martedì 26 dicembre 2006

La Lettera di San Giacomo e il cardinale Ruini

da LETTERA 119

21 dicembre

Mina Welby non è una donna qualunque, basta guardarla in faccia: gli occhi stanchi di chi ha avuto sonni continuamente interrotti, il volto con le rughe di chi troppe volte ha dovuto fingere un sorriso o nascondere un pianto.. Ha mantenuto in vita il suo uomo per una catena di giorni che sembrava infinita, come solo certe donne eroiche sanno fare quando il marito diventa un lungo degente e loro sono costrette a trasformare l’amore che gli portano, a diventare madri di un bambino senza bellezza. Sul corpo che un tempo si strinse gioiosamente al loro devono cercare ogni giorno, per tamponare, se è possibile, il progredire di un disfacimento senza recupero: le terribili piaghe da decubito, la perdita di funzionalità degli arti e degli sfinteri, la voce che diventa un bisbiglio, lo sguardo, talvolta, della bestia braccata, la speranza ormai evasa da ogni realtà.

Così ha vissuto per anni e anni Mina Welby e se ci fosse una medaglia all’amore coniugale, dovrebbe esserne insignita.

Quella medaglia dovrebbe dargliela, penso, il Movimento per la vita, perché Mina Welby ha mantenuto vivo e vigile (come suol dirsi) un uomo di cui si è innamorata e che ha sposato quando già le condizioni di lui erano segnate, segnato il suo destino. Lo ha conosciuto, ha raccontato, a una “gita parrocchiale”. Questo particolare mi commuove: tra i frutti più belli del Concilio c’è la nuova consapevolezza delle comunità cristiane a proposito dell’eminente dignità del malato; ogni volta che ad una festa o a un’altra lieta occasione vedo un gruppo di persone raccogliersi sorridendo intorno a una carrozzina, ripenso a un testo altissimo del Vaticano Secondo: “La Chiesa riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo Salvatore”.

Per anni e anni Mina Welby ha dato al suo uomo non soltanto vita ma dignità di vita. Mi ha intenerito più volte vedere nelle fotografie come fosse propre questo malato: pulito e stirato il maglioncino, sbarbato il volto, pettinato il capo. Ma una donna non può ottenere l’impossibile neppure a costo di soccombere alla fatica. La vita di Piero è diventata una agonia sempre più atroce: speranze, nessuna; previsioni, terribili: fra qualche mese o settimana, non avrebbe più potuto deglutire, avrebbero dovuto operarlo nuovamente, introdurgli nell’in-testino una sonda per nutrirlo e idratarlo. Allora il corpo di Welby sarebbe stato definitivamente una crisalide di morte, una persona impedita di essere tale per la completa separatezza dalle funzioni umane. Infine - prima o poi... – sarebbe sopravvenuta la morte, per soffocazione. Piero Welby, che aveva retto tante sofferenze, di questa modalità di morte aveva il terrore.

Mia moglie ed io abbiamo testimoniato, anni fa, in una causa di beatificazione, sulle virtù eroiche di Luigi Rocchi, un popolano di Tolentino. Malato della stessa malattia di Welby, Luigi aveva fatto del suo letto una cattedra di coraggio e di fede. Ma la morte era arrivata a quarant’anni e senza la costrizione meccanica imposta al marito di Mina dalla paradossale crudeltà del progresso tecnologico. E non tutti possono essere santi od eroi. “Luigino” Rocchi era noto a molti e da molti fu pianto e viene ricordato. Ma ebbe la fortuna di non diventare, come Piergiorgio Welby, un “caso”, un nodo di paure ancestrali e di speculazioni politiche, di commi e di moralismi, di giuste preoccupazioni e di filosofemi. Nessuno si arrogò il diritto di condannarlo a morte o a una non-vita. La madre eroica che egli ebbe accanto non dovette ascoltare discussioni su un caso piuttosto che su un uomo. Intorno a Piergiorgio, invece, si è eretto un circo mediatico in cui le conferenze stampa hanno prevalso su un rispettoso silenzio e una silenziosa solidarietà.

Quelle intorno al caso Welby non sono state tutte parole inutili ma non credo siano servite molto a Mina. Sappiamo che Mina voleva, disperatamente voleva, che Piero non la lasciasse; ma anche che non si sentiva di imporgli, costringendolo a “vivere”, di andare verso l’orribile morte temuta.

