domenica 6 novembre 2005

Dr. Sergio e Mr. Cofferati

Il problema non è di stabilire se la legalità è un valore di destra o di sinistra, e nemmeno quello di schierarsi pro o contro Cofferati, ma di vedere che tipo di problemi sollevano le ordinanze del sindaco di Bologna alle nostre coscienze beate, use ad assopirsi nelle visioni del mondo che le ideologie offrono con generosità, impedendoci di vedere come è davvero il mondo, come cambia, e che posizione dobbiamo assumere di fronte ai suoi radicali mutamenti.

Una prima contraddizione in cui tutti ci veniamo a trovare, e che le ordinanze di Cofferati evidenziano, è quella tra "il mondo della vita" e "il mondo della legge". Tutti stiamo dalla parte del mondo della vita perché è bello, perché a regolarlo è l'anarchia del desiderio che conosce solo il principio del piacere, dove basta desiderare per avere. Memoria infantile. Fissazione a un'età da cui, se non ci fossimo evoluti, non saremmo divenuti adulti.

È bello bere tutti insieme la birra in piazza facendo tutto il rumore che ci piace, lasciando le lattine e quant'altro sul selciato. È bello. Non si può negare. Così come non si può negare che è bello e anche facile occupare una casa abusiva semplicemente perché se ne ha bisogno, trascurando in pari tempo chi, come noi, ne ha altrettanto bisogno, ma non ne ha la forza. È bello vivere tutti assieme tra occupanti, tra gente che si sente dalla stessa parte, come i bambini quando fanno banda o gruppo. È bello. Ma non è adulto.

Il mondo della vita ti porta anche gli immigrati in casa. E siccome gli immigrati valgono meno della merce che producono e comunque hanno minor possibilità di circolazione di quanta non ne abbiano i beni da loro prodotti, con loro si può fare ciò che si vuole. Li si può impiegare regolarmente, oppure in nero, li si può cooptare nelle forme del caporalato che li assolda a giornata, oppure per altri mestieri che vanno racket allo spaccio. Il mondo della vita è che questo ed è per vivere che gli immigrati si adattano a questo. Dietro le loro facce che sembrano icone della sofferenza, c'è chi nell'illegalità li usa per fare gli affari suoi, sporchi o puliti che siano.

Il mondo della vita è variopinto e ricco ospita tutte le forme dell'esistenza che riescono a trovare espressione, ma senza regole è possibile la loro convivenza? Non dimentichiamo che la regola è l'unico argine al sopruso, che tale rimane anche quando si presenta sotto le forme del bisogno, della necessità, o addirittura della carità. Anche la mafia, fuori dalla legalità, dà lavoro ai figli della sua terra, viene incontro al bisogno, alla necessità, e se volete anche alla carità.

Oltre alla contraddizione tra il mondo della vita e il mondo della legge, le ordinanze di Cofferati mettono opportunamente in luce la stridente contraddizione, che la nostra assopita coscienza fatica ad avvertire, tra il "mondo delle idee" e le nostre "pratiche di vita". Davvero riusciamo a sopportare tutto quello che le nostre idee predicano? La loro predica la conosciamo: dobbiamo assistere con piacere ai giovani che bevono la birra in piazza fino a tarda ora perché è segno di socializzazione, dobbiamo capire quelli che occupano la case perché gli affitti sono troppo elevati, dobbiamo accogliere gli immigrati, trovar loro un lavoro e una sistemazione, e tollerare che nel frattempo ci lavino i vetri puliti delle nostre automobili per consentir loro di sbarcare il lunario.

Tutto giusto, tutto bello, tutto vero. Ma ce la facciamo? Davvero le nostre forze di sopportazione sono all'altezza delle nostre idee, o abbiamo posto l'asticella delle nostre idee troppo in alto per sentirci nobili, elevati e soprattutto giusti, ma assolutamente inadeguati per quanto riguarda i margini di tolleranza che la nostra vita vissuta ci concede? Certo è bello sentir parlare per strada l'arabo, il cinese, il bengalese, mescolati al bolognese, come si mescolano i colori differenti della pelle e degli occhi che si incrociano. Si ha la sensazione tangibile di essere entrati davvero nella modernità, nella società complessa, nella globalizzazione che non è solo Internet o movimento di capitali, ma incrocio di lingue, mescolanze di odori, facce diverse da quelle patinate della pubblicità.

Ma poi quando ci capita di storcere il naso perché nauseati dall'aroma che proviene dal ristorante cinese sotto casa, quando esitiamo a salire in ascensore con due nigeriani per altro gentili, quando imprechiamo per la scarsa igiene e il degrado delle nostre vie lastricate di lattine di birra e mozziconi di sigarette con espressioni più vicine al razzismo che al semplice disagio, non ci viene il sospetto che le nostre idee siano troppo accoglienti e filantropiche rispetto alla nostra capacità di sopportazione, quasi che il nostro corpo si rifiutasse alla generosità delle nostre idee?

Non abbiamo alle volte concepito idee troppo grandi rispetto alle nostre capacità? E queste idee non ci piombano addosso per sconfiggerci intimamente? Non è meglio che un po' di legalità abbassi l'asticella dove abbiamo collocato le nostre idee filantropiche per renderle compatibili col grado di tolleranza di cui siamo di fatto capaci, ma non oltre?

Le ordinanze di Cofferati hanno dunque messo in evidenza due contraddizioni rimosse dalle nostre coscienze beate e assopite, due limiti che il mondo della legge pone opportunamente al mondo della vita per renderla praticabile, e che le pratiche di vita pongono al mondo delle nostre idee che sono tanto più filantropiche e generose quanto più siamo certi che nessuno ce ne chiede l'attuazione. Ma c'è un terzo elemento che non è una contraddizione, ma un rischio da cui le ordinanze di Cofferati tentano di metterci al riparo: il rischio della "deterritorializzazione" come risvolto negativo della globalizzazione.

Per deterritorializzazione intendo quel processo (accompagnato dalla percezione diffusa che siamo solo all'inizio) che traduce le grandi città in agglomerati di sconosciuti, senza più quel tessuto sociale che creava quel rapporto fiduciario tra gli abitanti del territorio i quali, se anche non si conoscevano, sapevano di sottostare a quella legge non scritta che era l'uso e il costume degli abitanti di quella città. Già da vent'anni i demografi che, al pari dei geologi nessuno ascolta perché gli uni e gli altri parlano di tempi che non sono l'oggi e il domani, avevano annunciato che nel 2030 i quattro quinti dell'umanità si sarebbero raccolti in 30 città. E questo cosa significa? Significa che le città avrebbero perso i loro connotati e sarebbero diventate pure estensioni di uomini, concentrati l'uno a fianco dell'altro, con l'unico vincolo che è il procacciamento del denaro. Non più un denaro prodotto dalle arti e dai mestieri del territorio, ma un denaro da tutto sradicato, che ha nei confini del territorio il suo maggior ostacolo.

Già oggi merci e denaro percorrono le vie del mondo più liberi dell'uomo, e rispetto a loro l'uomo trova il proprio riconoscimento solo come funzionario delle merci e funzionario del denaro. Funzionari legali come tutti quelli che vanno in fabbrica o in ufficio, funzionari illegali come quelli che, ai bordi della città, premono con le loro pratiche di capitalizzazione selvaggia che da sempre sono la prostituzione, l'usura, il commercio della droga e delle armi.

Ma quando il denaro legale o illegale che sia, diventa l'unico vincolo di convivenza di quegli agglomerati di varia umanità che, senza più usi, costumi e tradizioni comuni, solo per pigrizia mentale continuiamo a chiamare "città", allora è prevedibile che il tessuto di convivenza si dissolva e l'azione criminale, se non gesto quotidiano, rischia di diventare gesto frequente.

Forse le ordinanze di Cofferati tentano un'estrema difesa del territorio con la specificità dei suoi usi, costumi e rapporti fiduciari, contro il processo di deterritorializzazione che diventa irreversibile quando il denaro, e solo il denaro, assurge a unico generatore simbolico di comportamenti, mentalità, relazione fra gli uomini. E tutto ciò nel tentativo, non si sa quanto utopico o realistico, di consentire a chi viene dopo di noi di riconoscersi ancora nella specificità di una città, e non nell'anonimato di un amorfo agglomerato umano, dove non solo gli immigrati, ma gli stessi abitanti della città faticheranno a reperire la loro identità e la loro appartenenza.


Umberto Galimberti

4 commenti:

Anonimo ha detto...
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Anonimo ha detto...

