sabato 31 dicembre 2005

Buon 2006

"Buon 2006", e non "Buon Anno"!
Sono 365 giorni unici,
irripetibili.
No!
Non ritorneranno.
Non daranno proroghe alla nostra accidia;
Non faranno sconti alla nostra intraprendenza.
Non ritorneranno ma nemmeno passeranno,
Se aiuteremo il nuovo a crescere;
Se "forzeremo l’aurora a nascere".

............

E non l’anno sarà nuovo!

Nuovo sarà il domani se noi saremo nuovi:
Se avremo nuovi occhi per vedere spazi di libertà creativa là dove le necessità del sistema tolgono anche l’aria del respiro.

Nuovo sarà il domani se noi saremo nuovi:
Se avremo nuovi orecchi per ascoltare l’umana invocazione di aiuto la dove l’irata bestemmia spezza ogni speranza.

Nuovo sarà il domani se noi saremo nuovi:
se sapremo volare alto, nell’orizzonte tinto di sangue muto, sulle orme di Francesco, più che sulle ali del Condor!


Don Aldo Antonelli (http://www.ildialogo.org/editoriali/augurialdo31122005.htm)

lunedì 26 dicembre 2005

Papa di cartone?

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Natale, Papa Benedetto XVI :

"dare coraggio a tutti gli uomini di buona volontà in Iraq, Libano e Terrasanta, dove i segni di speranza, che non mancano, hanno bisogno di essere confermati da azioni ispirate alla giustizia e alla saggezza"

"protezione per tutti coloro che soffrono di tragiche crisi umanitarie, soprattutto nel Darfur, ma anche nel resto dell'Africa"

"favorire la continuazione del dialogo nella penisola coreana, ma anche in altre parti dell'Asia", in modo che dispute pericolose "si risolvano con conclusioni pacifiche", e infine la "speranza che i popoli dell'America Latina possano vivere in pace ed armonia"

"un'umanità unita potrà meglio risolvere i preoccupanti problemi attuali: dalla minaccia del terrorismo, alla proliferazione di armi, alle pandemie alla distruzione ambientale che minaccia il nostro pianeta"

Con un discorso così a me non mi prendono nemmeno a distribuire i volantini per gli Hare Krishna. Quelli per vendere gli incensini e il Balsamo di Tigre, però, non quelli già impegnativi che parlano di fratellanza universale.

<...>

Massimo Mazzucco

da www.luogocomune.net/site/modules/news/article.php?storyid=948&com_id=27556&com_rootid=27539&#comment27556

domenica 11 dicembre 2005

CEI: tempo di censure?

La censura della Conferenza episcopale italiana si abbatte sulla tradizionale marcia pacifista di Capodanno promossa da Pax Christi, insieme alla Caritas italiana e all'Ufficio nazionale per il problemi sociali e il lavoro della stessa Cei. I relatori dell'incontro-dibattito che precederà la marcia vera e propria - quest'anno in programma a Trento -, Arturo Paoli e Antonio Papisca, sono stati bocciati dalla segreteria generale della Cei, da cui dipende l'Ufficio nazionale per il problemi sociali e il lavoro, e sostituiti con nomi di fiducia del vertice della Chiesa italiana, senza nessun tipo di confronto con la Commissione che da mesi lavora alla preparazione della marcia.

L'organizzazione dell'evento, infatti, era stata affidata ad un gruppo di lavoro locale, in cui, oltre all'Ufficio nazionale della Cei per i problemi sociali e il lavoro, erano rappresentati tutti i soggetti promotori (Pax Christi, Caritas diocesana, Commissione Giustizia e pace e Ufficio per l'ecumenismo della Diocesi di Trento, Centro missionario, e alcune associazioni e movimenti laicali trentinI fra cui Acli, Movimento dei Focolari e Agesci), che aveva messo a punto il programma della manifestazione, approvandolo all'unanimità: un incontro-dibattito al palazzetto dello sport di Gardolo e, a seguire, la fiaccolata verso il duomo di Trento. Erano stati individuati anche i relatori: Arturo Paoli, piccolo fratello di Charles de Foucauld per oltre 40 anni missionario in America Latina, e Antonio Papisca, docente di Diritto internazionale all'Università di Padova; e, a coordinare il dibattito, Francesco Comina, giornalista e membro di Pax Christi. Il programma è stato poi inviato a Roma, all'Ufficio nazionale per il problemi sociali e il lavoro della Cei, per l'approvazione definitiva ma è tornato corretto al mittente. I nomi dei relatori erano stati cancellati a penna e sostituiti da altri: mons. Mariano Manzana (trentino, vescovo della diocesi brasiliana di Mossorò) e p. Gabriele Ferrari (già Superiore Generale dei Missionari Saveriani) al posto di Arturo Paoli; il politologo Gianni Bonvicini (trentino, direttore dell'Istituto Affari Internazionali di Roma) al posto di Antonio Papisca; e Umberto Folena, giornalista di "Avvenire", al posto di Francesco Comina.

La Commissione organizzatrice ha chiesto spiegazioni a don Paolo Tarchi, direttore dell'Ufficio nazionale della Cei per i problemi sociali e il lavoro, il quale però non ha fornito alcun chiarimento, rinviando tutto ad un confronto con i quattro vescovi interessati dall'iniziativa: mons. Luigi Bressan, vescovo di Trento, mons. Arrigo Miglio, presidente della Commissione Cei per i problemi sociali e del lavoro, mons. Tommaso Valentinetti, presidente di Pax Christi, e mons. Francesco Montenegro, presidente della Caritas italiana.

"Un confronto che cercheremo", spiega ad Adista Alberto Conci, che partecipa al gruppo organizzatore della marcia in qualità di membro di Pax Christi e della Commissione Giustizia e pace della Diocesi. "Rimane però un grande problema di metodo: qual è il senso del lavoro di una Commissione ecclesiale locale come la nostra se poi arrivano delle direttive dall'alto che non è possibile nemmeno discutere?".

In assenza di spiegazioni si fanno delle ipotesi: "Evidentemente qualcuno ha voluto zittire le voci di chi crede ancora nella Chiesa del sociale", taglia corto Luisa Zanotelli, componente del Movimento per la pace e sorella di p. Alex (L'Adige 26/11). "Forse qualcuno temeva che Papisca avrebbe detto qualcosa contro la guerra, un qualcosa che alla Chiesa ufficiale non piace".

Sembra poi che alla Cei non siano piaciute alcune cose che Arturo Paoli va dicendo da qualche tempo a proposito del papato ("la sede di Pietro è vacante da quando è morto papa Roncalli"; un'affermazione comparsa anche sulle pagine del n. 6 di "Micromega", nel dialogo sulla Chiesa fra quattro "preti di frontiera"). Oppure che la Cei abbia voluto inviare subito un segnale al nuovo coordinatore di Pax Christi (don Fabio Corazzina che da pochi mesi ha sostituito don Tonio Dell'Olio), per fissare dei 'paletti' rispetto all'autonomia del movimento.

Non ci saranno comunque rotture, conferma don Corazzina, che però chiede chiarimenti sul piano del metodo: "una decisione, senza motivazioni, venuta dall'alto, non è giustificabile". "Spero che il popolo dei laici possa essere preso sul serio e spero che i nostri vescovi, in futuro, si esprimeranno in termini comunitari".

Luca Kocci - ADISTA

domenica 27 novembre 2005

Ad Assisi "sacrificavano" anche i polli

Non potevamo mancare di segnalare questa intervista a Vittorio Messori comparsa su La Stampa il 21 novembre 2005.

Le residue certezze legate al "poverello di Assisi" si stanno sgretolando. Francesco pacifista? Animalista? Ecumenico? Tutte balle diffuse da "Una vulgata falsa, che ne svilisce il messaggio". Francesco è "il figlio più autentico della Chiesa delle crociate". (red.)



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“La Chiesa ha la memoria lunga. É dal meeting interreligioso del 1986 che Joseph Ratzinger aveva un conto da saldare con i frati di Assisi. Ora le cose sono a posto”. Vittorio Messori, lo scrittore cattolico italiano più letto nel mondo (unico ad aver scritto un libro con gli ultimi due Papi) svela cosa c'è dietro il “commissariamento” pontificio del Sacro Convento e racconta di quando il futuro Benedetto XVI si indignò per i sacrifici pagani compiuti sull'altare di Santa Chiara, a ridosso della cripta gotica che conserva i resti terreni della fondatrice dell'ordine delle Clarisse.

Sacrifici pagani ad Assisi?
“Ratzinger non ha perdonato alla comunità francescana gli eccessi della prima giornata di preghiera dei leader religiosi con Karol Wojtyla. Una carnevalata, a detta di molti, che forzò la mano al Papa e furono proprio i frati ad andare molto aldilà degli accordi presi. Permisero addirittura agli animisti africani di uccidere due polli sull'altare di Santa Chiara e ai pellerossa americani di danzare in chiesa. Ratzinger aveva fortissime perplessità dall'inizio, non volle andare ad Assisi e le sue riserve limitarono i danni”.

In che modo?
“La notte prima del meeting limò il testo del discorso frenando Giovanni Paolo II. E divenne nitido nella sua mente che l'enclave francescana, sganciata da ogni collegamento con il vescovo di Assisi, era un'anomalia da sanare. Andava limitata e riportata sotto il pieno controllo giuridico della Chiesa. Il conto per quelle basiliche cristiane cedute ai culti pagani è stato saldato 19 anni dopo”.

Troppa autonomia?
“I frati hanno abusato del cosiddetto spirito di Assisi. In realtà loro venerano e diffondono illegittimamente un santino romantico e di derivazione protestante, ossia il San Francesco del mito, uno scemo del villaggio che parla con lupi e uccellini, dà pacche sulle spalle a tutti. Una vulgata falsa, che ne svilisce il messaggio. Il Francesco della storia, infatti, è il figlio più autentico della Chiesa delle crociate”.

Non era pacifista?
“Assolutamente no. Alla quinta crociata, San Francesco partecipò come cappellano delle truppe mica da uomo di pace. Cercò in ogni modo il martirio per riconquistare la Terra Santa e cadde in depressione quando i crociati persero. Dal sultano non ci andò per dialogare ma per convertirlo e lo sfidò a camminare sui carboni ardenti per verificare se fosse più potente Cristo o Maometto. E non era neppure animalista. Nel Cantico delle creature gli animali non sono mai nominati. E poi, ma quale ecologista! Si oppone ai suoi seguaci che volevano diventare comunità vegetariana».

Ora, dunque, il Pontefice vuole ristabilire l'ortodossia?
“Certo. Anche a San Giovanni Rotondo i francescani avevano sfilato il santuario dal controllo della diocesi. Adesso sia lì che ad Assisi le iniziative dei frati andranno concordate con l'episcopato. Ed è un bene anche per il Sacro Convento, così la smetteranno con la demagogia del politicamente e teologicamente corretto. Stop all'artificio di pace, ecologia, ecumenismo e alle velleità pseudo-coraggiose che poi fanno stringere le mani dei dittatori e violare le chiese”.

Il Pontefice “normalizza”?
“Lo spirito di Assisi non è come lo hanno inteso i frati del Sacro Convento e Joseph Ratzinger è pienamente consapevole di questo colossale errore dalla giornata mondiale di preghiera del 1986. Tanto che tre anni fa riuscì ad attenuare la deriva sincretista dell'ultimo meeting interreligioso di Assisi. Il tradimento della figura storica di Francesco andava corretto. Ed è sconcertante che finora il vescovo di Assisi sapesse delle iniziative dei frati solo dai giornali”.

Fine della capitale mondiale dell'ecumenismo?
“I santuari devono coordinarsi con i vescovi. L'intervento di Ratzinger è inappuntabile. Il Pontefice ha seguito il suo stile, agendo in maniera rispettosa, perché non interferisce con la vita dell'ordine religioso, ma decisa, in modo che serva da avvertimento per tutti. Non sono più ammesse realtà ecclesiali sciolte dalle leggi della Chiesa. É scelta che rientra appieno nella strategia pastorale di Benedetto XVI. Toccherà anche ad altri. Nessuno può essere “Iegibus solutus”.

lunedì 21 novembre 2005

Lettera di Alessandro Santoro, prete delle Piagge in Firenze

Caro Spirito Santo, mi rivolgo a te che sei datore di vita e soffio di speranza per l’umanità intera perché tu possa penetrare nelle stanze del potere ecclesiastico per restituire quell’”alito di vita” e di profonda compassione nel cuore di questo nuovo Papa e del suo entourage perché imparino ad ascoltare la tua voce e non continuino, una volta per tutte, a farsi trascinare nei tatticismi e negli intrighi di palazzo e di potere.

Fa che questo Papa sia a piedi scalzi, semplice e umile, che diventi compagno di strada e di vita di chi fa fatica e si sente escluso e oppresso, come del resto ha fatto Gesù che ha scelto la Galilea delle genti, luogo dell’esclusione e della emarginazione per ridare vita al mondo.

Fa che questo Papa abbia il coraggio di incarnarsi nella storia degli altri, che abdichi alla Verità assoluta che schiaccia e uccide e senta il bisogno di incontrare e nutrirsi delle Verità dell’altro. Dio non ha un nome, prende ed assume il nome dei volti e delle storie degli emarginati di questo mondo e nessuno detiene la verità di Dio e può pretendere di possederla.

