venerdì 20 novembre 2009

Opus Dei segreta



A Sua Santità Benedetto XVI,

[...] ho assistito con il dolore che solo una madre può provare, alla totale trasformazione di mio figlio, entrato come «numerario» nell’Opus Dei. Mi sono ritrovata di fronte a un figlio svuotato degli affetti che prima nutriva per i genitori e i familiari, un giovane al quale sembrava stravolta l’anima e il cuore.

Il direttore spirituale, neppure sacerdote ma laico, messo appositamente al suo fianco dirigeva la sua vita, le sue scelte e pian piano cambiava la sua personalità plasmando un essere umano nuovo, duro e inflessibile, totalmente sconosciuto ai miei occhi. Tutto ciò che lo riguardava era avvolto dal mistero, tutto era tenuto nascosto.

La nostra famiglia ha accusato un duro colpo e stava per disgregarsi a causa dell’Opus Dei. Solo la vera Fede è riuscita a tenerla unita contro un potere oscuro, perché di questo si tratta: l’Opus Dei offusca la mente e gli occhi di giovani buoni provenienti da sane famiglie e quindi facili prede. Sono molte ormai le testimonianze di genitori che si vedono sottratti i figli (soprattutto adolescenti) con un indottrinamento basato sulla manipolazione e sulla cieca obbedienza scevra da critiche.
Sappiamo bene che tutti gli adepti devono far affluire denaro all’Opus Dei. Stipendi «confiscati» insieme a ogni altro bene materiale. Se un membro tenta di uscire per ricostruirsi una nuova vita, inizia un forte accanimento…
(dalla lettera di Franca Rotonnelli De Gironimo, 20 novembre 2007, a oggi senza risposta)

Esiste un mondo dell’Opus Dei che molti ignorano. In questo libro proviamo a raccontarlo. Per quattordici anni sono stata numeraria dell’Opera. Ho svolto incarichi di direzione a Milano, presso il Tandem Club di viale Lombardia, e a Verona, presso la residenza universitaria Clivia di via Severo Tirapelle. La mia prima testimonianza pubblica è stata riportata nel libro Opus Dei segreta del giornalista Ferruccio Pinotti (Bur-Rizzoli 2006). Da quel momento si sono moltiplicati i contatti con chi, ex numerari o famiglie di numerari, mi cercava per saperne di più, per condividere esperienze, denunciare trattamenti subìti, l’isolamento e l’abbandono dopo l’uscita dall’organizzazione, la difficoltà di ricostruirsi una vita.

Insieme con molti ex numerari italiani ci siamo ritrovati, a partire dalla primavera del 2008, in un forum on-line riservato e non accessibile, per cercare di costruire anche in Italia quello che già da qualche anno esiste, non senza difficoltà e ostacoli, in Spagna e negli Stati Uniti, cioè degli spazi critici di analisi su cosa davvero sia l’Opus Dei, gestiti soprattutto da ex membri, persone che parlano perché sanno, hanno visto e vissuto sulla propria pelle l’integralismo e la potenza dell’organizzazione.

Da Bari a Milano, da Palermo a Verona, le testimonianze raccolte rispondono a quanti, dopo l’uscita di Opus Dei segreta, hanno isolato la mia voce come frutto di una vicenda del tutto personale. Un caso umano. E anche alle critiche di chi mi diceva: «Sapevi dove stavi andando, nessuno ti ha obbligata». Mettere insieme più voci può aiutare a raccontare una verità taciuta. Non sapevamo a cosa andavamo incontro. Sapevamo di entrare in un cammino di santità nel mondo, secondo una spiritualità laica. Invece stavamo avviandoci in un percorso dogmatico e ideologico, nel quale non si accettano critiche, che impone una condotta di vita fin dalla giovane età attraverso questi meccanismi di gratificazione: voi siete la «milizia di Dio», gli «eletti», i «prescelti».

Ci sono in gioco le vite di centinaia di giovani. Questo libro vuole aiutare chi oggi non ha il coraggio di denunciare il proprio malessere per riguadagnare la libertà. E vuole riprendere – attraverso una ricostruzione dei documenti «interni», non ufficiali, che rivelano come è organizzata e come funziona davvero l’Opus Dei –, la questione sollevata da una interrogazione parlamentare di più di venti anni fa, ovvero «se il governo non ritenga che… l’Opus Dei dovrebbe qualificarsi come associazione segreta vietata dalla legge». A noi ex numerari la domanda pare attuale. Chiediamo una risposta che non si limiti a considerare le sole fonti ufficiali dell’Opera.

Emanuela Provera, Chiarelettere

giovedì 5 novembre 2009

Difendo quella croce

[...] Gesù Cristo è un fatto storico e una persona reale, morta ammazzata dopo indicibili torture, pur potendosi agevolmente salvare con qualche parola ambigua, accomodante, politichese, paracula. È, da duemila anni, uno “scandalo” sia per chi crede alla resurrezione, sia per chi si ferma al dato storico della crocifissione. L’immagine vivente di libertà e umanità, di sofferenza e speranza, di resistenza inerme all’ingiustizia, ma soprattutto di laicità (“date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”) e gratuità (“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”).

Gratuità: la parola più scandalosa per questi tempi dominati dagli interessi, dove tutto è in vendita e troppi sono all’asta. Gesù Cristo è riconosciuto non solo dai cristiani, ma anche dagli ebrei e dai musulmani, come un grande profeta. Infatti fu proprio l’ideologia più pagana della storia, il nazismo – l’ha ricordato Antonio Socci - a scatenare la guerra ai crocifissi. È significativo che oggi nessun politico né la Chiesa riescano a trovare le parole giuste per raccontarlo.

Eppure basta prendere a prestito il lessico familiare di Natalia Ginzburg, ebrea e atea, che negli anni Ottanta scrisse: “Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente… Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli scolari ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato morto nel martirio come milioni di ebrei nei lager? Nessuno prima di lui aveva mai detto che gli uomini sono tutti uguali e fratelli. A me sembra un bene che i bambini, i ragazzi lo sappiano fin dai banchi di scuola”.

Basterebbe raccontarlo a tanti ignorantissimi genitori, insegnanti, ragazzi: e nessuno – ateo, cristiano, islamico, ebreo, buddista che sia - si sentirebbe minimamente offeso dal crocifisso. Ma, all’uscita della sentenza europea, nessun uomo di Chiesa è riuscito a farlo. Forse la gerarchia è troppo occupata a fare spot per l’8 per mille, a batter cassa per le scuole private e le esenzioni fiscali, a combattere Dan Brown e Halloween, e le manca il tempo per quell’uomo in croce. Anzi, le mancano proprio le parole. Oggi i peggiori nemici del crocifisso sono proprio i chierici. E i clericali.

