, come sopra triplicemente segnata dai nostri due grandi educatori, pone a suo fondamento una scelta coraggiosa e coerente: la scelta di non inseguire la croce di Costantino ma di seguire fedelmente la croce del Golgota. Quella vera di Gesù che ha predicato e vissuto, fino al prezzo della vita, la distinzione tra il Regno di Cesare nella sua dura storicità e il Regno di Dio nel suo profondo mistero di Verità-Amore. Certo, e concludo, abbiamo molto bisogno di profeti per apprendere l’apparente paradosso di vivere, unitamente distinti, il Gesù della storia e il Gesù della fede.


Nando Bacchi

Nessun commento: