venerdì 24 marzo 2006

LETTERA APERTA AL CARDINALE CAMILLO RUINI

Giovedì, 23 Marzo 2006 ore 9:10

Caro Cardinale,

mi perdoni l’ardire, ma sono parroco della parrocchia più “rossa” d’Italia dopo Alfonsine e Argenta, ed il suo ultimo intervento mi pone dei problemi notevoli in questo squarcio pre-elettorale. Tanto per capirci da queste parti ancora non gli è andata giù la scomunica del ’48, con la quale la nostra “ditta” buttò fuori dalle chiese la metà del Popolo di Dio ed è ancora vivo il ricordo, nelle persone di una certa età, dell’alternativa alla quale li sottoponeva il mio predecessore: “O strappi la tessera o non ti do l’assoluzione!”. Per la cronaca, nessuno strappò la tessera e di conseguenza mi ritrovo una parrocchia di impenitenti comunisti. Io sono sicuro che le sue affermazioni (“la Chiesa non dà indicazioni di voto”) siano da interpretarsi alla lettera, come dice la morale sociale che mi è stata insegnata all’Istituto Teologico di Assisi. Purtroppo le sue precisazioni (od “orientamenti di voto” che dir si voglia) sono state interpretate in modo alquanto strumentale da molti esponenti dello schieramento della “Casa delle libertà” che hanno ritenuto di leggere il suo intervento come una legittimazione della politica del Governo Berlusconi ed un invito palese ad orientare il voto dei cattolici verso la “Casa” medesima.

Guardi che la cosa non è di secondaria importanza perché molti, tra le persone che incontro quotidianamente, si chiedono il senso del suo intervento e si chiedono anche perché, tra le sue riflessioni, non ci sia una parola che ricordi ai politici
il dovere evangelico dell’accoglienza dello straniero;
l’esigenza biblica di unire la parola Pace alla parola Giustizia;
i comandamenti che proibiscono di idolatrare le merci e adorare gli uomini (fossero anche “grandi”);
di approvare leggi che fanno del commercio delle armi qualcosa di simile al commercio delle arance, di rubare (deputati condannati che legiferano);
di dire falsa testimonianza e approvare legittimamente bilanci falsi; la virtù cristiana della povertà anteposta al mito occidentale della ricchezza e del benessere;
il dovere dell’etica anche in politica per non trasformare i governi in “bande di ladri”;
il dovere dei media di non istupidire la gente con programmi demenziali confezionati ad arte per distruggere i valori della famiglia e del vivere civile;
il dovere di predicare la pace sempre, sempre, sempre… e di considerare che l’Italia è piccola e il mondo della fame e della guerra è tanto grande bussa alle nostre porte.

Per carità: l’aborto, l’eutanasia, il divorzio, i Pacs… sono problemi gravissimi. Ma la gente, la sera, quando torna a casa, non mangia i Pacs, né si mette a fare disquisizioni su Luxuria e su Caruso. Semplicemente si siede a mangiare e in genere fa i conti con i soldi, con le ultime notizie del TG, con la sciatalgia di Berlusconi (problema gravissimo per tutta la nazione) e si sorbetta le cifre dei morti degli ultimi attentati in Iraq, dei cani abbandonati, del gatto di Blair e degli ultimi disastri nel mondo.

Caro Cardinale, dica una parola semplice sulla laicità. Ci racconti che mai la fede è un elemento di giustificazione delle ideologie. Di quella comunista lo sappiamo, ma sia chiaro neanche di quella fascista, nazista, leghista, nazionalista, fondamentalista e neanche dell’idolatria del mercato e della ideologia della “Casa del Liberismo”, camuffata da armata in difesa dei valori cristiani.

Ci dica, come insegna la morale cattolica, che nessun partito interpreta i valori cristiani, che la fede non è mai inglobata nei partiti, nei movimenti, nelle coalizioni e che la fede è altro, fatta dai testimoni e che mai, e poi mai, la fede, può essere considerata proprietà privata di qualche “Casa”, il “passepartout” dei politici sedicenti “cristiani”.

Io continuerò a rassicurare i miei parrocchiani che, anche se voteranno per l’Unione, non ci saranno conseguenze per la loro vita spirituale né per la loro vita eterna, perchè votare liberamente per una lista (visto che ci è stato tolto il diritto di scegliere i candidati) è l’unico straccio di democrazia che ci è rimasto, e perché la libertà di coscienza è l’ultimo baluardo di dignità che ci è ancora concesso in questi tempi calamitosi.

Mi perdoni, sono sicuro che la sua intenzione era esattamente quella di affermare l’assoluta laicità del voto del 9 aprile. Ma sa, a volte le intenzioni vengono fraintese...


don Gianfranco Formenton

mercoledì 8 marzo 2006

8 marzo

DONNE IN RINASCITA

Più dei tramonti, più del volo di un uccello, la cosa meravigliosa in assoluto è una donna in rinascita.
Quando si rimette in piedi dopo la catastrofe, dopo la caduta.
Che uno dice: è finita.
No, non è mai finita per una donna.

