sabato 6 agosto 2005

60 anni fa, l'olocausto terroristico di Hiroshima

Il 1945, anno di sollievo per la fine della massima guerra della storia, anno felice per l'inizio, sebbene imperfetto, del diritto planetario di pace (nell'Organizzazione delle Nazioni Unite), resta un anno orribile, segnato dal massimo atto di violenza bellica e scientifica; un atto istantaneo, ma con effetti lunghissimi nel tempo: l'olocausto terroristico di Hiroshima e Nagasaki.

La tesi ufficiale statunitense, riproposta nel 1995, nel cinquantenario, su una serie di francobolli commemorativi, giustificò la strage come risparmio di vite umane (americane) e accelerazione della pace. Vediamo se tale versione verrà di nuovo discussa adeguatamente quest'anno, nel sessantesimo anniversario.

Il libro di Gar Alperovitz, Atomic Diplomacy (prima edizione 1965, seconda edizione nel 1985, tr. it. Einaudi 1966 col titolo Un asso nella manica) documenta come le bombe atomiche non erano militarmente necessarie, perché il Giappone chiedeva la pace, ma furono usate, nonostante i dissensi tra gli scienziati, tra i militari e dentro lo stesso governo Usa, per "uscire dall'affare giapponese prima che i russi vi entrino".

Hiroshima e Nagasaki sarebbero quindi atti di "diplomazia atomica" nei confronti dell'Urss, il primo atto della guerra fredda, a spese di centinaia di migliaia di vite di civili giapponesi, e di avvelenamento di altre vite e della pace negli anni successivi. Un atto col quale il mondo scivolava nella spirale atomica e veniva consegnato ad un nuovo potere della morte.

Dovremmo avere imparato, da allora ad oggi, che la minaccia accresce la minaccia, mentre de-minacciare produce maggior sicurezza per tutti. Quella conclusione atomica della guerra, quella "pace atomica", dà fondamento alla tesi paradossale che la seconda guerra mondiale l'abbia vinta Hitler, dal momento che il suo sterminismo a scopo di dominio fu ereditato e accresciuto, come minaccia e pericolo tuttora incombente, dai vincitori. Lo dicono diversi studiosi. Ascoltiamo qualche altra parola di saggezza sul crimine di guerra impunito dell'agosto 1945.

Gandhi scriveva: "La bomba atomica ha fatto ottenere una vuota vittoria agli eserciti alleati, ma ha significato la distruzione dell'anima del Giappone. É ancora troppo presto per vedere che cosa é avvenuto nell'anima della nazione che ha impiegato la bomba atomica".

Dieci anni fa leggevamo il piccolo libro Hiroshima, non dovevamo, del filosofo John Rawls (autore di Una teoria della giustizia, 1971) insieme ad altri autori statunitensi come lui. A cinquant'anni da quell'agosto atomico, il dibattito su Hiroshima era riesploso negli Usa: ufficialmente si era chiuso sulle posizioni governative, uguali a quelle del 1945, ma fu vivace e approfondito nella cultura, come dimostra questo libro, e persino nelle televisioni. La mostra sull'Enola Gay, per l'insorgere dei veterani e della destra, dovette sostituire il catalogo ampiamente critico, con poche pagine asettiche. Rawls, entro i vecchi limiti dello jus in bello (regole da rispettare nella guerra), proponeva sei principi o postulati che impegnano "una società democratica decente".

Li riassumo: 1) lo scopo di una guerra giusta é una pace giusta e duratura anche coi nemici del momento (osservo che lo stesso chiede Kant, Per la pace perpetua, VI articolo preliminare); 2) una società democratica combatte soltanto contro uno stato non democratico, espansionista, minaccioso; 3) nella guerra contro un tale nemico, una società democratica distingue attentamente tra governanti, soldati, popolazione civile e considera responsabili della guerra soltanto i primi; 4) una società democratica rispetta i diritti umani dei nemici, sia civili che militari, primo perché sono sempre membri della società umana, secondo per insegnare loro con l'esempio, perciò non li attacca mai direttamente salvo che in caso di crisi estrema; 5) i popoli giusti devono prefigurare, durante la guerra, il tipo di pace e di rapporti internazionali a cui mirano (cfr. Kant); 6) la valutazione pratica dell'opportunità di un'azione deve sempre essere severamente limitata dai principi suesposti.

Si può dedurre dall'insieme che non furono veri "uomini di stato" né quelli che imposero alla Germania nel 1919 la pace punitiva di Versailles, culla del nazismo, né quelli che decisero l'uso dell'atomica. Hiroshima - dice Rawls ed é ormai accertato - non configurava il caso di crisi estrema; Truman e Churchill, che non rispettarono quei limiti alla conduzione della guerra, non furono veri "uomini di stato"; Truman é "fallito come uomo di stato" (p. 31); sia Hiroshima che i bombardamenti incendiari sulle città giapponesi o su Dresda furono "gravi torti" e "gravi errori" (p. 29). I governanti non ebbero tempo per riflettere, la guerra impedisce di pensare.