Fa che questo Papa scenda nei bassifondi della storia, che abbandoni i palazzi del potere, che non viva più in Vaticano, luogo del potere curiale e torni ad essere il pastore di tutti, uomo tra gli uomini senza più nessuna enfasi trionfalistica. Non abbiamo bisogno di un Papa con strutture forti e apparati pesanti, proprie dei sovrani e dei potenti, ma di un Papa che si spogli di tutto quello che lo separa e lo divide dalle persone, che sappia lasciare tutto ciò che lo rende ricco e possa concedersi l’unica ricchezza possibile per chi si fa servo, quella in umanità.
Siamo stanchi dei troppi orpelli, troppi luccichii, troppi ori che appesantiscono la sua casa, ed è arrivata l’ora che il Papa possa prendere le distanze da questo sfarzo senza senso e che impari a vivere nella povertà senza ostentazioni.

Fa che questo Papa sia capace di Vangelo, testimone e profeta di un Vangelo possibile per tutti, che sappia piangere con chi piange, ridere con chi ride, soffrire con chi soffre. Fa che sia intransigente solo nell’amore e continui a gridare forte contro tutte le guerre del mondo e possa aiutarci, e aiutare i grandi della terra, a considerare la guerra, le guerre e la corsa agli armamenti una assurda follia.
Fa che possa far diventare la guerra un tabù inaccettabile e cancelli l’ipocrisia assurda di chi, anche nella nostra Chiesa ritiene ancora plausibile una guerra giusta.

Fa che questo Papa sia capace di perdono, che non abbia paura a riconoscere la violenza e le violenze della nostra religione, che sappia soffiare nella nostre vite e nelle nostre comunità umane uno spirito di tenerezza, perché per tutti, chiunque sia, ci possa essere un pezzo di pane, una carezza, un abbraccio e una vera liberazione.

Fa che questo Papa non ci riempia di encicliche e di documenti, troppe parole hanno inchiostrato la nostra fede, fa che cresca nell’ascolto di quella parola di Dio che è la vita degli uomini e delle donne. L’unica parola possibile da rendere viva e vera nella nostra storia è quella del Vangelo. Rendi questo Papa carico di utopia, capace di vedere oltre e di darci il coraggio di fare un passo più in là, un Papa meno maestro e più fratello, meno grande e più debole, meno forte e più dolce, meno sicuro e più compagno. Gesù sognava e praticava il sogno di Dio, fatto di una politica di giustizia, di una economia di uguaglianza e di un Dio pienamente libero; fà che negli occhi, nelle mani, nel cuore, nella pancia, nei piedi di questo Papa ci possa essere questo stesso sogno necessario perché questo nostro affaticato mondo riabbia la vita e “l’abbia in abbondanza”.

Fa che questo Papa abbia il coraggio di abbandonare i segni del potere e possa ritrovare e concedersi il potere dei segni, perché la nostra Chiesa possa spogliarsi della porpora e rivestirsi del grembiule, possa abbandonare i conservatorismi comodi al potere e recuperare la libertà piena e viva dei figli di Dio.

Fa che questo Papa ridia spazio e attualità alla rivoluzione del Concilio che voleva che le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini e dei poveri diventassero pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce del Vicario di Cristo e delle comunità cristiane. Le grandi aperture e novità del Concilio sono state tradite e burocratizzate, la tensione verso il nuovo si è persa nei meandri delle chiusure, delle prudenze e meschinità curiali.

Fa che questo Papa possa finalmente ridare spazio ad una collegialità vera, ad una chiesa Popolo di Dio, ad una comunione incarnata, ad una conversione senza mezze misure e compromessi. Dagli la forza ed il coraggio di proporre un nuovo concilio dove la Chiesa ripensi se stessa con il contributo vero e profondo di tutti, proprio di tutti.

Fa che questo Papa si apra all’idea di libertà e di responsabilità, che rinneghi una Chiesa moralista e sessuofoba, che possa dare spazio con pari dignità a tutte le relazioni affettive, a quell’amore plurale fatto anche di omossessuali, transessuali, divorziati, separati; è anche attraverso di loro che l’amore di Dio, così grande e universale ritroverà spazio nelle nostre comunità, troppo spesso abituate soltanto a giudicare e a condannare e non ad accogliere e a celebrare la vita.

Fa che questo Papa sappia riconoscere il valore imprescindibile delle donne, perché senza la loro sensibilità, la loro capacità di “precederci” e di amare con tenerezza, la Chiesa rimarrà sempre sterile ed incapace di futuro.

A Te Spirito Santo l’impegno di portare il respiro di tutti i piccoli e i poveri del mondo e soffiare questa brezza leggera dei perdenti e dei vinti nel cuore del Principe della Chiesa perché possa rinunciare ai titoli e alle lusinghe del Potere e possa farsi degno del Vangelo di libertà e di pace del nostro fratello Gesù di Nazaret. Così lo sentiremo compagno e amico in questa avventura che è la vita.

Alessandro Santoro

martedì 15 novembre 2005

SE LO SCETTICO AFFRONTA LA FEDE

Che cos'è un miracolo? L'infrazione di una legge di natura, l'interruzione della regolarità del suo ciclo. Ma siccome noi non conosciamo la natura fino nei suoi recessi più segreti, la credenza nel miracolo è il sostituto della nostra ignoranza. Così parla David Hume, filosofo empirista inglese, in un suo Trattato sui miracoli, scritto nel 1720 e inserito nella decima sezione dei suoi Saggi filosofici del 1743, dove si riassume il Trattato sulla natura umana (1740), al cui interno il trattato sui miracoli non compariva.

L'inserzione  ha quindi un carattere provocatorio e consapevolmente scandalistico per smobilitare un pezzo forte della credenza umana, sempre disposta a dar credito allo "straordinario" per il piacere istintivo che l'animo umano prova di fronte all'insolito.

Il filosofo illuminista, nella sua argomentazione, utilizza uno dei temi generali della sua filosofia secondo cui la fede, per sua natura, non poggia sulla ragione, perché io non credo in ciò che so. Non credo che due più due faccia quattro perchè lo so. E intorno a ciò che so non c'è bisogno di fede. La fede, infatti, è un assenso della volontà (e non dell'intelletto) su un dato di fatto, ma siccome i dati di fatto sono contingenti e non necessari come la verità di ragione, l'assenso che ad essi si concede è assolutamente gratuito.

Così argomentando, lo scettico Hume, per quelle strane vertigini a cui ci abitua il pensiero, finisce col sostenere a sua insaputa quanto già sostenevano Paolo di Tarso e Tommaso d'Acquino quando dicevano che la fede è promossa non dall'evidenza del contenuto  (ut ad proprium terminum) ma dalla volontà /ex voluntate) perchè, a differenza del sapere, la fede imprigiona l'intelletto conducendolo "in captivitatem", per cui, di fronte alla fede, l'intelletto è inquieto (nondum quietatus), in una condizione di timore e infermità (in infirmitate et timore et remore multo).

Questa affinità di argomentazione con i padri antichi medievali della dottrina cristiana, se poteva sfuggire a Hume, non sfugge al vescovo di Salisbury John Douglas che, in una lunga lettera aperta indirizzata ad Adam Smith dal titolo Criterion dedica una sezione ai miracoli, distinguendo quelli riferiti dal Vangelo a cui bisogna dare la massima credibilità e quelli a cui il popolo di tanto in tanto presta fede. Questo secondo tipo di miracolo, scrive Douglas: “Sono opera della natura, scambiati per prodigi dall’ignoranza, dalla suggestione del popolo e dalla macchinazione perversa di qualche furbo.”

Il riferimento del vescovo di Salisbury è ai miracoli attribuiti post mortem all’Abbè de Paris, santo giansenista in odore di eresia, la cui devozione era osteggiata dalle chiese sia cattolica sia protestante. Ma quel che qui interessa è che, nel confutare la fede popolare nei miracoli, John Douglas utilizza gli stessi argomenti adottati da Hume contro la fede in generale, rivelando una curiosa contaminazione con lo spirito illuminista che vedeva nel progresso delle scienze l’erosione della fede.

E come Hume utilizza, non sappiamo con quanta consapevolezza, argomenti cristiani contro la fede, così Douglas utilizza, lui sì consapevolmente, argomenti scettico-illuministici contro la fede popolare. Dal punto di vista della ragione Hume ha tutte le ragioni, mentre dal punto di vista della fede il vescovo di Salisbury avrebbe potuto risolvere la questione rifacendosi al quel passo del Vangelo dove Cristo, senza esitazione, dice: “Voi credete perché vedete, ma beati saranno coloro che crederanno senza vedere”. Tra fede e ragione, infatti, non c’è concomitanza e tanto meno subordinazione perché, come ci ricorda Hume, la fede affonda le sue radici nella dimensione irrazionale, di cui l’uomo si alimenta quando la ragione non offre sufficienti ancoraggi.

Umberto Galimberti
 

sabato 12 novembre 2005

Malattia planetaria

I gravissimi disordini che stanno sconvolgendo la Francia, la loro ampiezza, il loro carattere epidemico, impongono una riflessione che vada al di là delle facili ricette politiche legate all’immediatezza delle cronache. Io vi vedo i sintomi di una malattia planetaria. Il fatto che si manifestino con tanta virulenza nella civilissima Francia, e che abbiano anzi preso le mosse da quei «cento ettari» su cui più si è pensato nella storia dell'individuo occidentale, non deve farci perdere di vista il quadro complessivo in cui essi si iscrivono.

Se infatti si alza lo sguardo all’orizzonte, si scoprirà che ondate di instabilità si stanno muovendo simultaneamente in molte altre zone del mondo. Le radici del problema, io credo, non sono da ricercare tanto - o soltanto - negli errori commessi dai Paesi sviluppati nella gestione delle politiche migratorie, per meglio dire delle ondate di immigrati che li stanno investendo, quanto piuttosto nella vertiginosa crescita della disuguaglianza globale che si è verificata, e incessantemente è cresciuta, negli ultimi venticinque anni. L’ultima generazione è cresciuta in questa disuguaglianza crescente e i leader dei Paesi ricchi si sono illusi che milioni e miliardi si sarebbero adattati a questa situazione. Ora cominciamo a vedere che la crescita smodata della ricchezza di pochi non è più accettata da masse crescenti di poveri, ovvero di coloro che finiscono di sentirsi poveri (anche se con i metri del passato non lo sarebbero) di fronte all’ostentazione della ricchezza dei ricchi, che viene percepita come un’offesa.
Non è un caso che vengano dati alle fiamme i simboli della civiltà dei consumi e che, nello stesso tempo, la lotta politica e sindacale, che in altri tempi erano la norma, siano state scavalcate dall’esercizio di una violenza che non ha apparentemente obiettivi se non quello della distruzione.

Diamo un’occhiata a come è finito il recente summit pan-latino americano: un clamoroso fallimento dopo la constatazione di contraddizioni insanabili che hanno costretto il presidente degli Stati Uniti, George Bush, ad abbandonare la riunione senza avere ottenuto nulla, accompagnato dal conclamato dissenso dei dirigenti di Brasile, Argentina e Venezuela, cioè dei tre maggiori Paesi del continente latino americano. In questo caso il contrasto tra ricchi e poveri si è manifestato non nella forma di guerriglia urbana, ma in una rottura politica che non ha precedenti nella storia dei rapporti inter-americani.
E stiamo parlando, comunque, sempre del mondo occidentale, dove in apparenza sembrano essere in vigore gli stessi principi. Ma se spingiamo lo sguardo ancora un po’ oltre, non facciamo fatica a vedere un’area dove vivono oltre un miliardo d’individui che si sentono - così per lo meno a loro sembra - relegati ai margini del processo storico, respinti, umiliati, offesi. Sto parlando dei Paesi islamici, ovviamente. Che, per giunta, sono gli eredi di coloro che per 1500 anni esercitarono un’enorme influenza sul corso degli eventi mondiali e sulla cultura di tutte le civiltà vicine, inclusa quella europea.

Ho l’impressione che ciò che sta accadendo in Francia potrebbe ripetersi e moltiplicarsi in tutta Europa. A ben vedere, sebbene io mi auguri che ciò non accada, ve ne sono tutte le condizioni. In primo luogo, evidentemente, questi sono i frutti amari di una grave deficienza delle politiche di accoglimento migratorio che seguirono la fine del sistema coloniale. La Francia, che pure aveva accumulato una vasta esperienza dopo la tragedia della guerra algerina, sembrava aver realizzato un modello d’integrazione adeguato e funzionante. Adesso vediamo che le cose non stavano esattamente così e che la condizione sociale delle masse di immigrati era rimasta molto indietro sia rispetto alle condizioni dei cittadini di prima classe, sia rispetto alle aspettative maturate tra i cittadini di seconda classe. Il problema della giustizia e dell'uguaglianza è infine esploso come una bomba a scoppio ritardato.

Ma, come ho detto all’inizio, questo aspetto del problema è solo una parte e non la maggiore. Il fatto è che il «libero flusso dei capitali», che ha aperto e inaugurato l’era globale, non poteva non produrre alla lunga anche un immenso flusso di uomini e donne. Assai meno «libero», assai più obbligato, tragico, senza freni. E i nuovi arrivati sono diversi dai vecchi: conoscono - perché lo vedono in televisione - tutto ciò che viene reclamizzato come ottenibile, a portata di mano, ma sperimentano di non poterlo ottenere né adesso né mai. In questo assai simili a coloro che, nei Paesi ricchi, erano un tempo cittadini di prima classe e che stanno perdendo la loro cittadinanza tra i ricchi (o la speranza di ottenerla, prima o dopo). Lo prova il fatto che, nei disordini, si trovano implicati migliaia di giovani francesi, quelli di pelle bianca intendo dire.