Una donna si rialza sempre, anche quando non ci crede, anche se non vuole.
Non parlo solo dei dolori immensi, di quelle ferite da mina anti-uomo che ti fa la morte o la malattia.
Parlo di te, che questo periodo non finisce più, che ti stai giocando l'esistenza in un lavoro difficile, che ogni mattina è un esame, peggio che a scuola.

Te, implacabile arbitro di te stessa, che da come il tuo capo ti guarderà deciderai se sei all'altezza o se ti devi condannare.
Così ogni giorno, e questo noviziato non finisce mai.
E sei tu che lo fai durare.

Oppure parlo di te, che hai paura anche solo di dormirci, con un uomo; che sei terrorizzata che una storia ti tolga l'aria, che non flirti con nessuno perché hai il terrore che qualcuno s'infiltri nella tua vita.
Peggio: se ci rimani presa in mezzo tu, poi soffri come un cane.

Sei stanca: c'è sempre qualcuno con cui ti devi giustificare, che ti vuole cambiare, o che devi cambiare tu per tenertelo stretto.
Così ti stai coltivando la solitudine dentro casa.

Eppure te la racconti, te lo dici anche quando parli con le altre: "Io sto bene così. Sto bene così, sto meglio così".
E il cielo si abbassa di un altro palmo.

Oppure con quel ragazzo ci sei andata a vivere, ci hai abitato Natali e Pasqua.
In quell'uomo ci hai buttato dentro l'anima ed è passato tanto tempo, e ne hai buttata talmente tanta di anima, che un giorno cominci a cercarti dentro lo specchio perché non sai più chi sei diventata.
Comunque sia andata, ora sei qui e so che c'è stato un momento che hai guardato giù e avevi i piedi nel cemento.

Dovunque fossi, ci stavi stretta: nella tua storia, nel tuo lavoro, nella tua solitudine.
Ed è stata crisi, e hai pianto.
Dio quanto piangete!
Avete una sorgente d'acqua nello stomaco.

Hai pianto mentre camminavi in una strada affollata, alla fermata della metro, sul motorino.
Così, improvvisamente. Non potevi trattenerlo.
E quella notte che hai preso la macchina e hai guidato per ore, perché l'aria buia ti asciugasse le guance?

E poi hai scavato, hai parlato, quanto parlate, ragazze!
Lacrime e parole. Per capire, per tirare fuori una radice lunga sei metri che dia un senso al tuo dolore.
"Perché faccio così? Com'è che ripeto sempre lo stessoschema? Sono forse pazza?"
Se lo sono chiesto tutte.

E allora vai giù con la ruspa dentro alla tua storia, a due, a quattro mani, e saltano fuori migliaia di tasselli. Un puzzle inestricabile.
Ecco, è qui che inizia tutto. Non lo sapevi?

E' da quel grande fegato che ti ci vuole per guardarti così, scomposta in mille coriandoli, che ricomincerai.
Perché una donna ricomincia comunque, ha dentro un istinto che la trascinerà sempre avanti.
Ti servirà una strategia, dovrai inventarti una nuova forma per la tua nuova te.

Perché ti è toccato di conoscerti di nuovo, di presentarti a te stessa.
Non puoi più essere quella di prima. Prima della ruspa.
Non ti entusiasma? Ti avvincerà lentamente.
Innamorarsi di nuovo di se stessi, o farlo per la prima volta, è come un diesel.
Parte piano, bisogna insistere.
Ma quando va, va in corsa.

E' un'avventura, ricostruire se stesse. La più grande.
Non importa da dove cominci, se dalla casa, dal colore delle tende o dal taglio di capelli.
Vi ho sempre adorato, donne in rinascita, per questo meraviglioso modo di gridare al mondo "sono nuova" con una gonna a fiori o con un fresco ricciolo biondo.
Perché tutti devono capire e vedere: "Attenti: il cantiere è aperto, stiamo lavorando anche per voi.
Ma soprattutto per noi stesse".

Più delle albe, più del sole, una donna in rinascita è la più grande meraviglia.
Per chi la incontra e per se stessa.
È la primavera a novembre.
Quando meno te l'aspetti...

Jack Folla

sabato 18 febbraio 2006

Don Farinella scrive a Sua Santità...

La lettera seguente pouò essere sottoscritta anche collegandosi a http://www.arcoiris.tv/appello/benedettoXVI/


Care Amiche e Amici,

dopo lunga e matura riflessione, confortata dal consiglio di molti amici, invio in allegato e di seguito una lettera aperta al papa Benedetto XVI con preghiera che non riceva Berlusconi in udienza a ridosso delle prossime elezioni politiche del 9-10 aprile. Sono a conoscenza di movimenti sotterranei perché la visita abbia il più grande impatto mediatico.

Nessuno è tenuto a condividere la lettera, il suo tono, i suoi contenuti. L'ho fatta leggere ad alcuni amici i quali hanno suggerito alcuni aggiustamenti formali e qualche correzione di stile e contenuto. L'ho fatto. Quella che propongo è la lettera definitiva.

La pubblici in rete, chiedendo di divulgarla più che sia possibile per lasciare libertà di scelta:

1) Chi condivide la lettera può cliccare su COMMENTS e, nello spazio bianco del riquadro che si apre, apporre la propria firma nel seguente ordine: Cognome, Nome, professione, Città.

2) Chi non la condivide, può ugualmente divulgarla, lasciando ai suoi amici la libertà di firmare o non firmare.

3) La lettera aperta non è inviata solo ai cattolici o ai cristiani, ma a tutte le donne e gli uomini che hanno a cuore la vita della Nazione oggi a rischio di sopravvivenza civile se dovesse andare in porto la riforma costituzionale aberrante che il governo ha promosso per pagare il pedaggio ai suoi servi-alleati. La lettera è aperta per dare modo a chiunque di poterla firmare ed esercitare un diritto di democrazia diretta e senza mediazioni. E' possibile che molti non siano d'accordo sulla lettera o su alcuni aspetti di essa. A questi rispondo che io l'ho scritta così, se qualcun altro vuole e può fare meglio, lo faccia. Una cosa non è più lecita moralmente: essere indifferenti e rassegnati.

4) Sono grato agli Avvocati del foro genovese che hanno racconto oltre 30.000 firme per abrogare la costituzione, ma qui abbiamo il dovere etico, razionale ed evangelico di abrogare un governo che è stato ed è la vergogna del diritto e della giustizia sociale.

5) Alla chiusura della raccolta delle firme, che speriamo siano una valanga, invieremo una e-mail o spediremo in cartaceo (vedremo) con tutte le firme in Vaticano.

6) Questa lettera è stata immessa anche in http://minimalessandro.blogspot.com/2006/02/lettera-aperta-al-papa-benedetto-xvi.html il blog di Alessandro Loppi.

Vogliamo ed è un nostro diritto che il Papa resti fuori dal ring parossistico e beffardo di questa campagna elettorale già deformata in modo inverecondo da un presidente del consiglio che tutto è tranne che un moderato. Nessuna strumentalizzazione deve essere tollerata da parte del Papa che è e deve restare "cattolico" cioè universale e non un accessorio di una parte che non è la migliore del Paese.

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A Sua Santità Benedetto XVI
Città del Vaticano

Apprendiamo che a ridosso delle elezioni politiche italiane del 9 e 10 aprile 2006, Lei riceverà in visita ufficiale il presidente del consiglio italiano, Silvio Berlusconi, nell’ambito di una visita del Partito Popolare Europeo (PPE). Molti dicono che questo incontro sia stato pensato e programmato dallo stesso interessato che vuole questa visita come una sorta di «consacratio ad limina», a ridosso delle imminenti elezioni politiche e dopo mesi di estenuante campagna elettorale mediatica senza esclusioni di colpi.

L’ospite che giunge in Vaticano, dopo essersi paragonato a Napoleone, il 12 febbraio 2006 ad Ancona in un infinito comizio ai suoi sostenitori ha superato il segno della normalità psicologica e della decenza morale, afferman-do testualmente: «Io, il Gesù della politica, una vittima paziente, mi sacrifico per tutti». Nelle precedenti politiche del 1993 ebbe a presentarsi come il «Messia», inviando i suoi sostenitori come «missionari e apostoli». Mai uomo politico intelligente o sprovveduto era mai arrivato a tanto.

Nulla da eccepire se l’udienza capitasse in tempi normali o non sospetti. In queste circostanze e condizioni, la visita è programmata da parte italiana con fini strumentali: essa serve al capo del governo per potersi accreditare come «consono» alla Chiesa cattolica a differenza del suo rivale, Romano Prodi, che da cattolico serio e «adulto» non usa la religione come strumento populista di infima propaganda. Egli, infatti, si è incontrato con il card. Vicario, Camillo Ruini, nel più assoluto riserbo.

Se Lei dovesse ricevere Berlusconi in udienza, di fatto, anche senza volerlo, si schiererebbe con una parte e il gesto più eloquente di ogni parola contraddirebbe quanto Lei afferma nella sua prima enciclica: «La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile» (28/a).

Con questa visita, anche contro la Sua volontà, il Papa rischia di accreditare un uomo che ha diviso la nazione invece di unirla, come richiedeva la sua funzione. Il presidente del consiglio italiano si definisce cattolico, ma non esita a distruggere lo stato sociale, impoverendo ancora di più i poveri e favorendo i ricchi. Al contrario, egli ha triplicato il suo patrimonio facendosi approvare leggi su misura contro ogni legittimità giuridica.

Interi settori della popolazione che fino a ieri vivevano una vita dignitosa, oggi vengono nelle parrocchie a chiedere aiuto per arrivare alla fine del mese. Questo stato di cose incide e condiziona non solo la qualità, ma anche l’esistenza stessa della famiglia che Berlusconi ben conosce, giacché, da «buon cattolico» usufruendo del divorzio, ha fatto una duplice esperienza familiare. Ci risulta, a proposito, che da alcuni giornali specializzati in «gossip» si è fatto fotografare mentre fa la Comunione, contravvenendo così ad una chiara norma della Chiesa sull’accesso dei divorziati ai sacramenti e lasciando nello sconcerto la massa di cattolici, spesso divorziati senza colpa, che sono indotti a pensare che il Sig. Berlusconi abbia avuto uno sconto dalla Chiesa in quanto ricco e potente.

Il presidente del consiglio dei ministri dovrebbe essere un modello per l’intera nazione e invece assistiamo ad una sistematica denigrazione della giustizia e delle istituzioni pur di salvarsi dai processi per accuse gravissime come la corruzione di giudici, divulgando tra la popolazione non solo il senso dell’illegalità, ma anche la convinzione che le leggi siano lacci per i polli che i furbi sanno evitare. Anche il Papa si sarà chiesto come mai un uomo prudente e saggio come il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, si sia rifiutato di firmare in prima istanza, a norma della Costituzione, tutte le leggi qualificanti l’azione di questo governo, dichiarate «palesemente incostituzionali».

La vittoria delle elezioni si giocherà sul filo del rasoio perché il capo del governo ha voluto e ha fatto approvare una legge elettorale su sua misura. In subordine, in caso di sconfitta, che gli istituti demoscopici non escludono, egli vuole rendere l’Italia ingovernabile, in base al principio del «muoia Sansone con tutti i Filistei» (Gdc 16,30).

Da vero statista. Al Papa non può sfuggire il particolare che il Sig. Berlusconi sia proprietario di tre reti tv e disponga delle altre tre pubbliche, avendo così dalla sua l’intera flotta mediatica, supportata da giornali di proprietà o compiacenti e asserviti mediante il meccanismo perverso della distribuzione delle quote pubblicitarie.

In un momento così grave e delicato per l’Italia, molti cattolici chiedono al Papa di non prestarsi anche involontariamente a questo gioco che a molti appare demagogico, populista e dissacratore, perché appare basato sul principio machiavelliano, immorale per l’etica cattolica, che il fine giustifichi i mezzi. Chiediamo al Papa che «almeno» per opportunità politica non riceva il capo di una fazione politica, nel momento in cui la legge italiana impone una reale par condicio che il capo del governo ha eluso e aggirato a piene mani e anche ostentatamente. In subordine chiediamo che riceva insieme i due capi dei poli opposti e faccia loro una autentica lezione di comportamento etico anche in campagna elettorale, senza dimenticare di ricordare i principi fondamentali della «Dottrina sociale della Chiesa» che ha come fulcro il «bene comune» dell’intera Nazione.

Desideriamo informare il Papa che molti, moltissimi fedeli sono impressionati per il silenzio della gerarchia cattolica italiana di fronte ad eventi e scelte governative che gridano vendetta al cospetto di Dio, giacché ritengono e pensano che essere cristiani sia incompatibile con il modello di governo che questi cinque anni ci hanno riservato. Una «contradditio in terminis». Molti di noi non sanno spiegarsi i motivi per cui partiti che dicono d’ispirarsi ai principi cristiani abbiano potuto essere alleati succubi di questo esorbitante e folcloristico potere che ha tenuto in scacco tutte le Istituzioni, a cominciare dalla Suprema Carta costituzionale di cui è stato fatto scempio pur di saziare gli appetiti delle singole fazioni che compongono la maggioranza attuale.

I partiti che fanno riferimento ai principi etici del cattolicesimo hanno firmato una legge sull’immigrazione che nega i principi fondamentali della fede cristiana, per sua natura universale e quindi aperta, con le necessarie regole, all’accoglienza di disperati e affamati; i quali bussano alla porta dell’occidente opulento che pure legge ogni domenica Mt 25, 31-46, là dove il Signore si identifica con gli affamati, gli assetati, i carcerati, i forestieri. L’ospite che arriva in Vaticano ha appena approvato e fatta varare dal parlamento una legge immorale che concede a tutti i cittadini la licenza di uccidere e di essere uccisi in nome di una malintesa sicurezza la cui custodia è affidata alle pistole di una pericolosa giustizia «fai da te».

Al Papa chiediamo che non presti il fianco a dividere ancora di più i cattolici che già sono frammentati in partiti e porzioni di partiti. Infine, chiediamo che il Papa preghi per tutti gli Italiani perché possano scegliere con scienza e coscienza, lasciandosi guidare non da interessi particolari, ma unicamente dal bene comune della loro Nazione, all’interno del quale si realizza e si compie anche il bene personale.

Lei stesso nella sua prima enciclica Deus Caritas est citando Sant’Agostino ha scritto: «Il giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale della politica. Uno Stato che non fosse retto secondo giu-stizia si ridurrebbe ad una grande banda di ladri, come disse una volta Agostino: «Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?» (De Civitate Dei, IV,4). Alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22, 21), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa o, come dice il Concilio Vaticano II, l’autonomia delle realtà temporali (Gaudium et Spes, 36)».

Dio non voglia che il Papa permetta questa commistione diabolica e preservi la Sede di Pietro da ogni calcolo di interesse e da basse strategie di strumentalizzazione partitica e faziosa. E’ una questione etica. E’ un imperativo di decenza.

Con cordialità.