Marco Travaglio - da Il Fatto Quotidiano n°38 del 5 novembre 2009

venerdì 30 ottobre 2009

Il carteggio tra don Farinella e le Em.ze Bertone e Bagnasco, cardinali

Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, ha chiesto e ottenuto la pubblicazione sul settimanale cattolico genovese “Il Cittadino” della sua risposta a due mie lettere a lui indirizzate (11-09 e 08-10 2009). La lettera è accompagnata da una seconda, scritta dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e, non possiamo dimenticare, anche presidente della CEI. Lo stesso giorno della pubblicazione ho inviato ai due cardinali la mia risposta, chiedendo che venga pubblicata sullo stesso settimanale. Non credo di pensare male, se dico che non la pubblicheranno mai. Lo hanno fatto già altre volte. Per questo motivo rendo la pubblica come risposta pacata, con una premessa previa.

Premessa
Si narra nel vangelo di Luca (23,12) che Erode e Pilato erano nemici e dopo essersi palleggiato Gesù come uno stravagante, divennero amici. Le mie prese pubbliche sulle attività politiche del Segretario di Stato e del Presidente della CEI (sottolineo politiche, non pastorali o dottrinali) hanno avuto come primo effetto quello di avvicinare i due cardinali che, sul caso Boffo/Feltri, sembravano essersi divaricati. E’ evidente che nella Chiesa io lavoro per la comunione e non per dividere.

Il fatto che due cardinali si compattino per rispondere ufficialmente (carta con tanto di stemma del cardinale Bertone), a mio parere sta a significare che ho toccato nervi scoperti che fanno male, tanto male che i due porporati non rispondono minimamente agli interrogativi che io pongo, ma esprimono il loro disappunto perché non sanno cosa rispondere e forse hanno informazioni più dirette di quelle che posso avere io (non ho servizi segreti a mio servizio) della gravità e della profondità del dissenso all’interno della Chiesa che si configura sempre più come uno scisma sommerso e, oggi, non più tanto silenzioso.

Nel 2009 sono usciti, senza scalpore, ma con notevole impatto, due libri, editi ambedue da Il Segno dei Gabrielli, San Pietro in Cariano (VR), che dovrebbero essere un campanello di allarme per la gerarchia di ciò che sta accadendo nel fiume carsico del mondo cattolico: Piero Cappelli Lo scisma silenzioso. Dalla casta clericale alla profezia della fede e J. M. Castillo, La Chiesa e i diritti umani. Chi vive “sulla strada” vede con sgomento lo scollamento sempre più largo tra la gerarchia cattolica e la vita reale dei credenti che ormai vivono una propria vita con una religiosità personalizzata. Su questo specifico punto, mi riservo di essere più puntuale in una lettera riservata al mio vescovo perché possa valutare e riflettere sulla gravità del momento.

Il cardinale Bagnasco parla delle mie prese di posizione come di “atteggiamento che suscita in molti – cristiani e non – non poco stupore e disappunto”. Mi piacerebbe che fosse più esplicito su questo punto, dicendo “chi, perché e quanti” sono i “disappuntati”. Ricevo migliaia di lettere e solo quattro contestazioni, di cui due sulle mie posizioni nei confronti dei militari morti in Afghanistan (la documentazione è a disposizione, non tanto per la quantità, quanto per i contenuti e le motivazioni). Nessuno può accusarmi di essere malato di protagonismo perché ho rifiutato in questi giorni intervisti a tv locali e nazionali, e quelle che appaiono sono improvvisate. In internet circolano solo un paio di mie foto e non da me divulgate. Non cerco consenso e non sono alla testa di alcun movimento. Testimonio solo per me stesso, da me stesso. Quando ho da dire qualcosa lo comunico a circa un migliaio di persone con le quali sono in contatto. Il resto viene da solo.

Mi è parso di leggere nelle due lettere un velato avvertimento, quasi un avviso ad un successivo provvedimento disciplinare nei miei confronti. Poiché sono prete cattolico per vocazione e per scelta libera e non per convenienza, dichiaro pubblicamente che accetterò qualunque provvedimento inerente la dottrina e la morale e la disciplina canonica, gli unici campi su cui i vescovi hanno competenza su di me e che io riconosco. Lo devono fare però nella debita forma, prevista dal Diritto. I cardinali Bertone e Bagnasco si occupano di politica e di politici e intervengono spesso identificandosi con la Chiesa tout-court compiendo un illecito dal punto di vista teologico perché la Chiesa è molto più ampia della gerarchia che è solo una componente di essa. La materia su sui stiamo discutendo appartiene alle cose fallibili e alle vicende di questo mondo, sulle quali l’opinione dei cardinali si pone sullo stesso piano di quella di chiunque altro. Essi infatti non possono invocare il magistero perché nelle lettere a Bertone e/o a Bagnasco non tocco argomenti di dottrina.

Sono prete cattolico e apostolico, non sono romano perché la romanità non è una caratteristica che rientra tra le quattro espresse nel simbolo niceno-costantinopolitano. Mi avvalgo della mia libertà di valutare ciò che accade nel mio tempo e di leggerlo alla luce del vangelo e del magistero definito. Possono piacere o non piacere il contenuto e il tono, ma nessuno può accusarmi di eresia o di altro inerente la fede. La domanda è le cose che dico sono vere o false? Sono parzialmente vere o parzialmente false? In genere si trincera dietro il tono chi non ha argomenti da contrapporre.

Prego Dio che l’annuncio del Vangelo nella sua purezza prenda il sopravvento sulla diplomazia o i doveri istituzionali che possono oscurare, e di fatto oscurano, il ministero sacerdotale che vescovi preti dovremmo sempre perseguire. Resta il fatto che la presenza del cardinale Bertone a quella mostra, senza una parola altra ha suscitato in moltissimi “– cristiani e non – non poco stupore e disappunto”. Anzi: scandalo.


RISPOSTA di d. FARINELLA AL CARDINALE BERTONE E AL CARDINALE BAGNASCO

Genova, 21 ottobre 2009

Sig. Cardinale,

la ringrazio per la sua risposta alla mia lettera aperta dell’8 ottobre 2009 e le rispondo volentieri, sperando anche che “Il Cittadino”, settimanale cattolico della diocesi di Genova, voglia ospitarmi non dico con la stessa evidenza riservata a lei, su sua esplicita richiesta, ma almeno analoga.

Per prima cosa è meglio sgombrare il terreno delle questioni personali che rischiano di confondere e sulle quali lei fa parecchie confusioni. E’ vero che lei mi ha nominato “Amministratore parrocchiale della parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete”, che dal 1995 non è più “parrocchia personale e gentilizia”, come erroneamente lei dice ancora, nonostante le scrissi a suo tempo, documenti alla mano, perché la famiglia proprietaria vi ha rinunciato dinnanzi al notaio, cedendola alla diocesi. Lei però non dice tutta la verità sul “come” si è arrivati a questa nomina e non certo per la sua “benevolenza nei miei confronti durante il mio episcopato genovese”.

Dopo il mio rientro da Gerusalemme, rimasi ospite nella canonica di San Torpete (da oltre venti anni chiusa al pubblico perché inagibile), ma senza alcun incarico pastorale e per due anni andai a mendicare una chiesa dove celebrare la Messa, nel suo più totale disinteresse. Quando la misura mi parve colma, venni da lei che mi propose di nominarmi “parroco” di San Torpete, parrocchia senza parrocchiani e senza territorio, ormai a parziale restauro terminato, dandomi il mandato di farne un centro culturale. La settimana dopo, testimone l’ausiliare mons. Luigi Palletti, lei si rimangiò la nomina per intervenute difficoltà e mi propose di fare il cappellano di una comunità di sei suore ultraottuagenarie in via al capo di Santa Chiara. Accettai e andai a visitare il posto accompagnato dal vescovo ausiliare e dal vicario dei religiosi, padre Cesare Ghilardi. Splendida vista sul mare di Boccadasse, ma non se ne fece nulla perché non c’era nemmeno lo spazio per sistemare la mia grande biblioteca.

Dopo alcuni giorni, venni di nuovo da lei e le dissi che se mi avesse tenuto ancora senza incarichi in diocesi, unico prete disoccupato, non solo non avrebbe avuto diritto di parlare di crisi di vocazioni e di mancanza di preti, ma che non avrebbe potuto celebrare la Santa Messa in buona coscienza. Alzandomi in piedi aggiunsi che da quel momento lei poteva fare il vescovo della diocesi, ma io avrei fatto il papa di me stesso perché lei mi condannava ad essere un prete acefalo. Presi la mia borsa e me ne andai dal suo studio, ma lei mi corse dietro e mi fermò fisicamente, dicendo al vicario che avrebbe risolto le difficoltà intercorse e confermò la mia nomina a parroco di San Torpete. Dopo un mese, arrivò la sua nomina non a parroco, ma ad “Amministratore parrocchiale”, figura giuridica con le funzioni di parroco, senza esserlo formalmente: insomma lei mi nominò precario a vita, come sono tutt’ora. Il cardinale Bagnasco conosce tutta la storia e anche altro.

Lei tiene a dire che “nei nostri colloqui fraterni ho raccolto le tue difficoltà personali cercando di aiutarti” e io faccio fatica a ricordare “colloqui fraterni” perché nella mia mente sono sedimentati solo ricordi di scontri, compreso quello inerente la nomina a bibliotecario della Franzoniana che lei propose, poi disdisse, poi ripropose e infine lasciò cadere senza nemmeno darmi direttamente una spiegazione plausibile, mentre si permise di dire ad un gruppo di preti che “io ce l’avevo con lei”.

Lei dice che ha “cercato di aiutarmi nelle difficoltà”, e ci tengo a questo riguardo a dire che quando le feci presente, testimone il vicario generale, che in parrocchia non vi erano libri liturgici e arredi utilizzabili per la liturgia, lei mi fece avere dal suo segretario, don Stefano Olivastri, mille euro (che io scrissi nel bilancio della parrocchia, prenotando i lezionari e il messale: i bilanci sono depositati in curia e ho l’avvertenza di allegare anche i sottoconti). Ricevetti una parrocchia immersa nei debiti e inutilizzabile e, forse lei non lo ricorda, per oltre un anno è rimasta chiusa al pubblico, nonostante lei l’avesse inaugurata in pompa magna nel 2005.

Per un anno celebrai nella vicina chiesa di San Giorgio, senza che lei si scomponesse nella sua benevolenza episcopale. Il 7 dicembre 2005 lei venne a casa mia e le feci fare il giro di tutta la chiesa e della canonica e lei si mise le mani ai capelli per lo stato di degrado dei locali dove vivevo, dicendo: “e dire che me l’hanno anche fatta inaugurare!”. Mi disse anche di presentarle un progetto che lei poi propose insieme alla Biblioteca Franzoniana e alla Chiese delle Vigne in quel progetto ministeriale di recupero dei fondi “ex colombiane” e che con enorme fatica sto portando a compimento. Cominciai a celebrare in San Torpete il 16 luglio 2006. In seguito, fu il cardinale Bagnasco a darmi qualche suppellettile da altare che gli avevano regalato. Questo per la precisione. Ora veniamo al resto.

Lei ha ragione nel dire che “come sacerdoti possiamo e dobbiamo lavorare con cuore puro, senza odio e senza preconcetti ideologici”. Come non essere d’accordo? A me pare però che lei confonda la forza, forse anche la veemenza, la sofferenza e l’amore alla Chiesa per odio e ideologia. Posso tranquillizzarla con assoluta certezza: non so cosa sia l’ideologia e non conosco l’odio. Chi mi conosce dice che sono più materno che paterno ed è vero perché sono tenerissimo. Mi pare che lei confonda lo stile letterario con i sentimenti. Dico spesso al cardinale Bagnasco che ho sbagliato secolo: avrei dovuto nascere nel sec. II, quello dei polemisti, più consono al mio stile retorico. Da qui a dire che possa provare odio per lei o per Berlusconi ce ne corre; e molto.

Sig. Cardinale, lei nella sua lettera però non risponde ad alcuno dei problemi che io ho posto e lo ammette: “non commento le tue esternazioni, tanto sono marcate da accuse e interpretazioni infondate”. Libero di farlo, ma gli interrogativi restano nella loro pesantezza perché non mi aiuta a capire dove sta l’infondatezza. La domanda è: le cose che ho dette sono vere o sono false? Se sono vere lei mi dovrebbe ringraziare, se sono false, mi dovrebbe spiegare perché sono false. Lei non fa né l’una cosa né l’altra. Non può limitarsi a fare una semplice predica in cui non tanto velatamente mi fa passare per uno “stravagante”. O Dio, accetto tutto, ma non la non verità!

Al contrario nella sua risposta si domanda: “Che cosa ti fa agire in questo modo offensivo verso di me, verso la Chiesa che è in Genova, il suo presbiterio e il suo Pastore?”. Non capisco perché tira in ballo “la Chiesa che è in Genova, il suo presbiterio e il suo Pastore”, che io non nomino nemmeno. Col cardinale Bagnasco ho un rapporto personale, improntato a reciproca schiettezza e forse anche stima e con lui continuerò a rapportarmi in totale verità perché amo la Chiesa, forse più di Dio.

Se lei si è sentito offeso, sono pronto a chiederle scusa, ma se le cose che ho scritto sono vere soltanto per un decimo, allora lei una qualche scusa la deve dare non a Paolo Farinella, prete, che conta nulla, ma al popolo di Dio che lei dice di servire e che è rimasto scandalizzato dalla sua presenza a quella mostra in quelle circostanze e in quelle ore. Il cardinale Bagnasco parla di “dovere istituzionale”, ma il suo e il mio primo dovere non è “istituzionale” verso un potere corrotto e corruttore, ma di testimonianza di quella Verità che esprime il Vangelo. Molti non hanno letto il suo discorso, per altro abbastanza ovvio, ma hanno visto le immagini che le tv hanno trasmesso: lei era accanto ad un presidente del consiglio, che, in quelle stesse ore, la Suprema Corte Costituzionale rimandava davanti al suo giudice naturale dove è accusato di corruzione di testimone e di giudice e di una serie di altri delitti che lei conosce meglio di me. Egli voleva apparire accanto a lei e voleva che tutti vedessero.

La gente che frequenta le nostre parrocchie dice: se il Segretario di Stato del Papa, va a braccetto con Berlusconi nello stesso giorno in cui la sua corruzione è scoperta, vuol dire che lo protegge. Ne venivamo da una estate di fuoco che avrebbe ammazzato anche una mandria di bisonti: la moglie accusa il marito Presidente del Consiglio di frequentare minorenni; lui spergiura sui figli in tv e dà quattro versioni diverse del fatto; non solo non chiede scusa agli Italiani, ma si vanta di essere il loro modello; si paragona a Dio e a Gesù Cristo; paga le prostitute dando in cambio posti di ministre e di deputate; il suo magnaccia è indagato per tratta di prostitute e commercio di stupefacenti; dispensa al telefono suggerimenti erotici per amori saffici e soffici (registrazioni rese pubbliche); attacca il Presidente della Repubblica e frantuma la coesione dell’Italia, modificando con i suoi stili di vita l’antropologia del nostro popolo; incita alla illegalità, all’egoismo economico e alla furbizia di chi la fa franca … e lei si fa vedere a suo fianco sorridente, soddisfatto di approfittare “di tutte le forme istituzionali e pastorali che mi sono offerte”? Non credo che in quella forma istituzionale lei abbia approfittato.

Sig. cardinale, venga a vivere tra la gente comune e a sentire cosa si dice del fatto che il Papa abbia acconsentito a ricevere Berlusconi all’aeroporto dicendo: “Che piacere rivederla!”, mettendo così una pietra tombale sull’etica che si predica e sulla verità che si propaganda. Come faccio io prete a compiere il mio dovere, se un cardinale, sottoposto solo al Papa, dopo avere rifiutato la presenza del Presidente del Consiglio alla perdonanza dell’Aquila, si presenta ora accanto a lui senza alcuna precisazione o un qualche distinguo?

Oramai lo sappiamo, nel mondo berlusconizzato la verità non è più quella ontologica, ma solo quella che appare e che lui fa apparire, visto l’uso diabolico e criminoso che fa della tv. In questo ciarpame, l’unico che ha pagato le spese sull’altare della diplomazia interessata è stato il povero Dino Boffo che avete sacrificato alla ragion di Stato e delle convenienze. Il 7 agosto 2009 in un incontro riservato, avevo preventivato al cardinale Bagnasco quello che sarebbe successo in autunno dopo la nomina di Feltri a Il Giornale e di Belpietro a Libero. Dopo nemmeno tre settimane le mie previsioni si sono verificate tutte, una dopo l’altra come un rosario. La nostra gente è disorientata e, vedendo quelle immagini, si lascia andare: se il cardinale assolve Berlusconi, io mi assolvo da solo/da sola.

Lei dice di avere una “responsabilità di carattere universale, approfittando di tutte le forme istituzionali e pastorali che mi sono offerte”. Lo credo e non la invidio affatto, ma non a qualunque costo, non a qualunque prezzo. Nel suo discorso alla mostra, non ho letto un cenno alla situazione degradata che abbiamo e stiamo ancora vivendo, a motivo dei comportamenti e delle scelte disumane dell’attuale governo (una per tutte: legge sul reato di clandestinità, che grida vendetta al cospetto di Dio, Padre di tutti gli uomini e di tutte le donne, creati a “sua immagine e somiglianza”).

Lei ha parlato da diplomatico, e, a mio parere, non da sacerdote. Prima di fare il discorso e a microfoni aperti, io penso che avrebbe dovuto invitare il Presidente del Consiglio a chiedere scusa per il suo operato, tanto più in contraddizione, in quanto lui si spaccia per cattolico credente. Oppure, avrebbe dovuto dire: “Sig. Presidente del Consiglio, sono qui per inaugurare una mostra, ma non pensi che la mia presenza possa essere una assoluzione preventiva per il suo comportamento deplorevole e scandaloso che esige una riparazione pubblica”. Lei non lo ha fatto, ma si è adeguato diplomaticamente alla bisogna e se non ha messo in imbarazzo il presidente del consiglio, non ha reso, a mio modesto parere, un servizio alla Chiesa.

Ho ricevuto migliaia di lettere, migliaia di e-mail e di telefonate di adesione e non creda che tutto questo mi faccia piacere perché è una sofferenza per me sentirmi dire che “se sono ancora nella Chiesa è perché vi sono preti come lei”. La gente crede di farmi un complimento, invece affonda il coltello nella piaga perché è il segno che le persone dietro al Vangelo corrono a braccia spalancate, ma si fermano davanti agli interessi e ai comportamenti degli uomini di Chiesa che dovrebbero testimoniare la vita eterna, l’amore di Dio e la via del Vangelo. Forse lei e gli altri eminentissimi vivete troppo nel palazzo ovattato di incenso e di onori, e vi sfugge il polso feriale della gente comune che pretende da noi coerenza e verità. Sì, io mi aspetto dai miei vescovi che mi siano di esempio, di esempio trasparente e se vogliono che non mi occupi di politica e di politici, comincino a farlo loro e io li seguirò obbediente e pacifico.