Davvero riusciamo a sopportare tutto quello che le nostre idee predicano?
a loro predica la conosciamo: dobbiamo assistere con piacere ai giovani che bevono la birra in piazza fino a tarda ora perché è segno di socializzazione, dobbiamo capire quelli che occupano la case perché gli affitti sono troppo elevati, dobbiamo accogliere gli immigrati, trovar loro un lavoro e una sistemazione, e tollerare che nel frattempo ci lavino i vetri puliti delle nostre automobili per consentir loro di sbarcare il lunario. Tutto giusto, tutto bello, tutto vero. Ma ce la facciamo? ...



Se riusciamo ad assumere “badanti” rumene per quattro soldi, a percepire affitti di migliaia di euro, e ad arricchirci in maniera esponenziale sulla crescente povertà degli altri, potremmo farcela.

È che la povertà fa sempre un po’ schifo vista da vicino. Scusa la franchezza. Da vicino ci piace l’ordine e la pulizia.

Sono benvenute le badanti rumene, che con cinque o seicento euro al mese ci assolvono dagli obblighi verso i nostri vecchi (che ci disturbano più o meno quanto gli immigrati stessi). Chiaramente ci interessa che vivano in modo decoroso. Su come facciano con quella miseria che passiamo loro, che normalmente destinano in larga misura alla famiglia, francamente non ci riguarda.

L’ordine, per prima cosa. Che trovino una sistemazione sotto un tombino e spuntino fuori al mattino, fresche e profumate come violette. Marta

Gli Amici di Padre Aldo Bergamaschi ha detto...

Cara Marta,

eccomi a tentare di onorare la promessa fatta, inviando una replica al tuo post.

Mi sono riletto (dopo averlo stampato), l’articolo di Galimberti, temendo che la fretta - come spesso mi succede - fosse stata cattiva consigliera. Ho cercato un passaggio che mi riconducesse alla tua reazione di - presumo - discordanza che hai esemplificato con il richiamo alle badanti rumene.

Beh, non sono stato capace di trovare punti di grande frizione tra il tuo sentire e i concetti espressi dal filosofo. Credo che infatti lui sottoscriverebbe volentieri sia il tuo intervento iniziale che le varie tue controrepliche.

Galimberti si muove con gli strumenti del ragionamento e della speculazione che cerca comunque di giungere a generalizzazioni, essendo “marginale” il confinarsi nell’episodio di cronaca, purtroppo facile, nei nostri frenetici ritmi, ad evaporare. Siamo consumistici anche nella cultura!...

Diciamo che il “taglio”, l’angolo prospettico dei suo e del tuo articolo sono differenti, ma la sostanza è quella, e le conclusioni convergono verso lo stesso punto, poiché le premesse, ovvero l’analisi della complessa e difficile situazione che qualcuno deve pur gestire, mi sembrano sovrapporsi.

Galimberti non ha preso le difese di Cofferati né stigmatizzato il coatto 'modus vivendi' degli immigrati, o minoranze etniche che dir si voglia. E nemmeno ha fatto graduatorie di merito su chi abbia diritto a cosa, e chi no. D’altronde ci vorrebbe ben poco senso etico a condannare chi già sta ingiustamente pagando una condanna per colpe di cui non è responsabile. A meno che sia da ritenersi colpa l’essere nel bisogno, nella precarietà, nell’abbandono, nella disperazione per le avversità di un destino che affonda le sue radici nelle sperequazioni che oggigiorno hanno raggiunto proporzioni spaventose.

Non ho soluzioni a questi problemi, e nemmeno credo le abbia Galimberti, né Cofferati, né ... tu. Una volta ancora debbo ripararmi negli insegnamenti della mia guida spirituale (sono retrò, lo so) e andarmi a rileggere qualcuno dei suoi scritti.

Insieme ai documenti che hai richiamato e ai tanti altri che si trovano in rete, riuscirò a farmi un’idea meno confusa di “come si dovrebbe fare per...”, ma soprattutto riconfermarmi sul “cosa si sarebbe dovuto fare per non...”.

Ti ringrazio per l’attenzione e amichevolmente ti saluto. gg

Anonimo ha detto...

Partendo dal presupposto che si è creato, vorrei approfittarne per ampliare la discussione, rimasta orfana dei concetti basilari che avrei voluto esporre.