Paolo Farinella, prete - Genova (17 febbraio 2006)

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giovedì 16 febbraio 2006

LETTERA SULLE ELEZIONI DI UN ANONIMO CRISTIANO

Caro Tommaso,

siccome sei nato appena il 19 agosto, hai ricevuto una lettera dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi con un grosso bacio e 1000 euro. Il bacio è gratis, ma i mille euro servono per avere il voto dei tuoi genitori, che vuol dire 500 euro a voto, e con le casse dello Stato si può fare, data anche la scarsa natalità. Anche questo è un contratto, tanto è vero che la tua babysitter, che l’anno scorso ha avuto un bambino, ha ricevuto anche lei la lettera di Berlusconi, ma non i mille euro, perché è somala e non può votare, e anche Tremonti dice che bisogna evitare le spese improduttive. Nel suo caso, ci sarebbe stato un arricchimento senza causa.

Poiché i tuoi genitori sono persone oneste, non hanno ritirato i mille euro, e votano come gli pare. Anzi hanno messo in cornice la lettera di Berlusconi, come si fa con i cimeli storici.

Tu hai avuto la grazia di venire alla luce in un mondo che non è mai stato così attraente. Le sue bellezze si sono moltiplicate, le ricchezze pure, gli abitanti sono più numerosi che mai e tutti, a volerlo, potrebbero essere in grado di vivere e di godere la Terra; i re e i principi dei secoli passati stavano molto peggio di te quanto a cibo, acqua, caldo, freddo, salute, mobilità, conoscenze disponibili e aspettative di vita. Se non mancasse l’amore, per cui agli uni è tolto ciò che agli altri è dato, davvero questo sarebbe un mondo meraviglioso.

Un gioco d’azzardo. Però tu sei nato anche alla vigilia di un grande gioco d’azzardo. In questo Paese stiamo per andare a una roulette, in cui in una sola giocata è messa in palio tutta la posta: la giustizia, i diritti, il lavoro, la pace, il dialogo tra le civiltà e la Costituzione repubblicana che il governo e la maggioranza parlamentare hanno fatto a pezzi già quattro volte (in altrettanti voti delle Camere) e infine liquidato per togliere il potere ai cittadini e allo stesso Parlamento. Infatti il sistema politico si è venuto a congegnare in modo tale che un normale ricorso alle urne per eleggere i rappresentanti, si è trasformato in un aut-aut, nel quale tutto si può perdere e tutto si può salvare. In questa consultazione elettorale ci possono essere, perché così ha voluto la recente riforma, solo due programmi e due schieramenti in grado di competere per il premio di 340 deputati assegnati per legge al vincitore. “Tertium non datur”, come dicevano i latini. Tutta la società è costretta a dividersi in due, nonostante la varietà di bisogni, di interessi e di ideali da cui la mediazione politica e parlamentare dovrebbe estrarre il “bene comune”.

L’intenzione che da più di un decennio ha spinto il sistema elettorale e politico verso un così rigido bipolarismo era buona, perché si trattava di realizzare un regime di alternanza, come c’è in altre democrazie, soprattutto anglosassoni. Però non si è tenuto conto della natura della destra italiana, che quando non è trattenuta in un più vasto tessuto di relazioni democratiche e si presenta allo stato puro, si fa eversiva, come ha fatto nel tempo producendo fascismo, P2, tentativi golpisti e pulsioni secessioniste. L’esperienza di questi anni ha mostrato che la forzatura dell’elettorato a concentrarsi e a contrapporsi in due sole parti politiche, ha fomentato una cultura del conflitto e del nemico, ha imbarbarito la lotta e ha portato al rischio di consegnare il Paese a una fazione di guastatori.

L’Italia ha avuto altri momenti in cui con la destra si è giocato d’azzardo; uno di questi fu nel 1925, quando per la prima volta fu instaurato per legge (e non per rivoluzione) un “governo del Primo Ministro”. Ai bambini che nacquero quell’anno non andò poi bene; ne conosco che a 18 anni finirono in guerra o furono presi dai Tedeschi.
Dunque non ci si può distrarre, e bisogna prendere il proprio posto in una delle due parti in conflitto.

Berlusconi. Le ragioni per porre termine drasticamente all’esperimento Berlusconi vanno molto al di là delle inadempienze programmatiche e del dissesto dei conti e delle istituzioni. Berlusconi aveva stipulato un contratto, di modello privatistico, con il quale aveva acquistato un voto e aveva venduto un sogno, quello di un Paese beato e di un arricchimento generalizzato. I sogni sono preziosi. Un esponente della sinistra cristiana, Adriano Ossicini, psicologo dell’infanzia, raccontava un giorno di un bambino che aveva in cura, il quale gli aveva portato un sogno, perché glielo custodisse e non andasse perduto. Berlusconi ha tradito il sogno che aveva venduto e ora, con la sua parossistica campagna politica, sta trasformando questo sogno in un incubo. Egli non ama l’Italia, perché dell’Italia non ama la magistratura, la Confindustria, le cooperative, l’80 per cento dei giornalisti, i comuni e le regioni “rosse” e tutta la sinistra, che considera una “palla al piede” del Paese. Di conseguenza preferirebbe che tutti questi non ci fossero, come Calderoli preferirebbe che non ci fossero gli immigrati, e i coloni in Cisgiordania che non ci fossero i palestinesi. Tuttavia li vuole governare, il che vuol dire che vuole governare chi non ama, senza averne il consenso e che perciò li può governare solo assoggettandoli e riducendoli a sudditi.