Paolo Farinella, prete cattolico (poco romano)

martedì 30 giugno 2009

È il tempo per parlare

Nota su recenti vicende della politica italiana

Il libro del Qoélet ci insegna che “sotto il cielo” c’è il tempo idoneo per ogni cosa (cfr. 3, 1-8). Qui, in particolare, si vuole mettere in rilievo il richiamo al “tempo per parlare”.

Il giusto equilibrio fra silenzio e parola è parte integrante di una condotta umanamente saggia. Riguarda i rapporti interpersonali e quelli sociali, politici, istituzionali. La parola, elemento distintivo dell’uomo, ha una straordinaria varietà di modulazioni, che ci consentono di esprimere l’intera gamma dei nostri pensieri, sentimenti, emozioni. Tramite la parola si può insegnare, sostenere, incoraggiare, lenire il dolore, trasmettere vicinanza, comunicare tenerezza, ma anche ammonire, correggere, dissentire, riprovare, condannare.

Ecco, quando consideriamo le recenti vicende nelle quali è stato direttamente chiamato in causa il nostro Presidente del Consiglio (sentenza di condanna in primo grado per corruzione dell’avv. Mills, caso delle cosiddette veline, ragazza napoletana, feste in residenze di sua proprietà), ci persuadiamo che è il tempo non del silenzio, ma della parola decisa e inequivoca.

Contro una lettura minimizzante dei fatti citati, riscontriamo piuttosto il manifestarsi di questioni di singolare rilievo culturale, etico e politico, che ci interpellano e che esigono da noi un giudizio non evasivo. Il quadro si fa ancora più preoccupante, se consideriamo gli episodi in questione nel contesto di alcune scelte strategiche dell’attuale maggioranza governativa, a seguito delle quali risulta palese il rischio d’intaccare regole ed equilibri indispensabili per il corretto funzionamento della nostra democrazia. Si pensi, per esempio: alla concezione del partito, strumento cardine di un sistema democratico, come semplice “appendice” della volontà di un “capo” assoluto; alla distorsione dei meccanismi di reclutamento del personale politico; alla negligenza ricorrente circa il rispetto della divisione dei poteri costituzionali; al depotenziamento del principio proprio dello Stato di diritto, secondo il quale la legge è uguale per tutti; al conflitto d’interessi macroscopico nel campo televisivo (emblematiche, in proposito, anche le ultime nomine RAI).

In tempi di debole senso del “bene comune”, ai nostri governanti e amministratori abbiamo imparato (purtroppo!) a non chiedere molto, ma almeno un livello minimo di decenza etica e istituzionale la pretendiamo, a motivo del solenne impegno da essi assunto di onorare la Carta costituzionale e i suoi princìpi-valori d’ispirazione.

Fra i punti qualificanti di un comportamento corretto degli uomini delle istituzioni in regime democratico vi è l’obbligo di dire la verità ai cittadini. In caso contrario, s’incrina il rapporto fiduciario con gli elettori e viene inquinato il tessuto della vita civile.

Riguardo alle suddette vicende riguardanti il Presidente del Consiglio, abbiamo assistito, da parte del medesimo, a un’evidente sequenza di reticenze, contraddizioni, vere e proprie bugie. I tentativi di addomesticare i diversi casi che l’hanno chiamato in causa sono risultati inefficaci, quando non controproducenti. Vale proprio la pena di dire, con l’antico proverbio, che anche questa volta il rammendo è risultato peggiore del buco.

Il capo del governo è vincolato, come, del resto, tutte le altre figure istituzionali, al dovere di dire la verità al Paese. Se contravviene a simile regola elementare, menoma il patto di lealtà con il popolo e, di conseguenza, depotenzia la legittimità, morale innanzitutto, di ricoprire l’alto incarico. A tale proposito, nelle democrazie anglosassoni (almeno per questo aspetto, più mature della nostra) non si guarda in faccia a nessuno. Fosse anche il massimo esponente dello Stato, se mente o dà le dimissioni o va soggetto a impeachment. I casi Nixon e Clinton negli Stati Uniti sono a tutti noti. Da noi invece non succede niente (o quasi). Ma è mai possibile che, al di là degli orientamenti politici di ciascuno, non si colga la gravità in sé dei comportamenti (alcuni dei quali addirittura di rilevanza penale) sopra denunciati? A tanto è giunto il livello di assuefazione degli Italiani?

Il tentativo di rubricare come fatto “privato”, dunque sottratto alla sfera della responsabilità “pubblica”, buona parte delle ultime vicende nelle quali è implicato il Presidente del Consiglio risulta specioso. Non vogliamo certo intaccare la sacrosanta distinzione fra le due sfere, “privata” e “pubblica”, appunto: in un sistema democratico la prima va debitamente tutelata per assicurare la legittima privacy di ogni cittadino, garanzia, fra l’altro, di rispetto della sua libertà e dignità. Ma nel caso in esame la questione si presenta con connotati particolari. Come tutti i cittadini, anche le maggiori cariche istituzionali hanno il sacrosanto diritto alla privacy, però quest’ultima non può mai essere invocata quale paravento rispetto al dovere della responsabilità, della coerenza e della trasparenza nel modo di agire. Non intendiamo fare del moralismo: semplicemente crediamo sia tempo di ribadire ad alta voce l’a b c, cioè la grammatica elementare del comportamento dell’uomo politico in regime di democrazia.

Le vicende in discussione rivelano, da parte del capo del governo, una visione e gestione disinvolte del proprio ruolo pubblico, al quale -conviene ricordarlo- è intrinsecamente connesso un elevato grado di potere. Un Presidente “ricattabile” costituisce un problema serio per l’intero Paese, oltre che causa di discredito istituzionale nei rapporti con l’estero. Di tutto ciò si ha eco anche su prestigiosi organi di stampa internazionali. È difficile pensare che giornali stranieri di prima fila siano asserviti a un disegno “eversivo” predisposto dalla (scombinata) sinistra di casa nostra! Ma tant’è!

Circa l’inderogabile necessità della coerenza fra parole e stile di vita degli uomini politici (e il richiamo ha preso spunto proprio dai comportamenti censurabili del Presidente del Consiglio) sono intervenute, seppur con accenti diversi, importanti testate del giornalismo cattolico (il quotidiano “Avvenire”, il settimanale “Famiglia Cristiana”). Si tratta di un’esigenza autorevolmente riproposta, per i delicati aspetti etici coinvolti, da esponenti dell’episcopato italiano.