E vorrei dire qualcosa anche sulla Russia. Io credo che la Russia non sia minacciata da una guerra con il mondo islamico. La Russia è da secoli un mondo di mondi, di popoli e di culture. Eppure i dirigenti politici russi non possono sfuggire, neppure loro, alla lezione dei tempi. Anche da noi si sta verificando una tensione crescente, che si manifesta in forme di disprezzo verso altre nazionalità. Sarebbe un errore sottovalutarle. Anche perché, in Russia come altrove, si troveranno assai rapidamente, quando non si siano già trovati, speculatori irresponsabili che vorranno usare queste tensioni a proprio vantaggio.

Mikhail Gorbaciov, La Stampa, 11 Novembre 2005

domenica 6 novembre 2005

Dr. Sergio e Mr. Cofferati

Il problema non è di stabilire se la legalità è un valore di destra o di sinistra, e nemmeno quello di schierarsi pro o contro Cofferati, ma di vedere che tipo di problemi sollevano le ordinanze del sindaco di Bologna alle nostre coscienze beate, use ad assopirsi nelle visioni del mondo che le ideologie offrono con generosità, impedendoci di vedere come è davvero il mondo, come cambia, e che posizione dobbiamo assumere di fronte ai suoi radicali mutamenti.

Una prima contraddizione in cui tutti ci veniamo a trovare, e che le ordinanze di Cofferati evidenziano, è quella tra "il mondo della vita" e "il mondo della legge". Tutti stiamo dalla parte del mondo della vita perché è bello, perché a regolarlo è l'anarchia del desiderio che conosce solo il principio del piacere, dove basta desiderare per avere. Memoria infantile. Fissazione a un'età da cui, se non ci fossimo evoluti, non saremmo divenuti adulti.

È bello bere tutti insieme la birra in piazza facendo tutto il rumore che ci piace, lasciando le lattine e quant'altro sul selciato. È bello. Non si può negare. Così come non si può negare che è bello e anche facile occupare una casa abusiva semplicemente perché se ne ha bisogno, trascurando in pari tempo chi, come noi, ne ha altrettanto bisogno, ma non ne ha la forza. È bello vivere tutti assieme tra occupanti, tra gente che si sente dalla stessa parte, come i bambini quando fanno banda o gruppo. È bello. Ma non è adulto.

Il mondo della vita ti porta anche gli immigrati in casa. E siccome gli immigrati valgono meno della merce che producono e comunque hanno minor possibilità di circolazione di quanta non ne abbiano i beni da loro prodotti, con loro si può fare ciò che si vuole. Li si può impiegare regolarmente, oppure in nero, li si può cooptare nelle forme del caporalato che li assolda a giornata, oppure per altri mestieri che vanno racket allo spaccio. Il mondo della vita è che questo ed è per vivere che gli immigrati si adattano a questo. Dietro le loro facce che sembrano icone della sofferenza, c'è chi nell'illegalità li usa per fare gli affari suoi, sporchi o puliti che siano.

Il mondo della vita è variopinto e ricco ospita tutte le forme dell'esistenza che riescono a trovare espressione, ma senza regole è possibile la loro convivenza? Non dimentichiamo che la regola è l'unico argine al sopruso, che tale rimane anche quando si presenta sotto le forme del bisogno, della necessità, o addirittura della carità. Anche la mafia, fuori dalla legalità, dà lavoro ai figli della sua terra, viene incontro al bisogno, alla necessità, e se volete anche alla carità.

Oltre alla contraddizione tra il mondo della vita e il mondo della legge, le ordinanze di Cofferati mettono opportunamente in luce la stridente contraddizione, che la nostra assopita coscienza fatica ad avvertire, tra il "mondo delle idee" e le nostre "pratiche di vita". Davvero riusciamo a sopportare tutto quello che le nostre idee predicano? La loro predica la conosciamo: dobbiamo assistere con piacere ai giovani che bevono la birra in piazza fino a tarda ora perché è segno di socializzazione, dobbiamo capire quelli che occupano la case perché gli affitti sono troppo elevati, dobbiamo accogliere gli immigrati, trovar loro un lavoro e una sistemazione, e tollerare che nel frattempo ci lavino i vetri puliti delle nostre automobili per consentir loro di sbarcare il lunario.

Tutto giusto, tutto bello, tutto vero. Ma ce la facciamo? Davvero le nostre forze di sopportazione sono all'altezza delle nostre idee, o abbiamo posto l'asticella delle nostre idee troppo in alto per sentirci nobili, elevati e soprattutto giusti, ma assolutamente inadeguati per quanto riguarda i margini di tolleranza che la nostra vita vissuta ci concede? Certo è bello sentir parlare per strada l'arabo, il cinese, il bengalese, mescolati al bolognese, come si mescolano i colori differenti della pelle e degli occhi che si incrociano. Si ha la sensazione tangibile di essere entrati davvero nella modernità, nella società complessa, nella globalizzazione che non è solo Internet o movimento di capitali, ma incrocio di lingue, mescolanze di odori, facce diverse da quelle patinate della pubblicità.

Ma poi quando ci capita di storcere il naso perché nauseati dall'aroma che proviene dal ristorante cinese sotto casa, quando esitiamo a salire in ascensore con due nigeriani per altro gentili, quando imprechiamo per la scarsa igiene e il degrado delle nostre vie lastricate di lattine di birra e mozziconi di sigarette con espressioni più vicine al razzismo che al semplice disagio, non ci viene il sospetto che le nostre idee siano troppo accoglienti e filantropiche rispetto alla nostra capacità di sopportazione, quasi che il nostro corpo si rifiutasse alla generosità delle nostre idee?

Non abbiamo alle volte concepito idee troppo grandi rispetto alle nostre capacità? E queste idee non ci piombano addosso per sconfiggerci intimamente? Non è meglio che un po' di legalità abbassi l'asticella dove abbiamo collocato le nostre idee filantropiche per renderle compatibili col grado di tolleranza di cui siamo di fatto capaci, ma non oltre?

Le ordinanze di Cofferati hanno dunque messo in evidenza due contraddizioni rimosse dalle nostre coscienze beate e assopite, due limiti che il mondo della legge pone opportunamente al mondo della vita per renderla praticabile, e che le pratiche di vita pongono al mondo delle nostre idee che sono tanto più filantropiche e generose quanto più siamo certi che nessuno ce ne chiede l'attuazione. Ma c'è un terzo elemento che non è una contraddizione, ma un rischio da cui le ordinanze di Cofferati tentano di metterci al riparo: il rischio della "deterritorializzazione" come risvolto negativo della globalizzazione.

Per deterritorializzazione intendo quel processo (accompagnato dalla percezione diffusa che siamo solo all'inizio) che traduce le grandi città in agglomerati di sconosciuti, senza più quel tessuto sociale che creava quel rapporto fiduciario tra gli abitanti del territorio i quali, se anche non si conoscevano, sapevano di sottostare a quella legge non scritta che era l'uso e il costume degli abitanti di quella città. Già da vent'anni i demografi che, al pari dei geologi nessuno ascolta perché gli uni e gli altri parlano di tempi che non sono l'oggi e il domani, avevano annunciato che nel 2030 i quattro quinti dell'umanità si sarebbero raccolti in 30 città. E questo cosa significa? Significa che le città avrebbero perso i loro connotati e sarebbero diventate pure estensioni di uomini, concentrati l'uno a fianco dell'altro, con l'unico vincolo che è il procacciamento del denaro. Non più un denaro prodotto dalle arti e dai mestieri del territorio, ma un denaro da tutto sradicato, che ha nei confini del territorio il suo maggior ostacolo.

Già oggi merci e denaro percorrono le vie del mondo più liberi dell'uomo, e rispetto a loro l'uomo trova il proprio riconoscimento solo come funzionario delle merci e funzionario del denaro. Funzionari legali come tutti quelli che vanno in fabbrica o in ufficio, funzionari illegali come quelli che, ai bordi della città, premono con le loro pratiche di capitalizzazione selvaggia che da sempre sono la prostituzione, l'usura, il commercio della droga e delle armi.

Ma quando il denaro legale o illegale che sia, diventa l'unico vincolo di convivenza di quegli agglomerati di varia umanità che, senza più usi, costumi e tradizioni comuni, solo per pigrizia mentale continuiamo a chiamare "città", allora è prevedibile che il tessuto di convivenza si dissolva e l'azione criminale, se non gesto quotidiano, rischia di diventare gesto frequente.

Forse le ordinanze di Cofferati tentano un'estrema difesa del territorio con la specificità dei suoi usi, costumi e rapporti fiduciari, contro il processo di deterritorializzazione che diventa irreversibile quando il denaro, e solo il denaro, assurge a unico generatore simbolico di comportamenti, mentalità, relazione fra gli uomini. E tutto ciò nel tentativo, non si sa quanto utopico o realistico, di consentire a chi viene dopo di noi di riconoscersi ancora nella specificità di una città, e non nell'anonimato di un amorfo agglomerato umano, dove non solo gli immigrati, ma gli stessi abitanti della città faticheranno a reperire la loro identità e la loro appartenenza.


Umberto Galimberti

Salute!

Quindici milioni di persone muoiono ogni anno a causa di malattie infettive. Il 97% dei decessi avviene nei Paesi in Via di Sviluppo. La maggior parte di queste morti sono morti evitabili.

Polmonite, tubercolosi, malaria, diarrea e HIV/AIDS sono le malattie infettive responsabili della metà dei decessi . L'AIDS è la prima causa di morte nei paesi dell'Africa sub-sahariana.

Secondo l'OMS ( World Health Report 2004 ), queste sono le cifre di mortalità per le principali malattie infettive:
infezioni respiratorie: 4 milioni di morti;
AIDS/HIV: 2,8 milioni;
diarrea: 1,8 milioni;
tubercolosi: 1,6 milioni;
malaria: 1,3 milioni;
malattie infantili prevenibili: 1,1 milioni
meningite: 173.000;
leishmaniosi: 51.000
tripanosomiasi (malattia del sonno): 48.000.

Le morti materne (correlate alla gravidanza o al parto) sono ancora 510.000 all'anno ( World Health Report 2004 ).

Nel Sud del mondo e nei paesi in transizione dell'Est europeo ci sono circa due miliardi di persone che non hanno accesso alle cure adatte.

I Paesi a reddito più basso portano il peso dell'85% del carico globale di malattie, ma ancora incidono solo per l'11% della spesa sanitaria globale (fonte : World Bank Development Indicators 2002-publications.worldbank.org/WDI)


Le malattie infettive sono responsabili di più dei 2/3 dei decessi nella fascia sub-sahariana del continente africano.
A causa della non potabilità dell'acqua che consumano, circa 2 miliardi di individui ogni anno sono colpiti da diverse malattie e conseguentemente ogni anno muoiono più di 2 milioni di donne, di uomini e di bambini (fonte: Documento conclusivo del secondo Forum Mondiale dell'Acqua-2005)


Su 1.233 farmaci immessi sul mercato negli ultimi 25 anni del secolo scorso, solo 13 hanno un'indicazione specifica per le malattie tropicali (fonte : Trouiller et al., Lancet 2002, 359). La situazione resta tragicamente invariata
Malattie considerate scomparse stanno ricomparendo e diffondendo in forme molto pericolose, perché resistenti ai trattamenti standard (farmaco-resistenza): i farmaci conosciuti non sono più completamente efficaci.


Il 90% degli investimenti per la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci è destinato a problemi sanitari che riguardano il 10% della popolazione mondiale ( fonte : “ 10/90 Report on Health Research 2003-2004” – Global Forum for Health Research 2004)
Solo lo 0,2% degli investimenti per la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci riguarda polmonite, diarrea e tubercolosi, che causano il 18% delle morti nel mondo.
I costi stimati per il 2005 per le attività di cura, prevenzione e riduzione del danno sociale da infezione da HIV/AIDS nei Paesi a basse risorse finanziarie ammontano a 11,5 miliardi di dollari ( fonte : “The Macroeconomics of HIV/AIDS”, pag. 211-212, International Monetary Fund, 2004)
I costi stimati per conseguire gli obiettivi internazionali di lotta alla malaria ammontano a 3,2 miliardi di dollari all'anno, di cui il 36% per i farmaci efficaci e il 17% per test diagnostici rapidi ( fonte “World Malaria Report 2005”, section III, Roll Back Malaria-WHO/Unicef, 2005)


da http://www.msf.it/cosafacciamo/accesso/situazione.shtml

domenica 9 ottobre 2005

Vescovi e Fede

Intervista a don Franco Barbero

Mi sembra che la gerarchia cattolica stia entrando in campo in maniera sempre più diretta e pesante, proprio in Italia in modo particolare. Come vede questo interventismo?

Taluni sottolineano giustamente i toni da crociata di Ruini, Ratzinger, Sodano e altri gerarchi. Forse occorre portare la nostra attenzione sulla vastità dell’operazione: dalla scuola alla sanità, dalla cultura ai diritti civili, dalla legge sugli oratori fino alla statalizzazione degli insegnanti di religione, dalla difesa di Fazio fino all’alleanza con gli “atei devoti” non c’è ambito della politica che non registri una diretta iniziativa della Conferenza episcopale italiana. Essa, per giunta, trova spazi enormi nelle televisioni e pronto ascolto nel governo.

Lei, don Barbero, alcuni mesi fa parlava di una chiesa che ormai è prevalentemente una organizzazione politica, solidamente alleata con le culture e i progetti dei governi più reazionari. Conferma?

E chi non lo vede? Non si tratta semplicemente di un’onda conservatrice. Qui ci troviamo a fare i conti con una svolta reazionaria. La Conferenza dei vescovi è governata da un monarca che prende ordini direttamente dal papa. E’ la centralizzazione assoluta che vede i vescovi obbedienti come agnellini e li riduce a semplici comparse, a caporali di giornata.

E, secondo lei, ci sono figure emergenti che formano il “coro vaticano” di cui Ruini e Ratzinger si fidano ciecamente?