In una trasmissione televisiva un consigliere di Berlusconi, politologo, don Gianni Baget Bozzo, ha detto che ciò che è in corso in questa campagna elettorale sarebbe un “regicidio”, alludendo agli attacchi al premier e alla rapida caduta del suo gradimento. Meno tragicamente avrebbe potuto parlare di “deposizione del re”. In ogni caso senza avvedersene Baget Bozzo, che è un buon conoscitore di dottrine politiche, usando questa parola definiva il regime politico che Berlusconi ha di fatto introdotto in Italia come un regime monarchico: cioè il potere di un uomo solo, senza controlli, senza alleati (infatti vorrebbe avere da solo il 51 per cento, più il premio di maggioranza) e senza competitori; tale potere sarebbe legittimato, come dice, dal fatto che “nessun altro italiano ha fatto tanto per l’Italia” come lui.

Questa monarchia di fatto, viene trasformata dalla nuova Costituzione elaborata a Lorenzago, in una monarchia di diritto. Il premierato assoluto che vi è configurato, l’emarginazione del Senato, la Camera dei Deputati spartita in due sezioni, una Camera alta (formata dai deputati di maggioranza che hanno “prerogative” negate a tutti gli altri) e una Camera bassa (formata dai deputati dell’opposizione che hanno solo il diritto di parola e i cui voti sulla fiducia al governo non verrebbero nemmeno contati), il Presidente della Repubblica esautorato, il “Primo Ministro” che può sciogliere la Camera quando vuole: tutto questo farebbe della Costituzione repubblicana uno Statuto monarchico, anche se senza successione ereditaria, il che rappresenta l’esplicita sconfessione dell’art. 139 della Costituzione vigente, che poneva un limite insuperabile al sovvertimento costituzionale, prescrivendo che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.

Dunque deporre Berlusconi e poi respingere nel referendum la Costituzione scritta dalla destra sono due atti della stessa operazione: salvare la Repubblica in Italia. Per i cittadini sembra questo un interesse, oltre che un valore, assolutamente prioritario. Come diceva un grande costituente, Giuseppe Dossetti, la Costituzione italiana era stata generata da una grande tragedia storica, conclusasi con la sconfitta del nazismo e del fascismo. Si può aggiungere che essa, come tutto il costituzionalismo internazionale postbellico, nacque perché la tragedia non avesse a ripetersi, ciò che oggi non è affatto sicuro.

Nessun capro espiatorio. Nell’agone per il ripristino e per il rilancio dell’ordine democratico non deve figurare alcun accanimento nei confronti di chi l’ha violato. In effetti è tutta una classe dirigente, solidale nel potere oltre ogni dissenso, e non una persona sola, che va giudicata. Ci si dovrebbe anzi preoccupare che l’eccessiva esposizione mediatica di Berlusconi non finisca per ricapitolare su di lui tutto il bene e tutto il male, il che è un meccanismo ben noto nella fabbricazione del capro espiatorio, come del resto già si intravede nel comportamento dei suoi alleati, col rischio di far perdere di vista i gravissimi danni da questo ceto politico provocati. Al di là della provocatoria iperbole di Gianni Baget Bozzo, quanti amano la convivenza civile non possono che opporsi all’ostensione di figure che attirino su di sé ogni encomio ed ogni oltraggio. Berlusconi si è messo in gravi difficoltà, fin quasi a voler procacciarsi il dileggio, ma non per questo devono venire meno il rispetto e la cura dovuti ad ogni creatura. Piuttosto deve essere aiutato a uscire – e l’elettorato può farlo – da una situazione divenuta insostenibile, dato che per lui, con tutte quelle televisioni e quelle aziende, la politica si è rivelata incompatibile con le sue ricchezze, per quel conflitto sempre denunciato che altro non è se non l’avverarsi dell’antico monito secondo cui “nessuno può servire a due padroni”.

Dove stanno i cristiani. Molti si chiedono dove stanno i cristiani in questo confronto. Poiché la domanda fa riferimento a una categoria religiosa e non politica, è evidente che la risposta non è affatto scontata: possono trovarsi da ogni parte. A volerli localizzare seguendo la pista indicata dal Vangelo, bisognerebbe sapere dove hanno il loro tesoro: “dov’è il tuo tesoro là sarà anche il tuo cuore” (Mat. 6,21). Allora si dovrebbe sapere qual è il tesoro di ciascuno, e così si saprebbe dov’è il suo cuore e anche il suo voto. E tuttavia nessuno ne potrebbe giudicare le intenzioni, perché si potrebbe sbagliare.

Dunque, per sapere dove stanno i cristiani, bisogna ricorrere a criteri più empirici. E qui sta la difficoltà. Perché, a guardare ai due schieramenti, si ha l’impressione di una situazione asimmetrica. Infatti in uno dei due, quello di centro-destra, ci sono molti che si professano “devoti”, atei o credenti che siano, c’è un partito che si fa chiamare cristiano, c’è chi rivendica a proprio favore l’autorità della Chiesa e gode di frequentazioni ecclesiastiche, e in tanti fanno a gara per accreditarsi come pronti a tradurre in leggi le indicazioni della CEI.