Insomma, abbiamo molto da riflettere sugli ultimi casi che hanno visto protagonista il capo del governo. Lo ribadiamo a chiare lettere: non è, come qualcuno vuole far credere, una semplice vicenda di gossip. Sono in gioco, invece, questioni serie, che riguardano il ruolo e le responsabilità istituzionale, politica e (perché no?) anche educativa di una così alta carica dello Stato. Di conseguenza, è in gioco la qualità stessa della democrazia nel nostro Paese. Ecco perché non risulta ammissibile il silenzio: piuttosto è il “tempo per parlare”, di dire ad alta voce che non possiamo e non vogliamo rassegnarci a deprimenti spettacoli da basso impero. Pur nella consapevolezza dei suoi limiti, “Città dell’uomo”, l’associazione fondata da Giuseppe Lazzati e impegnata nel promuovere una cultura politica fedele alla visione cristiana dell’uomo e ai valori della Costituzione, avverte il dovere di levare alta la voce della denuncia.


Il Consiglio Direttivo di “Città dell’uomo”

Milano, giugno 2009 - “Città dell’uomo”. Associazione fondata da Giuseppe Lazzati

giovedì 5 marzo 2009

Appello per una chiesa più solidale e compassionevole

Molti fatti con i quali veniamo a contatto ci dicono che oggi la Chiesa tende progressivamente a isolarsi dal mondo contemporaneo. Molti uomini e donne, specie giovani, avvertono, da parte loro, una radicale estraneità dalla Chiesa. Tra Chiesa e società sembra essersi determinata una drammatica frattura su questioni importanti come la libertà di coscienza, i diritti umani (fuori e dentro la Chiesa), il pluralismo religioso, la laicità della politica e dello Stato. La Chiesa appare ripiegata su se stessa, chiusa e incapace di dialogare con gli uomini e le donne del nostro tempo.

Siamo molto preoccupati per le conseguenze negative che tale perdurante situazione produce per l’annuncio del Vangelo. Per questo, ci sembra saggio riprendere e rilanciare la feconda intuizione di Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura del Concilio Vaticano II: quella di «un balzo in avanti» della chiesa per una testimonianza in grado di rispondere «alle esigenze del nostro tempo».

Il tentativo in atto di contenere lo Spirito del Concilio è, a nostro avviso, un grave errore che, se perseguito fino in fondo, non può che aumentare in modo irreparabile lo steccato tra Chiesa e società, Vangelo e vita, annuncio e testimonianza. A noi sembra che l’insistere su visioni e norme anti-storiche o non biblicamente fondate o, talvolta, anti-cristiane, non aiuti la credibilità ecclesiale nell’annuncio del regno di Dio.

Vanno ripensati, ad esempio, le questioni riguardanti l’esercizio della collegialità episcopale e del primato papale, i criteri nella nomina dei vescovi che salvaguardino il pluralismo, la condizione dei divorziati, dei separati e delle persone omosessuali, l’accesso delle donne ai ministeri ecclesiali, la dignità del morire non terrorizzati.

Vogliamo una Chiesa che non imponga mai a nessuno le proprie convinzioni sui problemi dell’etica e della politica e si fidi solo della forza libera e mite della fede e della grazia di Dio.

Vogliamo una Chiesa che pratichi la compassione e trovi nella pietà la sua gloria. E faccia sue le parole che il santo padre Giovanni XXIII incise sul frontone del Concilio: «Oggi la sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità. Essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi non rinnovando condanne ma mostrando la validità della sua dottrina... La Chiesa vuol mostrarsi madre amorevole di tutti, benigna, paziente, piena di misericordia e di bontà, anche verso i figli da lei separati».

Vogliamo una Chiesa che sappia dialogare con gli uomini e le donne e le loro culture, senza chiusure e condizionamenti ideologici, e impari ad ascoltare e a ricevere con gioia le cose vere e buone di cui gli interlocutori sono portatori. La verità e la bontà sono di Dio, il quale le dà a tutti gli uomini e non solo ai cristiani.

Vogliamo che al centro della Chiesa venga messo il Vangelo e la sua radicalità. Solo così la Chiesa potrà essere vista e sperimentata come “esperta in umanità”. È tempo che, senza paura, nella Chiesa e nella città prendiamo la parola da cristiani adulti e responsabili, pronti a rendere conto della speranza cristiana.

Palermo 25 febbraio 2009


Promotori dell’appello sono alcuni sacerdoti e laici, non solo palermitani. In ordine alfabetico: Giuseppe Barbera (laico), Nino Fasullo (prete), Rosellina Garbo (laica), Rosario Giuè (prete), Tommaso Impellitteri (laico), Teresa Passatello (laica), Teresa Restivo (laica), Franco Romano (parroco), Zina Romeo (laica), Rosanna Rumore (laica), Cosimo Scordato (prete), Francesco Michele Stabile (parroco).

L’appello finora ha raccolto più di 300 adesioni. Tra cui i seguenti preti: Aurelio Antista (prete), Liborio Asciutto (parroco), Gregorio Battaglia (prete), Alberto Neglia (prete), Egidio Palombo (prete); Giovanni Calcara (frate), Gianni Novelli (prete).

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Si può inviare la propria adesione a queste e-mail: chiesacitta@libero.it oppure: rivistasegno@libero.it

sabato 24 gennaio 2009

La rivoluzione di un padre

Beppino Englaro, il papà di Eluana, sta dando forza e senso alle istituzioni italiane e alla possibilità che un cittadino del nostro Paese, nonostante tutto, possa ancora sperare nelle leggi e nella giustizia. Ciò credo debba essere evidente anche per chi non accetta di voler sospendere uno stato vegetativo permanente e ritiene che ogni forma di vita, anche la più inerte, debba essere tutelata.
Mi sono chiesto perché Beppino Englaro, come qualcuno del resto gli aveva suggerito, non avesse ritenuto opportuno risolvere tutto "all'italiana". Molti negli ospedali sussurrano: "Perché farne una battaglia simbolica? La portava in Olanda e tutto si risolveva". Altri ancora consigliavano il solito metodo silenzioso, due carte da cento euro a un'infermiera esperta e tutto si risolveva subito e in silenzio.

Come nel film "Le invasioni barbariche", dove un professore canadese ormai malato terminale e in preda a feroci dolori si raccoglie con amici e familiari in una casa su un lago e grazie al sostegno economico del figlio e a una brava infermiera pratica clandestinamente l'eutanasia.