Tra tutti si distinguono per assoluta fedeltà ai dicktat vaticani tre vescovi: Fisichella, Caffarra, Bruno Forte. Faranno una carriera folgorante.

Come vede la partita sul terreno politico?

E’ evidente che i movimenti, i partiti e le forze sociali attive si trovano di fronte ad un compito prioritario. Programmare l’uscita dal pantano e progettare una politica “laica” liberandosi di Berlusconi e gettando alle spalle la soggezione al potere ecclesiastico. Certo le difficoltà sono reali anche per la presenza di monsignor Rutelli, un autentico cardinale vaticano imprestato (volevo dire infiltrato) alla politica. Una presenza ingombrante che non conosce che cos’è la laicità dello Stato.

Ma siamo proprio destinati in Italia a vivere nella soggezione al potere religioso cattolico?

E’ la mancanza di lungimiranza e di intelligenza di troppi nostri politici. La Spagna era un paese dove i legami tra Stato e Chiesa cattolica erano fortissimi. Il governo Zapatero ha messo in campo una cultura laica che, coerentemente tradotta in politica, oggi ha ottenuto anche l’appoggio di una parte del mondo cattolico.

Ci sono altre cose che Lei ritiene più gravi in questo periodo all’interno della chiesa?

Mi sto domandando come mai i tanti e celebri preti impegnati nel sociale, tanto legati al pacifismo e al terzomondismo, su questi temi siano così silenziosi. E’ per scontata e non mi turba la “canzone” di Ratzinger e Ruini. Mi turba, invece, il silenzio di chi, su questi temi così impegnativi, che riguardano milioni di persone, non nutre la stessa passione e non sente lo stesso bisogno di parlare chiaro. Per me “lottare contro l’impero” è un impegno che parte dal luogo in cui mi trovo e poi s’allarga all’Africa, all’India, al Centroamerica. Altrimenti debbo continuare a constatare che può diventare più comodo occuparsi del “disagio” dei poveri lontani che degli emarginati e scomunicati vicini. Fuori casa si diventa degli eroi. Mi sembra che prima di tutto bisogna giocare la partita in casa propria, prendendo posizioni che siano leggibili, comprensibili, chiare. Questa è la mia opinione. Non servono i dissensi di corridoio o di sacrestia. Occorre uscire allo scoperto per una cultura e una politica veramente laiche.

E allora?

Allora nutro tanta fiducia nell’azione di chi lotta per dare gambe ai diritti, per sostenerli e “legittimarli”, sia con il dibattito nella società civile, sia con il lavoro parlamentare. E poi tanta fiducia nel lavoro quotidiano contro il pregiudizio, l’intolleranza, la manipolazione delle coscienze. Ogni piccola voce può arricchire il dialogo. Vedo con gioioso stupore che il nostro sito www.viottoli.it è frequentatissimo: non avrei mai creduto che esistessero tante migliaia di persone che hanno il desiderio di cercare, di confrontarsi, di non allinearsi al potere... Questa è speranza vissuta nell’oggi. Se ci mettiamo tutto il nostro cuore e se affidiamo tutto alle mani di Dio, anche una piccola voce serve alla causa della liberazione.

Sul piano della fede, come legge l’attuale panorama?

Contro tanti scoraggiamenti e tante “lamentazioni” io continuo a pensare che l’attuale dirigenza vaticana, proprio per la sua estraneità ad ogni pratica di libertà, offre l’opportunità di creare nuovi spazi di fede fuori, assolutamente fuori, dall’obbedienza “canonica”. Voglio chiarire: non fuori dalla chiesa, ma fuori dal recinto imprigionante gestito dalla gerarchia. Chi vuole stare in questa chiesa “asilo infantile”, caserma, istituzione per chi ha bisogno di obbedire per stare bene, faccia pure. Ma oggi è finalmente possibile leggere la Bibbia, celebrare i sacramenti, sentirsi chiesa senza svendere la libertà interiore, senza allinearsi ai voleri vaticani. E’ davvero fondamentale questa svolta nella nostra concezione dell’esperienza cristiana. Non è l’ora di andarsene: è l’ora di restare, di gettare semi, di alimentare il dibattito, con tanta gioia, tanta fiducia in Dio, negli uomini e nelle donne. Studiando, pregando, sorridendo.

lunedì 3 ottobre 2005

quattro ottobre duemilacinque

Se il tempo è il pulviscolo sperimentabile dell'eternità, i 780 anni che ci separano dalla morte di Francesco d'Assisi non sono un segmento apprezzabile della storia umana.

Gli schiamazzi dei garibaldini e l'oratoria metallica dei rivoluzionari dell'89 sono ancora udibili dietro l'angolo della storia europea.

Poco più in là, è percepibile il plumbeo respiro del contadino dell'Ancien régime e persino il nitrito dei cavalli dei capitani di ventura. Ma è sufficiente raccordare la mano all'orecchio per distinguere, tra le urla religiose dei crociati, il Cantico delle creature del povero cristiano Francesco.

Se è vero che l'umanità ha bisogno di una storia monumentale, perché - come afferma Nietzsche - ciò che un giorno fu capace di dilatare la nozione di uomo e di realizzarla con maggior bellezza, deve esistere in eterno, allora Francesco d'Assisi appartiene alla piccola famiglia di quei giganti che si chiamano l'un l'altro a dialogo, attraverso le desolate distanze delle ère.

Egli, tuttavia, non resta incorruttibile come un satiro di fronte alle civiltà che passano; ma pur camminando scalzo ripropone agli uomini fratelli un discorso sulla totalità dell'essere, senza mai proclamare l'innocenza del divenire.

Francesco, infatti, non divinizza ogni cosa esistente, ma si sforza di portare ogni essere esistente - e primo fra tutti, l'uomo - alla sua perfezione divina.

La storia, perciò, non ha bisogno di lottare contro il tempo per richiamarlo in vita o per schierarlo di nuovo in battaglia. Chi parla dell'essere e lo attesta non ha neanche bisogno, per nobilitare se stesso, di operare per la comunità; né ha bisogno di intermediario alcuno per diventare illustre e memorabile.

Chi parla dell'essere e lo attesta risulta vivo e presente in sé e per sé, né mai conosce la mestizia del tramonto. (a.b.)

mercoledì 21 settembre 2005

Proposta libraria

E se Dio rifiuta la "religione"? Un interrogativo provocatorio, che, in un certo senso, sembrerebbe essere stato posto dallo stesso Gesù di Nazareth alla sua gente, guardando la realtà del Tempio, dei riti, dei divieti. Una religione che adora un Dio irraggiungibile che punisce, scomunica e non tollera. Un religione che però Dio rifiuta. Una domanda intrigante, alla quale i contributi raccolti nel volume cercano una risposta attraverso un confronto tra esponenti ed esperti delle tre religioni monoteistiche (cristianesimo, islam ed ebraismo) e del buddhismo. Un tema che viene qui sviluppato su più piani: biblico, teologico, pastorale e della fenomenologia delle religioni.

http://www.internetbookshop.it/ser/serdsp.asp?shop=1090&c=YUB6T3T4FFYMJ

lunedì 19 settembre 2005

Ovazione accoglie il discorso alle N.U. del presidente venezuelano Chavez

Mentre il discorso del "nostro" primo ministro all'ONU, fatto di solite melense menzogne, ha suscitato un tiepidissimo applauso di rito, ben diversa la sorte toccata al primo ministro venezuelano Chavez, accolto con un vero e proprio boato (quasi i 90 minuti di applausi fantozziani!!).

In breve Chavez ha ricordato che oggi sappiamo che non c'erano armi di distruzione di massa in Iraq, ma nonostante questo il Paese è stato bombardato e occupato contro il parere espresso dall'ONU, organismo diventato oggi completamente inutile e che ha bisogno non di riforme, ma di profondi cambiamenti.

Bisogna uscire dalla dittatura di Washington e la sede non dovrebbe più essere a New York. Sono gli Stati Uniti, con il loro atteggiamento e la guerra preventiva ad aizzare il terrorismo, ricordando inoltre l'episodio di un noto evangelista, sostenitore di Bush, che durante la sua trasmissione televisiva ha invitato i servizi segreti americani ad ucciderlo, chiaro esempio di crimine internazionale.

Aumento del numero delle Nazioni nel consiglio di sicurezza, rafforzamento del ruolo del segretario generale, eliminazione del diritto di veto alle cinque nazioni che lo posseggono... questi le principali modifiche che devono essere fatte, invece del progetto di riforma imposto, che se verrà accettato "siamo tutti perduti, spegniamo la luce, chiudiamo le porte e andiamocene..."

sabato 17 settembre 2005

LA FAMIGLIA È UN'ALTRA COSA

ALLE UNIONI DI FATTO È GIUSTO DARE RICONOSCIMENTO R1CONOSCIMENTO GIURIDICO. PAROLA DI MONS. CHIARINELLI

Solo per citare i casi più recenti, c'è la durissima lettera del vescovo di Pistoia, mons. Simone Scatizzi, al Consiglio comunale della sua città contro le unioni gay (v. Adista n. 57/05), ma anche le parole del vescovo di Isernia, mons. Andrea Gemma, che ha accostato gli omosessuali ai ladri, e le dichiarazioni del card. Ruini che ha sostenuto (v. Adista n. 49/05) che criterio fondamentale della dignità della persona umana è il matrimonio uomo-donna. Il riaccendersi del dibattito intorno ai Pacs, dopo che a luglio 45 parlamentari dell'Unione hanno depositato al Senato un disegno di legge in materia (su cui pare convergere quasi tutto il centro sinistra e parte del centrodestra), ripropone anche all'interno del mondo ecclesiale la questione di una qualche forma di riconoscimento delle unioni tra omosessuali. All'interno della gerarchia cattolica si registrano però reazioni di estrema chiusura e durezza.

Tra esse, proprio quella di mons. Scatizzi, con i luoghi comuni, le sciocchezze e le falsità che la infarciscono, è sembrata a Gianni Geraci, portavoce del Coordinamento Gruppi di Omosessuali Cristiani in Italia, un esempio illuminante delle conseguenze negative a cui porta l'atteggiamento di presuntuosa ignoranza con cui molti vescovi cattolici continuano a trat¬tare l'omosessualità. Negli anni scorsi - racconta Geraci in una nota della fine di luglio - sono state più di una le lettere che abbiamo mandato ai vescovi per chiedere loro di incontrarci e di aprire un canale di comunicazione che li aiutasse a capire cosa è veramente l'omosessualità. Purtroppo - ammette - i segnali di risposta sono stati troppo timidi.

Un passo avanti, rispetto allo scenario tracciato da Geraci, potrebbe essere rappresentato da una lettera alla diocesi scritta alla fine del mese di luglio da mons. Lorenzo Chiarinelli, vescovo di Viterbo e fino al maggio scorso presidente della Commissione CEI per la Dottrina della Fede. Certo, nessuna apertura al matrimonio gay, ma sul riconoscimento giuridico delle unioni di fatto il vescovo di Viterbo, nel suo documento intitolato Quale famiglia, sembra lasciare aperto qualche spiraglio.

Nel testo, Chiarinelli precisa che l'art. 29 della Costituzione e il suo dettame non può essere equivocato, anche se spesso per motivare certe 'aperture' o 'aggiornamenti' vengono avanzate le 'ragioni sociali'; occorre, si dice, venire incontro a ogni tipo di convivenza, per non fare discriminazioni, per rimuovere gli ostacoli di tutti i cittadini. Su questo punto - spiega - bisogna intendersi con chiarezza estrema e distinguere tra persona e famiglia. La persona è soggetto unico, irripetibile, connotato da uguaglianza senza eccezioni, con diritti irrinunciabili, non passibili di alcuna discriminazione. La famiglia, invece, non è una semplice somma di persone; perciò non si può confondere o barattare il doveroso sostegno, senza discriminazioni, dovuto alle persone, a tutte le persone, con il sostegno dovuto alle famiglie. Il fatto che le persone stiano assieme non produce di per sé una realtà qualitativamente nuova quale è la famiglia.

Ciò detto, Chiarinelli afferma però che le 'unioni di fatto', con il loro definirsi 'di fatto', intendono dire alla collettività che non sono una 'qualità nuova'. Cioè che tra lo stare assieme comunque e lo stare assieme con vincolo matrimoniale c'è un salto di qualità, civile e sociale. Poiché le unioni di fatto questo salto, per definizione, non lo compiono, ma si tratta pur sempre di persone che stanno insieme, i cui diritti vanno riconosciuti e garantiti, è dentro questa linea, contenuta nella Costituzione, che vanno collocate e normate le questioni concernenti le cosiddette nuove forme di convivenza, etero o omosessuali. Insomma, oltre ad una chiara condanna di ogni forma di discriminazione, Chiarinelli si spinge a ipotizzare che, purché non si confondano le unioni di fatto, omo ed eterosessuali che siano, con la famiglia, che è 'realtà altra' socialmente rilevante, l'istituzione per esse di una qualche forma di tutela giuridica potrebbe non trovare ostile la Chiesa cattolica.