Il mio articolo raccontava di un tradimento: il tradimento istituzionale perpetrato, nel caso di Bologna, dalla persona del sindaco. Ma il sindaco, non ha fatto altro che dare corpo ai desideri dei suoi cittadini “migliori”, quelli che possiamo, senza timore alcuno, definire “borghesi” o meglio “imborghesiti”. Quelli dai quali, per intenderci, riceve i favori elettorali.

Ho preferito indirizzare le mie perplessità verso i provvedimenti, piuttosto che analizzare la questione da una visione più amplia, per il semplice fatto che volevo evitare le solite tiritere sulla demagogia, riferendomi esclusivamente ai fatti. Speravo infatti che la discussione si spostasse sulle responsabilità di tutti noi, sul nostro qualunquismo esasperato. Nonostante la discussione si sia contrariamente alle mie speranze strutturata tutta intorno alla politica (che così facendo rimane un’entità estratta, quasi scollegata dalla realtà) non ho colto un riferimento “vero” alle responsabilità “vere”, e le accuse di demagogia, se pur velate, non sono mancate comunque.

Ora, ritornando all’articolo di Galimberti, non trovo che la sua visione sia molto distante dalla mia, quello che avverto, è piuttosto l’assoluzione dell’uomo comune dalla sua responsabilità, che a rigor di logica è una conseguenza dei provvedimenti istituzionali. Quando Galimberti si domanda : -“Davvero le nostre forze di sopportazione sono all'altezza delle nostre idee, o abbiamo posto l'asticella delle nostre idee troppo in alto per sentirci nobili, elevati e soprattutto giusti, ma assolutamente inadeguati per quanto riguarda i margini di tolleranza che la nostra vita vissuta ci concede?”- fornisce un alibi illusorio a tutti noi.

Il messaggio che ne deriva, è che possiamo arrenderci. Possiamo affermare, senza vergogna, di non “avercela fatta” a sopportare i “soprusi”. A questo punto, mi chiedo: se non ce la facciamo noi che abbiamo la fortuna dalla nostra, come possiamo attenderci che ci riescano i “diseredati”?

Se non abbiamo pazienza e costanza noi, che siamo nati nel lato confortevole del mondo, come possiamo chiedere agli “altri” di fare ulteriori sforzi? La povertà poi, è davvero una condizione così distante da noi? Siamo sicuri, di poterci schierare contro i più deboli nell’illusione di essere indenni da tutte la complessità della vita?

Qualche tempo fa, tanto per fare un esempio, mi scontrai con una persona che aveva pareri contrari riguardo l’inserimento dei bambini “diversamente abili” nelle scuole statali. Sosteneva che il problema del bambino down (questa era la “diversità”) non poteva gravare sulla comunità. Secondo questo signore, la comunità non può e non deve farsi carico, sia economicamente che dal punto di vista organizzativo, dell’handicap.

Il mio interlocutore però trascurava un aspetto che va ben oltre il “far di conto”, non considerava tutta una serie di fattori che sono alla base di una società che vuole definirsi “civile”. Credo non sia necessario elencarli in questo contesto, difatti, i principi a cui feci riferimento all’epoca, sono piuttosto elementari e ovvi, ma fatto gravissimo, la società tutta sembra averli messi da parte
Sulla spinta delle privatizzazioni “mentali”, dai concetti di proprietà fino al capitalismo più ardito,il cittadino, l’uomo, è pronto a travolgere qualsiasi principio.

Vorrei chiedere a Galimberti, senza sarcasmo, se non sia piuttosto questa “l’asticella da regolare”.
Passano gli anni, ed io, lo dico francamente e con un gran carico di amarezza, mi sento sempre più un’esclusa : mi trovo a vivere questa “divergenza concettuale” in crescente solitudine.

Ritrovo nella mia stessa famiglia, una diversità d’intenti rispetto al passato e sorprendo mia madre e mio padre, ribellarsi contro i diritti concessi alle minoranze, sentenziando candidamente: “LORO usufruiscono dei diritti, per cui NOI abbiamo lottato…” Ma i diritti non sono a beneficio dell’umanità? Il diritto confinato in una categoria non muta la sua natura in “privilegio”?

Tanti ancora sono gli aspetti sui quali vorrei confrontarmi, ma temo di avere approfittato anche troppo della tua disponibilità, resta inteso che potrai usufruire dello scambio “epistolare” come meglio credi, a patto che tu non intenda pubblicarlo nel forum dei “giovani leghisti militanti ”…

Un caro saluto, Marta