Mi chiedo perché e con quale spirito accetta tutto questo clamore. Perché non prende esempio da chi silenziosamente emigra alla ricerca della felicità, sempre che le proprie finanze glielo permettano. Alla ricerca di tecniche di fecondazione in Italia proibite o alla ricerca di una fine dignitosa. Con l'amara consapevolezza che oramai non si emigra dall'Italia solo per trovare lavoro, ma anche per nascere e per morire. Nella vicenda Englaro ritornano sotto veste nuova quelle formule lontane e polverose che ci ripetevano all'università durante le lezioni di filosofia.

Il principio kantiano: "Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga universale" si fa carne e sudore. E forse solo in questa circostanza riesci a spiegarti la storia di Socrate e capisci solo ora dopo averla ascoltata migliaia di volte perché ha bevuto la cicuta e non è scappato. Tutto questo ritorna attuale e risulta evidente che quel voler restare, quella via di fuga ignorata, anzi aborrita è molto più di una campagna a favore di una singola morte dignitosa, è una battaglia in difesa della vita di tutti. E per questo Beppino, nonostante il suo dramma privato, ha dovuto subire l'accusa di essere un padre che vuole togliere acqua e cibo alla propria figlia, contro coloro che dileggiano la Suprema Corte e contro chi minaccia sanzioni e ritorsioni per le Regioni che accettino di accogliere la sua causa, nel pieno rispetto di una sentenza della Corte di cassazione.


L'unica risposta che ho trovato a questa domanda, la più plausibile, è che la lotta quotidiana di Beppino Englaro non sia solo per Eluana, sua figlia, ma anche e soprattutto in difesa del Diritto, perché è chiaro che la vita del Diritto è diritto alla vita. Beppino Englaro con la sua battaglia sta aprendo una nuova strada, sta dimostrando che in Italia si può e si deve restare utilizzando gli strumenti che la democrazia mette a disposizione. In Italia non esiste nulla di più rivoluzionario della certezza del Diritto. E mi viene in mente che tutelare la certezza dei diritti, la certezza dei crediti, costituirebbe la stangata definitiva all'economia criminale. Se fosse possibile, nella mia terra, rivolgersi a un tribunale per veder riconosciuto, in un tempo congruo, la fondatezza del proprio diritto, non si avvertirebbe certo il bisogno di ricorrere a soluzioni altre. Beppino questo sta dimostrando al Paese. Non sarebbe necessario ricorrere al potere di dissuasione delle organizzazioni criminali, che al Sud hanno il monopolio, illegale, nel fruttuoso business del recupero crediti.

E a lui il merito di aver insegnato a questo Paese che è ancora possibile rivolgersi alle istituzioni e alla magistratura per vedere affermati i propri diritti in un momento di profonda e tangibile sfiducia. E nonostante tutte le traversie burocratiche, è lì a dimostrare che nel diritto deve esistere la possibilità di trovare una soluzione.

Per una volta in Italia la coscienza e il diritto non emigrano. Per una volta non si va via per ottenere qualcosa, o soltanto per chiederla. Per una volta non si cerca altrove di essere ascoltati, qualsiasi cittadino italiano, comunque la pensi non può non considerare Beppino Englaro un uomo che sta restituendo al nostro Paese quella dignità che spesso noi stessi gli togliamo.

Immagino che Beppino Englaro, guardando la sua Eluana, sappia che il dolore di sua figlia è il dolore di ogni singolo individuo che lotta per l'affermazione dei propri diritti. Se avesse agito in silenzio, trovando scorciatoie a lui sarebbe rimasto forse solo il suo dolore. Rivolgendosi al diritto, combattendo all'interno delle istituzioni e con le istituzioni, chiedendo che la sentenza della Suprema Corte sia rispettata, ha fatto sì, invece, che il dolore per una figlia in coma da 17 anni, smettesse di essere un dolore privato e diventasse anche il mio, il nostro, dolore. Ha fatto riscoprire una delle meraviglie dimenticate del principio democratico, l'empatia. Quando il dolore di uno è il dolore di tutti. E così il diritto di uno diviene il diritto di tutti.


ROBERTO SAVIANO

(Repubblica, 23 gennaio 2009)

domenica 18 gennaio 2009

Lettera di Nelson Mandela al giornalista ebreo Thomas Friedman sull’apartheid in Palestina



Caro Thomas,

So che entrambi desideriamo la pace in Medioriente, ma prima che tu continui a parlare di condizioni necessarie da una prospettiva israeliana, devi sapere quello che io penso. Da dove cominciare? Che ne dici del 1964? Lascia che ti citi le mie parole durante il processo contro di me. Oggi esse sono vere quanto lo erano allora:

"Ho combattuto contro la dominazione dei bianchi ed ho combattuto contro la dominazione dei neri. Ho vissuto con l'ideale di una societa' libera e democratica in cui tutte le sue componenti vivessero in armonia e con uguali opportunita'. E' un ideale che spero di realizzare. Ma, se ce ne fosse bisogno, e' un ideale per cui sono disposto a morire".

Oggi il mondo, quello bianco e quello nero, riconosce che l'apartheid non ha futuro. In Sud Africa esso e' finito grazie all'azione delle nostre masse, determinate a costruire pace e sicurezza. Una tale determinazione non poteva non portare alla stabilizzazione della democrazia.

Probabilmente tu ritieni sia strano parlare di apartheid in relazione alla situazione in Palestina o, piu' specificamente, ai rapporti tra palestinesi ed israeliani. Questo accade perche' tu, erroneamente, ritieni che il problema palestinese sia iniziato nel 1967. Sembra che tu sia stupito del fatto che bisogna ancora risolvere i problemi del 1948, la componente piu' importante dei quali e' il Diritto al Ritorno dei profughi palestinesi.

Il conflitto israelo-palestinese non e' una questione di occupazione militare e Israele non e' un paese che si sia stabilito "normalmente" e che, nel 1967, ha occupato un altro paese. I palestinesi non lottano per uno "stato", ma per la liberta', l'indipendenza e l'uguaglianza, proprio come noi sudafricani.

Qualche anno fa, e specialmente durante il governo Laburista, Israele ha dimostrato di non avere alcuna intenzione di restituire i territori occupati nel 1967; che gli insediamenti sarebbero rimasti, Gerusalemme sarebbe stata sotto l'esclusiva sovranita' israeliana e che i palestinesi non avrebbero mai avuto uno stato indipendente, ma sarebbero stati per sempre sotto il dominio economico israeliano, con controllo israeliano su confini, terra, aria, acqua e mare.

Israele non pensava ad uno "stato", ma alla "separazione". Il valore della separazione e' misurato in termini di abilita', da parte di Israele, di mantenere ebreo lo stato ebreo, senza avere una minoranza palestinese che potrebbe divenire maggioranza nel futuro. Se questo avvenisse, Israele sarebbe costretto a diventare o una democrazia secolare o uno stato bi-nazionale, o a trasformarsi in uno stato di apartheid non solo de facto, ma anche de jure.