Curioso il fatto che, mentre l'intervento di Chiarinelli ha trovato ospitalità anche su Avvenire (24/7), sorte ben diversa, qualche anno fa, ebbero le dichiarazioni, il cui contenuto era assai simile a quello del documento di Chiarinelli, rilasciate nel 1999 dalla allora neo presidente dell'Azione Cattolica Paola Bignardi all'Unità (v. Adista nn. 23 e 25/99). La Bignardi, nell'intervista, sosteneva la necessità di far uscire dal limbo giuridico in cui si trovano le tante forme di convivenza di fatto che ormai esistono nel Paese. Affermazioni che le costarono una dura reprimenda da parte di Ruini e l'obbligo di una rapida e secca smentita. Che la Bignardi affidò ad un'altra intervista all'Avvenire il 12 marzo 1999.

sabato 6 agosto 2005

60 anni fa, l'olocausto terroristico di Hiroshima

Il 1945, anno di sollievo per la fine della massima guerra della storia, anno felice per l'inizio, sebbene imperfetto, del diritto planetario di pace (nell'Organizzazione delle Nazioni Unite), resta un anno orribile, segnato dal massimo atto di violenza bellica e scientifica; un atto istantaneo, ma con effetti lunghissimi nel tempo: l'olocausto terroristico di Hiroshima e Nagasaki.

La tesi ufficiale statunitense, riproposta nel 1995, nel cinquantenario, su una serie di francobolli commemorativi, giustificò la strage come risparmio di vite umane (americane) e accelerazione della pace. Vediamo se tale versione verrà di nuovo discussa adeguatamente quest'anno, nel sessantesimo anniversario.

Il libro di Gar Alperovitz, Atomic Diplomacy (prima edizione 1965, seconda edizione nel 1985, tr. it. Einaudi 1966 col titolo Un asso nella manica) documenta come le bombe atomiche non erano militarmente necessarie, perché il Giappone chiedeva la pace, ma furono usate, nonostante i dissensi tra gli scienziati, tra i militari e dentro lo stesso governo Usa, per "uscire dall'affare giapponese prima che i russi vi entrino".

Hiroshima e Nagasaki sarebbero quindi atti di "diplomazia atomica" nei confronti dell'Urss, il primo atto della guerra fredda, a spese di centinaia di migliaia di vite di civili giapponesi, e di avvelenamento di altre vite e della pace negli anni successivi. Un atto col quale il mondo scivolava nella spirale atomica e veniva consegnato ad un nuovo potere della morte.

Dovremmo avere imparato, da allora ad oggi, che la minaccia accresce la minaccia, mentre de-minacciare produce maggior sicurezza per tutti. Quella conclusione atomica della guerra, quella "pace atomica", dà fondamento alla tesi paradossale che la seconda guerra mondiale l'abbia vinta Hitler, dal momento che il suo sterminismo a scopo di dominio fu ereditato e accresciuto, come minaccia e pericolo tuttora incombente, dai vincitori. Lo dicono diversi studiosi. Ascoltiamo qualche altra parola di saggezza sul crimine di guerra impunito dell'agosto 1945.

Gandhi scriveva: "La bomba atomica ha fatto ottenere una vuota vittoria agli eserciti alleati, ma ha significato la distruzione dell'anima del Giappone. É ancora troppo presto per vedere che cosa é avvenuto nell'anima della nazione che ha impiegato la bomba atomica".

Dieci anni fa leggevamo il piccolo libro Hiroshima, non dovevamo, del filosofo John Rawls (autore di Una teoria della giustizia, 1971) insieme ad altri autori statunitensi come lui. A cinquant'anni da quell'agosto atomico, il dibattito su Hiroshima era riesploso negli Usa: ufficialmente si era chiuso sulle posizioni governative, uguali a quelle del 1945, ma fu vivace e approfondito nella cultura, come dimostra questo libro, e persino nelle televisioni. La mostra sull'Enola Gay, per l'insorgere dei veterani e della destra, dovette sostituire il catalogo ampiamente critico, con poche pagine asettiche. Rawls, entro i vecchi limiti dello jus in bello (regole da rispettare nella guerra), proponeva sei principi o postulati che impegnano "una società democratica decente".

Li riassumo: 1) lo scopo di una guerra giusta é una pace giusta e duratura anche coi nemici del momento (osservo che lo stesso chiede Kant, Per la pace perpetua, VI articolo preliminare); 2) una società democratica combatte soltanto contro uno stato non democratico, espansionista, minaccioso; 3) nella guerra contro un tale nemico, una società democratica distingue attentamente tra governanti, soldati, popolazione civile e considera responsabili della guerra soltanto i primi; 4) una società democratica rispetta i diritti umani dei nemici, sia civili che militari, primo perché sono sempre membri della società umana, secondo per insegnare loro con l'esempio, perciò non li attacca mai direttamente salvo che in caso di crisi estrema; 5) i popoli giusti devono prefigurare, durante la guerra, il tipo di pace e di rapporti internazionali a cui mirano (cfr. Kant); 6) la valutazione pratica dell'opportunità di un'azione deve sempre essere severamente limitata dai principi suesposti.

Si può dedurre dall'insieme che non furono veri "uomini di stato" né quelli che imposero alla Germania nel 1919 la pace punitiva di Versailles, culla del nazismo, né quelli che decisero l'uso dell'atomica. Hiroshima - dice Rawls ed é ormai accertato - non configurava il caso di crisi estrema; Truman e Churchill, che non rispettarono quei limiti alla conduzione della guerra, non furono veri "uomini di stato"; Truman é "fallito come uomo di stato" (p. 31); sia Hiroshima che i bombardamenti incendiari sulle città giapponesi o su Dresda furono "gravi torti" e "gravi errori" (p. 29). I governanti non ebbero tempo per riflettere, la guerra impedisce di pensare.

É ciò che il pensiero della pace afferma: la guerra non continua la politica, ma la nega. E nega la democrazia. Dobbiamo infatti dedurre (pur distinguendo fra i loro governanti e la società civile, da cui vennero subito alcune condanne dell'uso dell'atomica: v. p. 46), che gli Stati Uniti non furono "una società democratica decente" in quella circostanza che ha determinato la storia universale successiva.

Il guaio grave é che ancora nel 1995 la tesi ufficiale giustificò accanitamente le bombe di Hiroshima e Nagasaki. Clinton concluse: "Truman ha fatto quel che si doveva fare". Il 76% degli americani (84% oltre i 65 anni) riteneva che gli Usa non dovessero presentare scuse al Giappone. Potevamo dire già allora che il modello statunitense, tanto idolatrato, configura una società che può diventare democratica e giusta, all'esterno come all'interno, perché dove c'é possibilità di dibattito c'é correggibilità, anche se non lo é ancora, purché guarisca dai propri mali spirituali profondi.

Giovanni XXIII, nella Pacem in terris (1963), dedicava al disarmo i nn. 59-63 (nell'edizione ufficiale in italiano):

"Ci é pure doloroso costatare come nelle comunità politiche economicamente più sviluppate si siano creati e si continuano a creare armamenti giganteschi (...). Gli armamenti, come é noto, si sogliono giustificare adducendo il motivo che se una pace oggi é possibile, non può essere che la pace fondata sull'equilibrio delle forze. Quindi se una comunità politica si arma, le altre comunità politiche devono tenere il passo ed armarsi esse pure. E se una comunità politica produce armi atomiche, le altre devono pure produrre armi atomiche di potenza distruttiva pari. In conseguenza gli esseri umani vivono sotto l'incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una travolgenza inimmaginabile. (...)

Giustizia, saggezza ed umanità domandano che venga arrestata la corsa agli armamenti, si riducano simultaneamente e reciprocamente gli armamenti già esistenti; si mettano al bando le armi nucleari; e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci (...)

[É necessario] che al criterio della pace che si regge sull'equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia. Noi riteniamo che si tratti di un obiettivo che può essere conseguito. Giacché esso é reclamato dalla retta ragione, é desideratissimo, ed é della più alta utilità. (...)

I rapporti fra le comunità politiche, come quelli fra i singoli esseri umani, vanno regolati non facendo ricorso alla forza delle armi, ma nella luce della ragione; e cioé nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante".

Tutto la terribile tirannia atomica sulla vita dell'umanità, che, proliferando tra gli stati nuclearisti, non ha fatto altro che accrescersi, é nata dalla strage di Hiroshima e Nagasaki.

É vero che gli Stati Uniti costruirono l'atomica, su consiglio di Einstein, nel timore che arrivasse a costruirla per prima la Germania, ma é altrettanto vero che lo stesso Einstein e i migliori degli scienziati atomici furono contrari all'impiego di quell'arma, quando la Germania era già vinta e il Giappone si piegava, e furono alla testa del movimento antinucleare: quest'anno é anche il cinquantesimo anniversario del grande manifesto Einstein-Russell.

Jean-Marie Muller, nel recentissimo Dictionnaire de la non-violence, alla voce Terrorismo scrive: "La condanna del terrorismo avrà tanta minor forza e coerenza se giustifica altre forme di azione violenta che non sono meno micidiali e possono essere ugualmente criminali. Esiste anche un 'terrorismo di stato’ che non merita alcuna indulgenza, non più dell'altro".

La ricorrenza di quel crimine atomico cade quest'anno in un momento molto minacciato dalla violenza statale e dalla violenza privata, complici e alimento l'una dell'altra. Ma in questi anni l'opposizione popolare alle violenze, o almeno la sempre minore rassegnazione fatalistica del passato al regno della violenza, caratterizzano una linea di fondo del movimento storico.

Il no alla violenza, tuttavia, é nobile ma rimane impotente se i popoli non crescono nella conoscenza e nella pratica della nonviolenza positiva e attiva, che é rifiuto di riprodurre la violenza, ma é soprattutto lotta per la giustizia coi mezzi della giustizia, con la forza della verità umana, dell'unità, del coraggio, dell'amore anche per l'avversario violento, per resistergli e per ricuperarlo alla convivenza umana decente.

Affinché la nonviolenza possa diventare cultura e educazione popolare, perciò politica, occorre che i tanti gruppi e movimenti impegnati per la pace si conoscano e si incontrino assai di più, nell'autonomia di metodi e ispirazioni, fino a rappresentare una federazione nonviolenta attiva di forze nazionali e internazionali, che producano una politica di pace. Lo chiedono a noi, gridando in silenzio dentro i nostri cuori e le nostre menti, tutte le vittime di ogni violenza, prima e dopo il giorno di Hiroshima, fino ad oggi.

sabato 30 luglio 2005

A un anno dalla scomparsa di Tiziano Terzani

28.7.2005

In ricordo di Tiziano. Il suo messaggio di pace è più che mai attuale

di Massimo De Martino*

"Una buona occasione nella vita capita sempre: basta solo saperla riconoscere". Questa è la frase che apre "Un indovino mi disse" di Tiziano Terzani. La mia buona occasione è stata comprare quel libro, rimanerne folgorato e decidere di dedicare a quell'emerito (per me all'epoca) sconosciuto un sito Internet.

Tiziano, prima di iniziare a scrivere libri, era già stato avvocato, venditore di macchine da scrivere, grandissimo reporter dall'oriente. Le chiavi di volta che fecero cambiare il suo modo di scrivere furono la Malattia (che dopo sette anni se l'è portato via esattamente un anno fa) e gli attentati dell'undici settembre. La prima lo aveva portato a compiere un viaggio, durato sette anni, all'interno di se stesso e delle "cure alternative". L'undici settembre (e la delirante lettera della Fallaci che seguì) lo portarono a diventare il "kamikaze della pace".

Tiziano vedeva in quell'orribile atto un punto di svolta, un'opportunità per l'umanità di riprendere in mano le sorti del pianeta e guidarlo verso un futuro di pace perché, come amava ripetere, "la guerra si combatte con l'amore". Per questo passò buona parte del 2002 girando l'Italia nelle piazze, nelle scuole, nelle carceri e nelle università per presentare le sue "Lettere contro la Guerra", libro attualissimo nonostante siano passati ormai tre anni dalla pubblicazione. Tiziano aveva visto gli orrori della guerra in Vietnam, in Cambogia, in tutto l'Oriente. Ora voleva diventare uno strumento di pace.

Il libro divenne un caso perché, sebbene fosse un libro "difficile" per gli argomenti che trattava in quel momento (è molto più facile odiare che amare), fu un bestseller e divenne anche un long-seller. Tiziano lo fece tradurre in inglese, tentando di farlo arrivare negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna, ma gli editori "storici" inglesi e americani rifiutarono il libro: era un momento difficile per far sentire voci fuori dal coro; tutti giravano negli Stati Uniti con le bandierine sui finestrini, tutti si stringevano intorno a Bush. Ogni forma di pensiero alternativa all'ideologia della guerra doveva essere allontanata. Pertanto Tiziano decise di rendere disponibile il suo libro "Letters against the war" sul nostro sito Internet. Tiziano era un sognatore. Come molti grandi personaggi, incompresi nel proprio momento storico, era considerato un utopista.

La newsletter legata al sito aumentava in maniera esponenziale: tutti facevano domande, volevano sapere di più di questo Terzani. Il sito pertanto venne rifatto una prima volta, e poi di nuovo alla fine del 2004. Insieme al sito cresceva il "popolo di Terzani", un gruppo di persone che si riconoscono nei suoi ideali di pace e che dal settembre 2004 si spostano in giro per l'Italia per ritrovarsi insieme a vedere "Anam, il senzanome. L'ultima intervista a Tiziano Terzani", uno splendido documento che è il suo testamento spirituale.

Da allora a oggi sono state effettuate circa 60 proiezioni gratuite di Anam in giro per l'Italia per un totale di oltre 9.000 spettatori. Quasi ovunque le sale erano e sono piene di persone interessate ad approfondire, a capire chi si celasse dietro quel look da santone indiano. Dietro quella barba da Babbo Natale stava un uomo curiosissimo e con tanta voglia di vivere e di divertirsi. Non di certo un guru ma, al contrario, un uomo che con la propria esperienza di vita e di malattia è stato in grado di indicare dove, sulla strada della vita, stanno le buche.