É ciò che il pensiero della pace afferma: la guerra non continua la politica, ma la nega. E nega la democrazia. Dobbiamo infatti dedurre (pur distinguendo fra i loro governanti e la società civile, da cui vennero subito alcune condanne dell'uso dell'atomica: v. p. 46), che gli Stati Uniti non furono "una società democratica decente" in quella circostanza che ha determinato la storia universale successiva.

Il guaio grave é che ancora nel 1995 la tesi ufficiale giustificò accanitamente le bombe di Hiroshima e Nagasaki. Clinton concluse: "Truman ha fatto quel che si doveva fare". Il 76% degli americani (84% oltre i 65 anni) riteneva che gli Usa non dovessero presentare scuse al Giappone. Potevamo dire già allora che il modello statunitense, tanto idolatrato, configura una società che può diventare democratica e giusta, all'esterno come all'interno, perché dove c'é possibilità di dibattito c'é correggibilità, anche se non lo é ancora, purché guarisca dai propri mali spirituali profondi.

Giovanni XXIII, nella Pacem in terris (1963), dedicava al disarmo i nn. 59-63 (nell'edizione ufficiale in italiano):

"Ci é pure doloroso costatare come nelle comunità politiche economicamente più sviluppate si siano creati e si continuano a creare armamenti giganteschi (...). Gli armamenti, come é noto, si sogliono giustificare adducendo il motivo che se una pace oggi é possibile, non può essere che la pace fondata sull'equilibrio delle forze. Quindi se una comunità politica si arma, le altre comunità politiche devono tenere il passo ed armarsi esse pure. E se una comunità politica produce armi atomiche, le altre devono pure produrre armi atomiche di potenza distruttiva pari. In conseguenza gli esseri umani vivono sotto l'incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una travolgenza inimmaginabile. (...)

Giustizia, saggezza ed umanità domandano che venga arrestata la corsa agli armamenti, si riducano simultaneamente e reciprocamente gli armamenti già esistenti; si mettano al bando le armi nucleari; e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci (...)

[É necessario] che al criterio della pace che si regge sull'equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia. Noi riteniamo che si tratti di un obiettivo che può essere conseguito. Giacché esso é reclamato dalla retta ragione, é desideratissimo, ed é della più alta utilità. (...)

I rapporti fra le comunità politiche, come quelli fra i singoli esseri umani, vanno regolati non facendo ricorso alla forza delle armi, ma nella luce della ragione; e cioé nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante".

Tutto la terribile tirannia atomica sulla vita dell'umanità, che, proliferando tra gli stati nuclearisti, non ha fatto altro che accrescersi, é nata dalla strage di Hiroshima e Nagasaki.

É vero che gli Stati Uniti costruirono l'atomica, su consiglio di Einstein, nel timore che arrivasse a costruirla per prima la Germania, ma é altrettanto vero che lo stesso Einstein e i migliori degli scienziati atomici furono contrari all'impiego di quell'arma, quando la Germania era già vinta e il Giappone si piegava, e furono alla testa del movimento antinucleare: quest'anno é anche il cinquantesimo anniversario del grande manifesto Einstein-Russell.

Jean-Marie Muller, nel recentissimo Dictionnaire de la non-violence, alla voce Terrorismo scrive: "La condanna del terrorismo avrà tanta minor forza e coerenza se giustifica altre forme di azione violenta che non sono meno micidiali e possono essere ugualmente criminali. Esiste anche un 'terrorismo di stato’ che non merita alcuna indulgenza, non più dell'altro".

La ricorrenza di quel crimine atomico cade quest'anno in un momento molto minacciato dalla violenza statale e dalla violenza privata, complici e alimento l'una dell'altra. Ma in questi anni l'opposizione popolare alle violenze, o almeno la sempre minore rassegnazione fatalistica del passato al regno della violenza, caratterizzano una linea di fondo del movimento storico.

Il no alla violenza, tuttavia, é nobile ma rimane impotente se i popoli non crescono nella conoscenza e nella pratica della nonviolenza positiva e attiva, che é rifiuto di riprodurre la violenza, ma é soprattutto lotta per la giustizia coi mezzi della giustizia, con la forza della verità umana, dell'unità, del coraggio, dell'amore anche per l'avversario violento, per resistergli e per ricuperarlo alla convivenza umana decente.

Affinché la nonviolenza possa diventare cultura e educazione popolare, perciò politica, occorre che i tanti gruppi e movimenti impegnati per la pace si conoscano e si incontrino assai di più, nell'autonomia di metodi e ispirazioni, fino a rappresentare una federazione nonviolenta attiva di forze nazionali e internazionali, che producano una politica di pace. Lo chiedono a noi, gridando in silenzio dentro i nostri cuori e le nostre menti, tutte le vittime di ogni violenza, prima e dopo il giorno di Hiroshima, fino ad oggi.