Thomas, se vedi i sondaggi fatti in Israele negli ultimi trent'anni, scoprirai chiaramente che un terzo degli israeliani e' preda di un volgare razzismo e si dichiara apertamente razzista. Questo razzismo e' della natura di: "Odio gli arabi" e "Vorrei che gli arabi morissero". Se controlli anche il sistema giudiziario in Israele, vi troverai molte discriminazioni contro i palestinesi. E se consideri i territori occupati nel 1967, scoprirai che vi si trovano gia' due differenti sistemi giudiziari che rappresentano due differenti approcci alla vita umana: uno per le vite palestinesi, l'altro per quelle ebree. Ed inoltre, vi sono due diversi approcci alla proprieta' ed alla terra. La proprieta' palestinese non e' riconosciuta come proprieta' privata perche' puo' essere confiscata. Per quanto riguarda l'occupazione israeliana della West Bank e di Gaza, vi e' un fattore aggiuntivo. Le cosiddette "aree autonome palestinesi" sono bantustans. Sono entita' ristrette entro la struttura di potere del sistema di apartheid israeliano.

Lo stato palestinese non puo' essere il sottoprodotto dello stato ebraico solo perche' Israele mantenga la sua purezza ebraica. La discriminazione razziale israeliana e' la vita quotidiana della maggioranza dei palestinesi. Dal momento che Israele e' uno stato ebraico, gli ebrei godono di diritti speciali di cui non godono i non-ebrei. I palestinesi non hanno posto nello stato ebraico.

L'apartheid e' un crimine contro l'umanita'. Israele ha privato milioni di palestinesi della loro proprieta' e della loro liberta'. Ha perpetuato un sistema di gravi discriminazione razziale e disuguaglianza. Ha sistematicamente incarcerato e torturato migliaia di palestinesi, contro tutte le regole della legge internazionale. In particolare, esso ha sferrato una guerra contro una popolazione civile, in particolare bambini.

La risposta data dal Sud Africa agli abusi dei diritti umani risultante dalla rimozione delle politiche di apartheid, fa luce su come la societa' israeliana debba modificarsi prima di poter parlare di una pace giusta e durevole in Medio oriente.

Thomas, non sto abbandonando la diplomazia. Ma non saro' piu' indulgente con te come lo sono i tuoi sostenitori. Se vuoi la pace e la democrazia, ti sosterro'. Se vuoi l'apartheid formale, non ti sosterro'. Se vuoi supportare la discriminazione razziale e la pulizia etnica, noi ci opporremo a te.

Quando deciderai cosa fare, chiamami. Nelson Mandela

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http://www.krol.it/forum/una-lettera-di-nelson-mandela-t98076.html?s=4bff33b3bf6e4959a738c477e7f51369&

martedì 6 gennaio 2009

LISTIAMO A LUTTO LA STELLA DEI MAGI


UN GESTO, UN' INVOCAZIONE PER LA PACE. LISTIAMO A LUTTO LA STELLA DEI MAGI

Pesanti bombardamenti, un gran numero di vittime, i soldati israeliani non distinguono più tra civili e combattenti, questa è guerra, guerra, guerra; qualcuno provi a fermarli. Quello in corso a Gaza è un massacro, non un bombardamento; è un crimine di guerra e ancora una volta nessuno lo dice". Questo disperato appello del parroco di Gaza è stato raccolto da Pax Christi, che con UN COMUNICATO ha provato a scuotere la pesantissima indifferenza con cui in Italia si sta assistendo al massacro di un'intera popolazione, per metà minori. Un inferno di orrore, morte e distruzione, di lutti, dolore e odio si sta abbattendo in queste ore sulla Striscia di Gaza e sul territorio israeliano adiacente.

Dopo una settimana di bombardamenti e centinaia di morti, i carri armati hanno invaso la Striscia, seminando morte casa per casa, distruggendo in un bagno di sangue luoghi di culto e ospedali, scuole e centrali elettriche. Se vergognosi sono il silenzio consenziente dei Governi e la paralisi delle Nazioni Unite, inaccettabile è il nostro assistere attoniti e rassegnati a questo crimine di guerra, senza condividere almeno un sussulto di indignata protesta.

Attiviamoci subito per compiere UN GESTO simbolico, che stimoli più profonde prese di coscienza e diffonda un ampio rifiuto della logica dell'annientamento e della morte. Nelle nostre case, nelle nostre chiese, lì dove splende il segno della STELLA COMETA, annuncio di luce e speranza per ogni uomo e donna, proponiamo di LISTARE A LUTTO LA STELLA DEI MAGI, perché sia percepibile la nostra vicinanza a tutti coloro che stanno piangendo i loro cari, ed evidente il nostro fermo NO alla distruzione, ai bombardamenti, alle uccisioni di centinaia di persone innocenti.

Proponiamo occasioni di riflessione con UNA PREGHIERA di supplica per la pace che, ispirata alla Solennità dell'Epifania, potrà essere diffusa lungo tutto il mese di Gennaio, tradizionalmente dedicato alla pace. (Annarita)

INFO : www.paxchristi.it

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Cara Annarita,

come ho appena scritto a Pax Christi, sul sito, ritengo lodevole l'intenzione che ispira l'iniziativa di listare a lutto la stella dei Magi. Ma ritengo che non serva a molto. Ben pochi se ne accorgeranno. Meglio sarebbe se si facessero delle veglie pubbliche di preghiera, in modo ben visibile. In questo modo si potrebbe scuotere maggiormente l'indifferenza della gente, plagiata dai mezzi di comunicazione di massa i quali ci hanno abituati alla morte resa spettacolo. Ora i morti per qualsiasi causa non ci fanno più nè caldo nè freddo. Specie se sono lontani e non disturbano la nostra quiete e il nostro benessere,

Purtroppo noi cristiani siamo i primi a tradire il messaggio del Vangelo in quanto non stiamo dando alcuna testimonianza di quell' amore senza limiti che ci ha insegnato Gesù come unico comandamento. Se noi cristiani fossimo veramente cristiani avremmo più peso nelle sorti dell' umanità. Ma siamo solo dei benpensanti, imborghesiti, intontiti dalla televisione.

I nostri governanti, che si dichiarano cristiani, sono fatti della nostra stessa pasta. Ma se manifestassimo seriamente la nostra fede con la nostra vita, anche i governanti sarebbero costretti a tenerne conto.

Un abbraccio,

FB-Franco BORGHI