Dopo la morte di Tiziano le iniziative per ricordarlo si sono moltiplicate, come gli iscritti alla newsletter e gli articoli sul forum Internet a lui dedicato che raccoglie oltre ottomila interventi. Alle proiezioni di Anam incontro moltissime "brave persone". E' un termine desueto, lo usavano i nonni, ma inquadra a perfezione il bacino di coloro che hanno voglia di non fermarsi a ciò che si vede in tv, in superficie, all'odio motivato con la religione o con la supponenza di far parte di una "civiltà superiore"; ma che vogliono capire, scoprire, conoscere ciò che un "grande vecchio" può dare e dire loro. A tutti questi spettatori e a me Tiziano manca molto. Ma mettendo in pratica la frase che chiude "Lettere contro la guerra", possiamo ancora credere che un mondo migliore sia possibile, onorando così la sua persona ed il suo impegno per la pace: "Visti dal punto di vista del futuro, questi sono ancora i giorni in cui è possibile fare qualcosa. Facciamolo! A volte ognuno per conto suo, a volte tutti insieme. Questa è una buona occasione. Il cammino è lungo e spesso ancora tutto da inventare. Ma preferiamo quello dell'abbruttimento che ci sta dinanzi? O quello, più breve, della nostra estinzione? Allora: Buon Viaggio! Sia fuori che dentro."

* Massimo De Martino è ideatore e coordinatore del Tiziano Terzani Fan Club e del sito dedicato al grande giornalista e scrittore - da http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?iddos=3334&idc=74&ida=&idt=&idart=3310

mercoledì 13 luglio 2005

Stanno gareggiando in terrore

In risposta alla lettera inviata ai musulmani e alle musulmane d'Italia da 40 esponenti del Comitato "Fermiamo la Guerra", Hamza Piccardo, già segretario nazionale UCOII e Portavoce del European Muslim Network ha diramato questo documento.

Cari amici e care amiche,

Quando è giunta la notizia di quel che era avvenuto a Londra, molti di noi sono andati mentalmente ad un versetto della sura Al Maida che recita: “Gareggiano nel seminare disordine sulla terra, ma Allah non ama i corruttori”.
Ci è parso subito evidente che questo crimine si collocasse con assoluta consequenzialità in un contesto di allargamento di un conflitto voluto e programmato per annientare un antagonista ritenuto troppo ricco rispetto alla sua debolezza politico-militare e quindi facilmente depredabile.
Che nelle more di questo progetto ci fosse la vita di centinaia di migliaia d’innocenti non deve essere sembrato qualcosa che suggerisse un ripensamento, un cambio di strategia.
Stanno gareggiando in terrore, gli aggressori e quelli che vogliono apparire come il braccio armato degli aggrediti, ché i loro governi son complici dell’aggressione o del tutto asserviti, corrotti, inetti.

in fondo la guerra non è altro che una gara a chi semina più disordine e distruzione, più terrore e più morte. E alla fine non vince nessuno di quelli che ne sono stati attori, ma bisogna pur cessarla e ricostruire quello che può essere distrutto un’altra volta e rimpiazzare i caduti, e confortare i superstiti e dire MAI PIU’ ... e poi ricominciare...
Ci siamo tutti in mezzo a questa guerra, noi e voi, e quanto mi pesa questa divisione, che quasi tutti NOI ci sentiamo, di QUESTO paese come VOI.
Sono nostri morti quelli di Madrid, Londra, New York , Beslan, come sappiamo che sentite essere vostri quelli di Falluja, Grozny, della Palestina e dell’Afghanistan.
Ci provammo anni orsono a fermare questo scempio: allora i balconi d’Italia fiorirono dei colori della pace e decine di milioni di persone in Europa e in tutto l’Occidente marciarono per dire NO! alla guerra.
Avvenne in quel contesto qualcosa di grande, per la prima volta una comunità di immigrati che si era tenuta per lo più al margine dei grandi fenomeni politici, si era finalmente sentita parte della maggioranza. Di quella maggioranza ampia ed eterogenea che oggi le vostre firme riproducono, di quegli uomini e donne di buona volontà che dicevano no alla guerra e al terrore, nettamente senza distinguo. Da Giovanni Paolo II ai Disobbedienti, tutti insieme appassionatamente... tutti insieme sconfitti.

Poi il reflusso e l’arretramento del movimento di massa ha lasciato il campo libero agli equilibrismi politici di chi ha paura del marchio d’irriducibilità, che mette fuori dal gioco, che emargina, che esclude dall’alternanza.
Ora, dopo anni di guerra atroce e sporchissima, anni in cui Falluja e Guantanamo sono diventati i nuovi simboli della vergogna dell’Occidente e gli attentati di Madrid e di Londra hanno chiarito definitivamente che il riscatto del mondo islamico non può passare per l’emulazione della ferocia, siamo tutti un po’ meno liberi e un po’ meno sicuri.
Mentre il mostro mai sopito del razzismo e dell’intolleranza religiosa riprende fiato, e ad altissimi livelli si dice che gli attentati di Londra sono un attacco contro la cristianità, dobbiamo prepararci a fronteggiare il peggio e a lavorare per il meglio.
Nonostante la stanca estiva siamo già in una campagna elettorale che qualcuno pensa non potersi permettere di perdere e che altri cominciano a dubitare di poter vincere. Non è certo questo il clima migliore per un rasserenamento politico e un’azione di prevenzione e di repressione del terrorismo in Italia. Quando il referente non è solo legge, ma diventa sempre di più un’opinione pubblica irresponsabilmente aizzata dai media, si lascia ampio spazio a derive neo autoritarie poliziesche e giustizialiste nel corso delle quali perderemo un altro po’ di libertà e difficilmente diventeremo più sicuri.

Nel documento che ho scritto in qualità di portavoce del European Muslim Network (EMN) dicevo che: ... “E’ necessario interrompere una spirale di violenza cieca e sanguinaria con un’azione coesa e coerente di tutti coloro i quali hanno a cuore la pace e il benessere dell’umanità, a Londra come a Baghdad, a Madrid come a Kabul, a Roma come a Gaza, a Mosca come a Grozny.
Gli uomini e le donne di questa Europa che stenta a ritrovare nelle sue istituzioni e nelle sue forze politiche l’espressione della sua grande cultura, della sua grande umanità, devono fare oggi uno sforzo immane e irrinunciabile, devono attivare in tutto il continente azioni di pace e di responsabilizzazione mediante forme di mobilitazione permanente e di strenua vigilanza, affinché fallisca il progetto di chi prospera sull’odio e sulla guerra, affinché venga respinta e ripudiata sul nascere ogni volontà di assurda vendetta, di nuova reiterata aggressione.
Una particolare responsabilità incombe a noi musulmani e musulmane d’Europa (e d’Occidente), quella di sfuggire all’appiattimento, alla paura, all’isolamento. E’ necessario invece assumersi in pieno il ruolo di testimoni della nostra religione portatrice di pace e di giustizia, con coerenza, e con una coesione infracomunitaria che darà la misura del nostro impegno e della nostra sincerità”.

Per quanto ci riguarda questa è la nostra priorità assoluta, consultiamoci e decidiamo insieme forme e momenti di lotta e di testimonianza per la pace e la sicurezza in Europa e nel mondo.

Imperia 13 luglio ’05

Hamza Roberto Piccardo

martedì 5 luglio 2005

IN ATTESA DEL G8 DI LUGLIO IN SCOZIA

Firmatari artisti e attivisti dei diritti umani hanno chiesto ai ministri delle Finanze del G8 “un’azione immediata” contro la povertà del pianeta, con aiuti pubblici, cancellazione del debito e azioni di commercio equo.

Le Nazioni Unite hanno lanciato un appello per raccogliere 4 miliardi di dollari da destinare ad aiuti di emergenza all’Africa: il continente è stato al centro dell’incontro di ieri tra il primo ministro britannico Tony Blair e il presidente degli Usa Gorge W. Bush.

Le cifre

POPOLAZIONI DENUTRITE (in milioni di abitanti)

Regioni 1985-1997 2000-2002
* Asia e Pacifico 509.9 519.3
* Americhe 55.0 53.1
* Medio Oriente e Africa Settentrionale 35,0 39,3
* Africa subsahariana 198,4 204,6
* Paesi Baltici /ex Erss / Europa dell’Est n/d 28,3
Fonti: United Nations Food and Agricultural Organization, World Food Program, Unicev.

SPESE A CONFRONTO

AIUTI - Armamenti
Gli aiuti internazionali ai Paesi poveri ammontano a 25 miliardi di dollari l'anno. Nel 2004 le spese militari nel mondo sono state di mille miliardi di dollari (più 5% sul 2003) secondo l'istituto di ricerca svedese Sipri. . L’Italia è al settimo posto con 27,8 miliardi di dollari.

MALARIA - Missione in Iraq
Nel mondo muoiono ogni anno 2 milioni di persone di malaria, in maggioranza bambini (tremila al giorno soltanto nell'Africa subsahariana). Per contrastarla a livello mondiale servirebbero 3,2 miliardi di dollari all'anno. Meno della cifra che gli Stati Uniti spendono nella missione in Iraq in un giorno solo.

UN TANK - Il regalo di Bush
Il presidente Usa George Bush ha annunciato un aiuto straordinario di 674 milioni di dollari all'Africa (utile a sfamare, 14 milioni di persone in un anno), oltre a 1,4 miliardi di dollari già preventivati. Il costo di un carro armato Abrams è di 4,5 milioni di dollari.

LA FAME - Il piano Marshall
Per ricostruire l'Europa dopo la Seconda guerra mondiale gli Usa offrirono 20 miliardi di dollari (circa 200 miliardi di oggi). Nel 1970 i principali Paesi industrializzati si impegnarono a spendere lo 0,7% del loro prodotto interno lordo in aiuti ai Paesi poveri. Nel 2003 tale contributo fu dello 0,3%.

Meditate gente!

Riflessioni sulla malattia

Ieri sera ho a lungo conversato, grazie a Skype, con un amico che vive in Sicilia il cui padre era stato da pochi giorni trasferito in un centro riabilitativo per patologie neurologiche. Trasferito dopo essere stato ricoverato d'urgenza nel novembre scorso nell'unità di rianimazione ed avervi soggiornato per sette mesi!

Riflessione # 1. Qualcuno riesce a immaginare cosa significhi per un uomo essere completamente paralizzato in un letto per sette mesi? Taglio in gola con tubo per respirare, gommini e fistole per ogni dove, alimentazione con accesso diretto allo stomaco, evacuazione provocata, impossibilitato a parlare, a esprimere emozioni, a dormire. Sette mesi.

Riflessione # 2. La medicina ha fatto passi da gigante, riesce a leggere nella più recondita intimità molecolare, usa farmaci selettivi. Quest'uomo ancora non ha una diagnosi, e ovviamente non ha una prognosi. Medici e scienziati che in tutto il mondo state "procreando", come mai milioni di persone si trovano, ora, in un letto senza che alcuno sappia dire loro come andrà a finire?

Riflessione #3. L'uomo, da quando popola la Terra, ha mostrato di gradire la sua vocazione alla guerra, alla distruzione. Quanti altri millenni dovranno passare prima che le malattie possano essere davvero curate e sia assicurato a tutti il diritto a una esistenza terrena dignitosa?

mercoledì 1 giugno 2005

Procreazione assistita

Sono alcune settimane che, con crescendo rossiniano, giornali, radio, tv, internet, amici e colleghi, insomma tutti sono rapiti dal sacro furore di “esternare” in materia di procreazione assistita et similia. L’occasione dgli imminenti referendum è troppo ghiotta perché le intelligenze non afferrino l’opportunità offerta dalle cronache per brillare di luce propria (o riflessa).

Tutti ci invitano a votare sì, votare no, o non votare, snocciolando ragioni ragionate per avvallare ogni combinazione di comportamento. La cosa, già in sé, è abbastanza fastidiosa poiché quasi ci si sente scortati verso un modus operandi che noi, poverini, da soli non saremmo in grado di individuare.

Si sente parlare di diritti: alla maternità, alla paternità, alla famiglia, … alla ricerca scientifica, al progresso, alla vita! Guarda guarda, il mondo laico che si ricorda dei valori! E allora, facciamolo fino in fondo il ragionamento intelligente, completiamo il sillogismo e allarghiamo un tantino l’orizzonte sempre angusto del nostro vedere e ragionare.

Perché il 20% delle coppie sterili e tanto desiderose di avere una discendenza che - nel subconscio è così - conduca all’immortalità non possono accedere all’adozione, quella vera. e senza lacci e lacciuoli, burocrazie, limiti di età e credenziali assurde.

Ci sono milioni di bambini abbandonati, rifiutati, umiliati, uccisi: i loro diritti non esistono? No, mon esistono; piuttosto che trasformare grandi tragedie individuali (che sono poi la premessa a tragedie sociali future) in occasioni di reale condivisione, solidarietà e amore per il prossimo nostro, noi uomini e donne - credenti e atei non fa differenza - ci intestardiamo sulla “procreazione assistita”. Ucci ucci, avvertiamo un che di freudiano in questo atteggiamento che presuppone un fideismo scientifico (creazionista, appunto) di proporzioni mai così vaste.

"Sangue del mio sangue, carne della mia carne, i miei diritti finalmente salvaguardati". E le miserie del mondo sono rimaste intatte, anzi accresciute per un’infanzia diseredata e tanti affetti negati a chi, adesso, ne ha bisogno come dell’aria per respirare.