22 dicembre

Neppure alla fine, lei restò con quel caro corpo, contorto dalla malattia, ma ormai in pace. Lo Stato glielo sottrasse per indagare su un possibile crimine. Intanto il dibattito continuava. Ma non per il Vicariato di Roma. Il cardinale Ruini, lui aveva soltanto certezze: il peccato per lui dominava la tragedia. E quando Mina desiderò che la Chiesa, la “sua” Chiesa, perchè Mina è cattolica, si prendesse cura del suo dolore nella celebrazione di un funerale relgioso, il porporato ha risposto che no, non si poteva, lo vietava il codice di diritto canonico. Lo ha spiegato ai telegiornali, con serena fermezza, il vescovo monsignor Fisichella: é vero che, a differenza di quanto avveniva un tempo, la Chiesa concede oggi ai suicidi funerali religiosi perchè può darsi che la loro scelta sia il risultato di un improvviso squilibrio psichico; ma Piergiorgio Welby era perfettamente consapevole di ciò che chiedeva.

Perfettamente lucido e libero nelle sue decisioni dopo un martirio di tanti anni, una tortura quotidiana e prospettive ancora più atroci? Mina Welby, il suo dolore, il suo eroismo – ha detto la Curia - possono attendere. Forse più avanti, in forma riservata... I commi dei giuristi prevalgono sull’insegnamento del Cristo? Dice la Lettera di San Giacomo: “religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro padre è soccorrere gli orfani e le vedove nel momento delle loro afflizioni...”.

Parola di Dio, ma non a Roma.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Il dibattito sui pacs sta diventando una babele. E allora parlo anch'io.

Io sarei per il sì. Da catto-gaudente qual sono, non condivido il pessimismo del Papa e di Ruini. Non si tratta di destabilizzare la famiglia più di quanto sia già stata terremotata negli ultimi quarant'anni, bensì di regolare esperienze di vita presenti in una società pluralistica. Sarei favorevole ma con la limitazione ai soli omosessuali.

Mi spiego meglio.
Per gli eterosessuali basta e avanza il matrimonio civile. Che non solo è così facile da celebrare ma che soprattutto prevede un giusto equlibrio tra diritti e doveri. "Se vuoi il diritto, assumiti il dovere". Oggi invece si è diffusa una concezione esclusivamente soggettiva dei diritti come crediti o vantaggi, ottenuti automaticamente una volta espresso il desiderio. E' una visione individualistica-libertina che non condivido. Perché, ad esempio, la comunità dovrebbe garantire pensioni di reversibilità a cittadini che, sulla base di una più che legittima scelta, non hanno voluto neanche recarsi davanti a un ufficiale di stato civile per dichiarare le proprie intenzioni?

Per i gay invece non c'è nulla. Sarei quindi favorevole ad un riconoscimento delle unioni omosessuali, che diventi supporto sociale e economico di fronte ad una convivenza stabile e solidale. Non sarei invece d'accordo se il riconoscimento significasse una sorta di "sacramento laico", teso a occultare i limiti oggettivi dell'omosessualità. Questo dei limiti è un argomento quasi tabù, specie nel centrosinistra. Invece, a mio avviso, non lo si può omettere. “Stare con lo stesso" non è eguale a "stare con il contrario", non foss'altro perché solo dalla unione dei contrari possono nascere figli. Come si può pensare ad un'indifferenza pubblica sull'alterità sessuale proprio nei due momenti in cui essa si estrinseca appieno, cioè nella scelta del partner e nella filiazione? Quindi resti ferma la distinzione tra un patto di simili e l’alleanza tra uomo e donna (per il succedersi delle generazioni).

Pensiero finale.
Cos'è un uomo? Un uomo è un vuoto: l'anelito a una donna.
E cos'è una donna? La donna è un vuoto: l'anelito a un uomo.
Sono ciò di cui sono privi.
Cos'è la felicità? La felicità è la riunione di due vuoti, che a furia di ascoltarsi, abbracciarsi, impregnarsi fanno nascere un pieno. Non è eccitante e meraviglioso?

Saluti affettuosi, anzi di più, baci rosso fuoco
G.C.