Nell’altro schieramento, che Berlusconi sommariamente definisce la “sinistra”, tutto questo non c’è, i cristiani come tali non si fanno riconoscere per nome; essi partecipano senza ostentazioni alla condizione comune, mentre per contro vi sono piccoli gruppi e partiti che per il meccanismo elettorale non potrebbero correre da soli, i quali si rifanno a un acceso militantismo laico, o accelerano su temi immaturi, pur sottoponendosi al vincolo di coalizione. Ciò potrebbe far pensare che in tale schieramento i cristiani non ci siano o non siano interessati a far valere con energia i valori in cui credono. Ma così non è. Vaste aree elettorali e ceti politici che si rifanno alle tradizioni del cattolicesimo democratico e del cattolicesimo sociale sono presenti nel centro-sinistra, sia nei partiti che si definiscono moderati, sia nei Verdi, sia tra i socialisti, sia nelle sinistre che in diversi modi si rifanno alla tradizione comunista, che del resto ha praticato a lungo in Italia il dialogo con i cattolici. La Democrazia Cristiana non c’è non perché sia stata dissolta da “Mani Pulite” ma perché, fallito il tentativo di Buttiglione di impadronirsene, interpretò con rigore la fine dell’unità politica dei cattolici sancita dal Concilio, e volle affermare una discontinuità anche nel nome. Dunque i cristiani ci sono, parte costituente e costitutiva della democrazia italiana, ci sono i cristiani nel centro-sinistra, come sempre ci sono stati nella sinistra.

Che cosa si sceglie. La scelta di schieramento è anche una scelta per Prodi. Si tratta di un investimento su una competenza, su una integrità politica, su un programma, non della fede in un uomo, che non è cosa cristiana. È però l’affidamento a una persona che per storia e identità ha tutti i titoli per governare l’Italia nei prossimi cinque anni. La scelta di Prodi, del resto già esercitata nelle primarie, né ha l’intenzione di accaparrarselo, né ha nulla a che fare con il “culto della personalità”, estraneo alla prassi democratica; però gli dà atto di aver preso le difese della Costituzione repubblicana, ferma restando la quale ci possono poi essere idee diverse sulla futura evoluzione del sistema politico.

La presenza di cristiani nella sinistra e nell’Unione in questa campagna elettorale non ha alcun carattere confessionale, e non ha alcuna pretesa di coinvolgere le autorità della Chiesa, che si vorrebbe anzi salvaguardare dal trovarsi coinvolte in questo scontro. Tale presenza è però fortemente motivata dalla percezione che tra il 9 aprile e il successivo referendum per il mantenimento della Costituzione si decide il destino dell’Italia e il suo ruolo nel mondo, e sono in gioco valori supremi anche per la Chiesa, a cominciare dalla democrazia. Questo aspetto è tenuto in ombra anche dal centro-sinistra, restio ad ammettere il rischio di sistema; sicché nella campagna elettorale ufficiale c’è molto furore polemico, ma non affiora il dramma. Invece, come dice un allarmato Leopoldo Elia, presidente emerito della Corte Costituzionale, nell’introduzione al suo libro “La Costituzione aggredita”, “ha torto chi, pur da cattedre istituzionali autorevoli, invita a non drammatizzare”.

Così stando le cose, la natura del voto non consente di fare scelte determinate su singoli problemi, TAV o PACS che siano. I temi specifici che le autorità religiose hanno agitato più di recente, riguardanti la traduzione legislativa di specifiche istanze etiche, non sono oggetto immediato della attuale contesa elettorale, che propone invece una scelta globale e seccamente alternativa sui fondamenti stessi della convivenza civile e perciò anche religiosa. Essi saranno oggetto con calma di una seria mediazione politica, in cui posizioni diverse potranno incontrarsi, essendoci sempre una soluzione cristiana, nella laicità, che gli uomini di buona volontà possono trovare anche sulle questioni più spinose e controverse.

Da che cosa vi riconosceranno. Certo, sia su questi temi specifici che nelle scelte di sistema, i cristiani hanno qualcosa da dire, e proprio come tali, per l’utilità comune. È un peccato, ad esempio, che non ci sia nessuno che dica che la Costituzione ci preme proprio in quanto cristiani, non solo per le ragioni validissime a tutti comuni, ma anche per ragioni più proprie: per esempio per aver posto al fondamento della Repubblica il lavoro, che Gesù ha assunto quando ha preso “la forma del servo”, e quindi ha assunto il lavoro, che era allora l’operazione estenuante ed esclusiva del servo; o per aver stabilito nella coscienza, come ha asserito una famosa sentenza della Corte Costituzionale, la fonte dei diritti fondamentali, e perciò della stessa Repubblica, facendo quindi della coscienza di ogni cittadino il vero luogo dove i desideri di Dio e i diritti posti dall’uomo si incontrano; o per quella centralità del Parlamento che affida l’esercizio della sovranità del popolo non all’azione, alla lotta, al potere, ma alla Parola, e perciò non ammette altro modello di comunicazione pubblica tra gli uomini che il dialogo e quindi la pace; ciò che fa della Costituzione la radice dell’etica civile.