Davvero questo mondo è messo male e non si vede chi potrebbe aiutarci ad uscire dall’empasse. Siamo dunque, noi umani, la scheggia impazzita della Natura e stiamo velocemente preparando l’apoptosi del genere umano, la famosa pulsione di cui proprio Freud è stato il teorizzatore?

venerdì 13 maggio 2005

IL MALE DELL’AMERICA

Il mostruoso deficit commerciale Usa e l’aumento della mortalità infantile sono solo alcuni degli indicatori del declino americano. L’Europa sta salendo al vertice delle preoccupazioni americane. Dopo la catastrofe irachena la razionalità spingerebbe a miti consigli, ma nella storia, e nell’uomo, esiste l’irrazionalità e questa spinge verso l’Iran. Un’oligarchia che non ha quasi più nulla di democratico. Intervista a Emmanuel Todd.

Emmanuel Todd, storico e antropologo, è ricercatore presso l’Ined, l’Istituto Nazionale di Studi Demografici di Parigi. Il libro cui si fa riferimento è Dopo l’impero, Marco Tropea Editore, 2003. Nel 2004 in Italia è stato tradotto anche L’illusione economica, la cui pubblicazione in Francia, presso Gallimard, è del 1998.

Nel tuo ultimo libro annunciavi il declino dell’impero americano. A distanza di due anni e all’indomani della rielezione di Bush, è cambiato qualcosa?

Comincerò da ciò che in quella ricognizione si è rivelato vero. Credo intanto che i dati oggettivi si siano dimostrati corretti in termini di predizioni, anzi c’è stata addirittura un’accelerazione, in particolare nello sbilanciamento economico del sistema americano. Il deficit commerciale è diventato, se possibile, ancora più drammatico: oggi si aggira infatti attorno ai 700.000 miliardi di dollari. L’indebolimento degli Stati Uniti poi diventa ancora più preoccupante se si considera la crescita del deficit degli scambi di prodotti ad alta tecologia.

Anche gli economisti conservatori ortodossi sono rimasti molto sorpresi dall’irreversibilità di questo trend: l’indebolimento del dollaro non è stato d’aiuto all’esportazione americana. Insomma, nonostante il dollaro sia al collasso, l’export non è nemmeno in una fase di stagnazione, è addirittura diminuito. Questo segnala una sorta di debolezza strutturale del sistema americano che anche la gente comincia a percepire.

Ecco, se c’è una novità è rappresentata dal fatto che gli stessi americani stanno cominciando a rendersi conto degli aspetti in ombra del mito dell’economia americana. E se pensiamo che il vero mito americano è proprio quello economico, beh, non è una novità da poco. Ciò che oggi impedisce al dollaro di crollare è il comportamento responsabile e coscienzioso delle banche centrali cinesi e giapponesi.

Dicevi che recentemente sono accadute delle cose importanti e significative anche sul piano simbolico…

Uno dei punti di svolta per me è stata la costruzione del nuovo Airbus. Non sono sicuro che sia stata pienamente compresa la portata di questo evento, che cosa questo significhi dal punto di vista americano: il più grande aereo civile al mondo è stato prodotto in Europa, e quindi i boeing scompariranno, il 747 è già diventato obsoleto. Per gli storici futuri questa sarà considerata una data importante perché significa che il centro di gravità economico è tornato nel Vecchio mondo, non solamente in Europa, ma nell’Eurasia.

Se poi proviamo a selezionare, isolare, alcuni indicatori statistici normalmente utilizzati per misurare l’indebolimento di una nazione, e in questo caso l’autodistruzione del sistema economico e sociale americano, c’è un’altra sorpresa: ieri guardando le ultime notizie dell’agenzia Reuters su internet ho scoperto che il tasso di mortalità infantile negli Usa è in crescita .
Questo per me è un indicatore molto importante. Fu infatti la crescita dei tassi di mortalità infantile a farmi predire il collasso dell’Unione Sovietica.

In Dopo l’Impero, avevo già parlato del tasso di mortalità infantile che negli Stati Uniti era relativamente alto (mi sembra fosse al 17° posto, quindi piuttosto in basso nella scala) e segnalavo come l’America non fosse così ricca come sembrava. A quel tempo tuttavia avevo imputato l’aumento all’incremento della mortalità infantile tra i neri americani, infatti considerando l’intera popolazione americana, il tasso era ancora in discesa. Ebbene, ora è globalmente in crescita e questo è molto preoccupante. Ogni settimana abbiamo quindi nuovi segnali dell’indebolimento, del collasso del sistema americano. Questo è un argomento molto poco piacevole. Assistere alla disgregazione di quella che era una società sana e di benessere è triste. Ma come storico del futuro, come prospettivista, devo ammettere che sono sollevato, non mi ero sbagliato…
Nel libro tuttavia traevi delle conclusioni ottimiste, mentre oggi paventi l’aggressione all’Iran…

E’ vero. Non solo, dicevo che non aveva più senso parlare di impero americano. Le stesse imprese belliche le avevo definite azioni di “militarismo teatralizzato”. Un militarismo, cioè, finalizzato a farci dimenticare la crescente debolezza degli Usa e a far rimanere vivo il mito di un’America al centro del mondo…

Del resto, se si guarda al vero potere militare, la Russia è ancora lì, anche la Francia ha la capacità di resistere alla minaccia nucleare, possiede armi di distruzione di massa e questo fa una grossa differenza rispetto agli altri piccoli paesi. Insomma l’ottimismo era fondato su alcune precise considerazioni: ciò a cui stiamo assistendo è solo teatro e ciò che dobbiamo fare, come europei, è semplicemente non seguire gli Usa in Iraq, lasciarli avere la loro punizione. Dopodiché come per magia si sarebbe ristabilito l’equilibrio planetario, con il sistema americano che dopo la caduta sarebbe tornato al suo posto…
Non rinnego tutto questo, ma certo devo riconoscere che si tratta di analisi molto astratte e razionali, in cui l’azione si riduce appunto a effetto lineare della razionalità umana.

La storia dell’umanità invece ci dice che gli uomini non sono solo esseri razionali, ci offre tanti esempi di stati o nazioni che senza avere il consenso necessario per la conquista del mondo, ci hanno comunque provato.

Credo allora che sia indispensabile una maggiore comprensione degli elementi irrazionali delle politiche americane. Questo è un aspetto che, effettivamente, io avevo trascurato. E tengo a precisare che non sono mai stato antiamericano, casomai potrei definirmi un post-americano. Credo che oggi, se vogliamo capire cosa sta succedendo, bisogna concentrarsi sugli aspetti irrazionali, di follia, della società e della politica americana. In questo senso, il comportamento delle élite è uno specchio importante. Ovviamente loro non possono non vedere che il mito del dinamismo economico americano sta svanendo e che c’è uno spostamento verso l’Europa, rispetto alle tecnologie, alla qualità delle cose, ecc.

E’ impossibile che la generazione di Rumsfeld non capisca cosa significa il deficit commerciale o il ritardo tecnologico, non sappia che oggi l’Europa ha treni migliori, aerei migliori, che tutto è migliore. Devono saperlo. E tuttavia, anche se è tutto evidente, è come se ci fosse un meccanismo di negazione della realtà: rifiutano di vedere, non possono crederci. In queste élite americane c’è evidentemente una sorta di livello subconscio che, appunto, rifiuta di vedere. Ma quando si è intrappolati in questi stati mentali che fanno resistenza all’emergere della realtà, qualunque psicanalista di buon senso spiegherà che si sta attraversando un momento molto pericoloso. Quando Bush parla del male in realtà parla di sé e dell’America. Dovrebbe parlarne con uno psicanalista.

Dov’è questo male? La gente è ossessionata dal male, ma il male è dentro, non fuori…

Allora, tornando a noi, essendo innegabile che l’America non è più così potente come in passato, e visto che l’Iraq si è trasformato in una punizione, in una giusta lezione, vien da pensare che razionalmente la conclusione obbligata sarebbe il ritorno degli Usa alle loro politiche precedenti, a più miti consigli, insomma. Se però ci si addentra nel livello non razionale, in quella zona buia della negazione della realtà, ecco, vien da pensare che attaccheranno l’Iran, che si butteranno in un’impresa ancor più avventurosa e pericolosa. Del resto i discorsi su un possibile attacco all’Iran sono sempre più rumorosi. E con questi l’ipotesi che l’America prenda la china, folle, di una crescente aggressività…

La rielezione di Bush, se qualcosa ci ha fatto capire, è che il problema non è Bush, ma l’America e la società americana. Non sono invece sicuro che la gente abbia capito che forse stiamo per assistere, in termini storici, al fatto che un paese straordinario si trasformi in una specie di mostro.

Ho detto “forse”, in realtà non ne sono sicuro, ci sono molte domande, molti punti interrogativi senza risposta e tuttavia…
Sono tradizionalmente uno storico della scuola della “lunga durata”, dei processi lenti, e però posso dirti che entro quest’anno lo sapremo. Io vedo il 2005 come un anno estremamente pericoloso. Stiamo assistendo a un’impetuosa accelerazione del declino economico e tecnologico dell’America. Non è cosa da poco.

In questa visione che ruolo si delinea per l’Europa?

La situazione, in Europa, è di una specie di estraniamento. La mia impressione è che la popolazione in generale capisca abbastanza bene cosa sta accadendo negli Usa. Bush viene universalmente percepito come una figura pericolosa, come una specie di bullo guerrafondaio. L’America ugualmente è avvertita come un paese pericoloso. Insomma direi che le popolazioni nel loro insieme sono piuttosto consapevoli del problema, come pure i governi. Casomai arrivano a conclusioni differenti sul da farsi. (Beh, ecco non sono così sicuro che il governo italiano sia consapevole. Credo si debba ammettere che Berlusconi, grande amico di Bush, di Putin, ecc., sia un po’ difficile da inquadrare come figura).

Ad ogni modo, i governi francese, tedesco e spagnolo oggi sono piuttosto consci del pericolo. Credo tra l’altro che così vadano lette le recenti visite diplomatiche e politiche della Francia a San Pietroburgo, quando il ministro francese della Difesa ha incontrato la sua controparte russa, discutendo faccende non solo diplomatiche, ma “tecniche” rispetto all’Iran. Sono episodi che non vanno sottovalutati, che vanno decodificati. La Gran Bretagna è ancora divisa, ma anche il governo inglese è evidentemente consapevole di cosa sta accadendo. Allora, i governi, le persone in carica, sanno come stanno le cose. La gente sente anch’essa l’entità del pericolo. Quello che sappiamo è che c’è un piano rispetto all’Iran e che i governi francese, tedesco e inglese stanno lavorando per prevenire un’eventuale aggressione americana. Dall’altra parte, è ormai evidente che i governi francese e tedesco hanno smesso di considerare la Russia una minaccia, quanto piuttosto un partner essenziale alla sicurezza europea. E’ questo il significato della frase pronunciata da un diplomatico francese: “Non possiamo permetterci problemi tra Russia e Ucraina perché abbiamo bisogno della Russia”.

Tu sostieni che c’è invece un problema con i media europei…

Il problema nell’Europa occidentale direi che riguarda l’intellighenzia dei media, in particolare della stampa. Diciamo che la stampa e i media occidentali sembrano essere interessati moltissimo ai grandi valori filosofici, la democrazia, la libertà, i diritti umani, ora lo tsunami, eccetera, e per nulla alle vere relazioni di potere. Lo si vede bene da come viene rappresentata la Russia. Per i governi francese e tedesco la Russia è un alleato, un paese di cui abbiamo bisogno e con cui dobbiamo essere pazienti, rispetto al problema Cecenia, rispetto alle imperfezioni della nuova democrazia russa. Sui giornali francesi, invece, non si parla mai della Russia.

Su Le Monde, poi, c’è una specie di russofobia, per cui si troverà tutto su Beslan e la rivoluzione arancione in Ucraina, quasi nulla sulla Russia. E, attenzione, non sto criticando tutto questo. Forse però bisognerebbe tornare a usare le categorie di Max Weber: l’etica della responsabilità e l’etica della convinzione.

Se i governi europei agiscono in base all’etica della responsabilità, ecco che i media si muovono invece in base all’etica della convinzione. E nessuno sembra essere interessato ai veri problemi.

Per cui, come dicevo, quando i media parlano di qualcosa accaduto in Russia, in Ucraina, Georgia, si affidano solo a principi molto generali. Certo, è un atteggiamento molto generoso, vogliono difendere i ceceni, i georgiani, o gli ucraini e, tuttavia, non sembrano rendersi conto che la loro sicurezza, ovvero la nostra sicurezza come Europa Occidentale, è tornata a essere qualcosa da proteggere. Sembrano non rendersi conto che il mondo sta diventando un luogo molto pericoloso. Sembrano infine non rendersi conto che i geopolitici americani odiano l’Europa, che l’Europa viene ormai percepita dagli americani come una minaccia mortale.

Allora, dal mio punto di vista, il mondo sarà più sano e autoconsapevole e meno pericoloso se i giornalisti europei cominceranno ad avere anche una più adeguata percezione del declino americano, se smetteranno di parlare di questo fantomatico dinamismo americano; se si convinceranno che l’Europa sta diventando troppo potente agli occhi degli Usa. Siamo molto vicini al vertice nella loro lista delle priorità.

Il mondo dovrebbe capire che colpire l’Iran non significa solo colpire l’Iran, ma che questo ha di nuovo a che fare col petrolio e che l’Iran è all’interno del nostro perimetro di sicurezza, è all’interno della nostra sfera d’intervento.
Nell’ultima intervista avevi parlato di un mondo sempre più stabile, lo scenario che tracci ora sembra andare in direzione opposta…

Ma il mondo sta diventando un luogo di crescente stabilità. Il problema è appunto l’America. Non c’è contraddizione tra queste affermazioni.

Voglio dire, l’Europa è perfettamente stabile.

Certo, ci sono problemi, ma non minacce alla stabilità interna. La Russia stessa sta diventando più stabile sotto Putin, che non vuol dire che si sta democratizzando, ma certo sta conoscendo un periodo di crescente stabilità. Insomma il paradosso, mi pare, è che il vero pericolo è l’America.

Certo, se il Vecchio mondo e il Sudamerica stanno diventando più stabili ma l’America si sta trasformando in un fattore di disordine, non possiamo considerare il mondo più stabile, perché l’America è piuttosto grande.

Attaccare l’Iran poi sarebbe un’azione decisamente irrazionale, oltre che incontrollabile, perché metterebbe le forze militari americane in Iraq in una situazione terribile. La prima reazione sarebbe una recrudescenza della resistenza irachena che trasformerebbe il tutto nel peggiore degli incubi. La posizione americana poi diventerebbe molto difficile. Non si può infatti escludere che l’Europa potrebbe chiudere le basi americani nel proprio territorio e a quel punto il sistema strategico-militare americano crollerebbe immediatamente. Ma tutto questo appartiene, di nuovo, al discorso razionale.

Cosa ha fatto Hitler quando ha capito di non poter attaccare la Gran Bretagna? Ha invaso la Russia! La guerra è una specie di buco nero: le nazioni, gli stati entrano in guerra per motivi razionali, valori, interessi o altro. Ma quello è solo l’inizio. Una volta che entri, rimani intrappolato, nel senso che, una volta iniziata, la guerra segue le sue proprie leggi e dinamiche, che sono anche quelle dell’essere umano: quando cominci a lottare poi continui, perché tutto questo fa parte del nostro cervello primitivo. E quindi, anche quando viene meno l’obiettivo, o tutte le possibilità sono negative, tu andrai avanti a combattere. Nei processi bellici scatta come una sorta di pedagogia del male: la gente viene istruita ad agire malvagiamente. Non possiamo quindi escludere questa possibilità. C’è un elemento vizioso nell’uomo, che agisce con malvagità e che però seduce… Sì, in effetti sono meno ottimista…

Gli Stati Uniti hanno davvero paura dell’Europa?

Su questo mi piace citare Sasha Guitry, brillante commediografo francese, che scriveva storie di matrimoni e adulteri, insomma commedie leggere, à la parisienne, come dicono: “Le contraire de la vérité est déjà très près de la vérité” (il contrario della verità è già molto vicino alla verità, ndr). Allora, tutti questi intellettuali e geopolitici americani che, senza che sia stato loro chiesto, continuano a ripetere: “L’Europa non è un problema, l’Europa non è un problema, l’Europa non è un problema…”, a me fanno sorridere.

E’ come se nel mezzo di un caffè tra amici in cui si parla del tempo uno si mettesse a ripetere compulsivamente: “A me non piacciono le donne, a me non piacciono le donne…”; ecco noi penseremmo che ne è invece ossessionato. C’è sicuramente un’ossessione nei confronti dell’Europa, che peraltro è comprensibile. Una delle questioni sul tappeto oggi è anche la sostituzione del dollaro con l’euro e questo vuol dire infrangere un vero mito monetario. E fa paura. Lo ripeto: dal punto di vista economico il loro sistema si sta disintegrando. Ogni minuto la loro situazione peggiora: l’euro è sempre più potente, la Russia è più stabile e si sta riarmando e tra due anni la prospettiva è quella di una vera paralisi. E’ normale che le élite intellettuali e l’establishment politico siano terrorizzati e sentano il bisogno di sbarazzarsi della realtà il prima possibile.
E’ in corso un processo di erosione degli stessi fondamenti della democrazia in America?

Non si può nemmeno dire che ci sia un problema con la democrazia negli Stati Uniti. Semplicemente la democrazia è scomparsa e qualcosa di nuovo sta emergendo. E questo è un processo comunque molto affascinante, perché stiamo assistendo alla nascita di un tipo di società assolutamente nuovo. Un sistema democratico e individualista (dimentichiamo per un attimo i neri) si sta trasformando in un sistema caratterizzato da un’enorme disuguaglianza, che alla fine sta producendo la totale distruzione del processo democratico. Intendiamoci: negli Usa non c’è un autoritarismo distruttivo del tipo di quelli che portarono al nazismo o al comunismo, con le masse contadine, eccetera. Abbiamo ancora una società individualistica e in qualche modo la gente è libera, e tuttavia, all’interno di questo sistema antropologico-sociale che ha una sua stabilità, sta emergendo un elemento di dominazione e disuguaglianza che di fatto rende la libertà impossibile.
Si sta delineando un sistema davvero bizzarro in cui la gente continua a parlare di libertà, democrazia, e in cui però le elezioni sono assolutamente vanificate da un incredibile flusso di denaro; dove i liberi cittadini sono di fatto degli pseudo-sudditi.

Trovo che sia comunque un evento appassionante: sta nascendo un nuovo sistema, una nuova forma di potere attraverso un processo degenerativo della democrazia, dopodiché ci sarà un’altra cosa. In qualche modo gli americani si stanno trasformando in una forma di nuova “plebe”.

Altrettanto affascinante è questa capacità della società americana di autocontenersi, perché non si può spiegare un tale livello di vita, come è quello degli americani oggi, quando hai 700 mila miliardi di deficit.

Credo che a questo punto diventi anche più chiaro cosa intendevo quando parlavo del processo di negazione della realtà, dell’incapacità di avere una corretta percezione di ciò che sta accadendo. Parlando con un amico, che si lamentava anch’egli della cecità che c’è in giro, ho proprio ripensato al fatto che ci sono due tipi di caratteri intellettuali: c’è il dottor Pangloss, il personaggio del Candido di Voltaire, che pensa sempre che quello che c’è, la realtà, sia comunque la migliore possibile, “tout est pour le mieux dans le meilleur des mondes possibles”. E poi c’è Cassandra.

A parte le relazioni con gli Stati Uniti, come vedi il futuro dell’Europa, il suo allargamento?

E’ il consueto caos. A mio avviso il problema, comunque, non è la Turchia. Non ho una vera opinione sull’entrata della Turchia nell’Unione Europea, tant’è che la cambio ogni giorno. E tuttavia il mio approccio scettico si fonda su valutazioni opposte rispetto a quelli che si oppongono. Mi spiego: la maggior parte di chi si oppone alla sua entrata fa valere ragioni culturali: la religione cristiana, l’Islam… Per me il fatto che la Turchia sia un paese musulmano e che abbia specifiche tradizioni laiche è senz’altro un aspetto positivo. Se non altro si smetterebbe di parlare dell’Europa come terra cristiana. Ciò che invece mi preoccupa è il significato che questa mossa assumerebbe agli occhi della Russia.

Al contrario degli esponenti della stampa che menzionavo prima, io sono piuttosto ossessionato dall’equlibrio geopolitico. Credo infatti che oggi la priorità sia consolidare relazioni stabili, amichevoli e sicure con la Russia. E da questo punto di vista non sono certo che far entrare un vecchio pilastro della Nato nell’Unione Europea sia una mossa così buona.

Una soluzione sarebbe che la Turchia chiudesse le sue basi americane! Sarebbe divertente: “Bene, possiamo far entrare la Turchia, ma senza le basi americane!”. A parte gli scherzi, credo che questa sia una preoccupazione fondata, le cose stanno accadendo così velocemente e tutto sembra portare al caos. L’Europa a 25 è già in qualche modo una realtà economica, ed è in ogni caso una buona idea, infatti la sua realizzazione spaventa moltissimo l’America. Il problema è che man mano che l’Europa si allarga e diventa più grande, rischia di diventare anche più amorfa e disorganizzata. Per questo la priorità per me oggi resta la creazione di una politica economica centralizzata. Oggi avere una migliore organizzazione e gestione della zona euro comporta innanzitutto strette ed efficienti relazioni non solo tra Francia e Germania, e Spagna, ma anche con l’Italia, che è comunque il terzo centro industriale. Si dovrebbe passar sopra ai recenti disaccordi sull’Iraq. Tutto questo potrebbe avere un effetto propulsivo sulla domanda.

Il fatto è che il miglior modo per spingere la domanda globale è il riarmo. Io non sarei contrario. Come si dice: “Se vuoi la pace, prepara la guerra”. Posso capire che il riarmo possa apparire un’attività ridicola, assurda -il Giappone è ormai una nazione pacifica, anche la Russia, dopo l’alto prezzo pagato, sembra averne avuto abbastanza. Ma a volte semplicemente non si ha scelta.

Non possiamo tenerci un’America con questo terribile mito militare… E noi?

L’Europa oggi è in grado di produrre i migliori aerei, le migliori macchine, i migliori treni, qualsiasi cosa, perché non anche le migliori armi? Lo so che suona assurdo, ma solo così potremo finalmente rimanere in pace.

Tu all’inizio eri molto critico e scettico sul progetto europeo…

E’ vero. Invece Dopo l’Impero dava l’impressione di essere scritto da un europeista entusiasta. Allora, premesso che le mie idee in proposito sono cambiate, devo anche aggiungere che in realtà non c’è niente di me in quel libro, è il mondo descritto da uno storico. C’è anzi un elemento di rassegnazione: ecco, questo è il mondo in cui viviamo. Che non vuol dire che sia anche il mondo che mi piace. Credo che L’illusione economica, scritto dopo le polemiche seguite al Trattato di Maastricht, sia stato il mio ultimo libro militante, per così dire. Non potevo accettare un aumento della ricchezza e della produttività a scapito di valori fondamentali, come la libertà, il benessere dei lavoratori e lo stesso valore dei giovani che, in contraddizione con una delle leggi fondamentali del mercato, pur essendo merce rara oggi valgono meno.

Certo, già ne L’illusione economica c’era un capitolo sugli Usa in cui ero molto scettico sul loro fantomatico dinamismo, anche a partire dai tassi sull’educazione, ma mentre scrivevo L’illusione economica stavo ancora in qualche modo lottando per la democrazia.

Oggi no?

Forse il mio atteggiamento è affine a quello che si dice avesse adottato Toqueville nei confronti della democrazia. Non so se sia andata proprio così, ma è una storia interessante.

Toqueville era un aristocratico, ma un aristocratico intelligente e brillante, per cui a un certo punto fu costretto ad ammettere che l’avanzamento della democrazia era ormai inarrestabile, e quindi l’unica cosa ragionevole da fare era cercare di mantenere, all’interno della cornice democratica, ciò che c’era di buono della tradizione aristocratica. Ecco, il mio approccio oggi è ammettere che non possiamo fare resistenza all’avanzamento dell’oligarchia; cerchiamo allora di mantenere almeno alcuni dei valori positivi della democrazia del passato.

Da questo punto di vista, se si paragonano gli Usa e l’Europa, potremmo descrivere l’Europa come un sistema oligarchico illuminato, che ha mantenuto molto della tradizione democratica. Mentre gli Stati Uniti sono quasi il caso opposto: una folle plutocrazia che non ha mantenuto pressoché nulla della tradizione democratica.

Non abbiamo parlato del mondo musulmano. Tu imputavi la violenza in atto in queste società a un’importante fase di transizione…

Direi che non è cambiato niente. Si diceva che dopo l’invasione dell’Iraq il mondo sarebbe stato più pericoloso. Che ci sarebbe stato un aumento del terrorismo. Non mi sembra.

A me pare che sia l’Iraq a essere più pericoloso e che quello che lì chiamano terrorismo sia piuttosto, almeno in molti casi, resistenza. Insomma mi sembra non ci sia niente di nuovo. Certo, il terrorismo, quello vero, resta un fenomeno problematico, abbiamo bisogno di monitorare meglio queste dinamiche, anche attraverso polizia e servizi di sicurezza più efficienti. Ma se vogliamo parlare del mondo musulmano, beh, direi che se oggi c’è una vittima sono proprio loro: sono i musulmani oggi a essere invasi, sfruttati, torturati! Insomma, è incredibile come ci sia questa rappresentazione del mondo musulmano come una minaccia, quando è oggi l’unica parte del mondo in cui gli eserciti occupano territori, i civili vengono massacrati…
E l’Asia?

Molte persone mi hanno detto che l’Asia era il “punto cieco” delle mie riflessioni, perché non avevo parlato adeguatamente della Cina. Evidentemente la Cina è un gigante e i cinesi stanno diventando un fattore importante. E tuttavia, ai miei occhi, resta ancora una forte asimmetria. Ho già parlato del fatto che il centro di gravità sta tornando in Eurasia, e però in effetti ho parlato dell’Europa, della Russia, ma non della Cina e del Giappone. Del resto, se guardiamo a ciò che accade nel mondo, alle reazioni alla guerra all’Iraq, per esempio, vediamo che le opposizioni sono venute da Europa e Russia mentre Cina e Giappone sono rimasti defilati. Perché? Io penso che la ragione stia nel fatto che Europa e Russia sono pronte per l’indipendenza, sono pronte a emanciparsi dal sistema egemonico americano, mentre il Giappone e la Cina ancora no. La Cina in particolare dipende ancora troppo dall’esportazione negli Usa. Nel caso del Giappone, c’è invece soprattutto un problema di sicurezza: non hanno armi nucleari e l’Asia non è una regione stabile come l’Europa. Questo produce una sorta di senso di insicurezza che fa sì che la gente continui a pensare che l’America sia indispensabile.

In Asia, quindi, gli Stati Uniti hanno effettivamente ancora un ruolo riconosciuto. Questa è anche la ragione per cui le banche centrali di Giappone e Cina continuano a salvare il dollaro americano, che diversamente sarebbe già al collasso. Ma il giorno in cui il Giappone avrà la bomba, e la Cina avrà ultimato il suo sviluppo…

EMMANUEL TODD

tratto da UNA CITTÀ n. 126 / Febbraio 2005