Sarebbe bello queste cose poterle dire anche proprio come cristiani; in ogni caso, se non come cristiani, essi dovrebbero farsi riconoscere come “Galilei”, cioè per l’amore, così come nella sua felice enciclica Benedetto XVI dice che Giuliano l’Apostata lo riconosceva e voleva emularlo nei cristiani, da lui chiamati “Galilei”, pur mentre voleva ristabilire i culti pagani. E dall’enciclica si potrebbe ricavare un altro criterio di identificazione per loro: quello di attribuire allo Stato e alla politica, come unica “origine, scopo e misura” il fare la giustizia, senza la quale uno Stato si riduce a “un grande ladrocinio”; di intendere la giustizia come il garantire a ciascuno la sua parte dei beni della terra; di sapere che nella “nuova situazione” prodotta dall’avvento dell’industria moderna, “il rapporto tra capitale e lavoro è diventato la questione decisiva”; e che se, come è avvenuto, “le strutture di produzione e il capitale” si sono affermati come “il nuovo potere posto nelle mani di pochi”, comportando “per le masse lavoratrici una privazione di diritti contro la quale bisognava ribellarsi”, compito della società nostra, interna e internazionale, è di offrire alla ribellione l’alternativa della politica, della Costituzione e del diritto. Questo sarebbe allora il modo e il luogo in cui i cristiani potrebbero essere riconosciuti.

Riunioni e lettere. Non firmo questa lettera: prima di tutto perché, nell’alleanza cui andrà il mio voto, anch’io, come cristiano, sono anonimo; e in secondo luogo e soprattutto perché questa lettera da chiunque, se condivisa, può essere fatta propria e mandata ad altri, con la propria firma o sotto la propria responsabilità, e da questi ad altri ancora, in una circolazione dal basso, e così passare di sito in sito, di e-mail in e-mail, di rivista in rivista, e magari suscitare riunioni, incontri e dibattiti per discutere queste cose, per far crescere l’informazione e la coscienza collettiva intorno alle grandi questioni in gioco, in tutta la campagna elettorale, e fino al referendum costituzionale. Sarebbe bello, così, che questa lettera anonima fosse la più firmata di tutte, a fare da scintilla che accende tutta la prateria.

Con i più fervidi auguri

Anonimo cristiano

lunedì 6 febbraio 2006

Encicliche copyright

Per pubblicarla dovremmo tagliarla.
Per non tagliarla dovremmo pagarla.
Per tagliarla dovremmo misurarla.
Per misurarla dovremmo giudicarla.

Una fatica che lasciamo ad altri. Le lettere si iniziano, si svolgono e si concludono. E la lettera del successore di Pietro più di altre.

Vi immaginate le prime comunità cristiane che si vedevano arrivare le lettere degli Apostoli o a pezzi e bocconi o intere solo per pochi, quelli in grado di versare sonanti sesterzi? Ve lo immaginate Paolo che predicava le virtù partendo dalla fede e si interrompeva prima di arrivare alla Carità in attesa di altra moneta per continuare?

Le encicliche vanno diffuse integrali, per completezza di informazione, ma soprattutto senza dovere misurare le parole. E invece le parole volano via dalla costrizione a merce. Gli scritti del papa scuotono e riscuotono i primi frutti del decreto vaticano sul copyright.

Lo scorso 24 gennaio è stato reso noto il messaggio di Benedetto XVI per la Giornata mondiale delle comunicazioni. Parlando della degenerazione dei mezzi di comunicazione, il papa scrive: “Queste degenerazioni si verificano quando l'industria dei media diventa fine a se stessa, rivolta unicamente al guadagno, perdendo di vista il senso di responsabilità nel servizio al bene comune”.

Proprio mentre papa Ratzinger diffondeva queste parole, le case editrici Baldini & Castoldi e Piemme hanno ricevuto dalla Libreria Editrice Vaticana - che, in base alle nuove norme vaticane, detiene in esclusiva i diritti d'autore sugli scritti del papa (v. Adista n. 5/06) - due ingiunzioni di pagamento per diverse migliaia di euro per aver pubblicato, senza aver prima stipulato un contratto con la Lev, qualche decina di righe di documenti e omelie di papa Wojtyla e di Benedetto XVI.

A Baldini & Castoldi è stato chiesto il 15% del prezzo di copertina - di cui 15mila euro come anticipo, oltre a 3.500 euro di spese legali - per ogni copia venduta del Dizionario di papa Ratiinger (pp. 130, euro 9,90), una guida al pontificato di Benedetto XVI curata dal vaticanista della “Stampa” Marco Tosatti che, in particolare per la redazione delle voci “abbandonati”, “barca”, “frutto” e “misericordia”, ha utilizzato meno di 50 righe dell'omelia Pro eligendo pontifice (pronunciata in apertura di Conclave dall'ancora card. Joseph Ratzinger) e dell'omelia della prima celebrazione eucaristica presieduta da papa Benedetto XVI. Nella lettera inviata all'editore dall'avvocato Carmine Stingone per conto della Lev si propone, “per puro spirito conciliativo”, di chiudere la questione con una semplice scrittura privata.

Pare però che Baldini & Castoldi non abbia intenzione di pagare, anche perché il libro è uscito qualche giorno prima dell'emanazione del decreto del card. Angelo Sodano (datato 31 maggio 2005) che affida alla Libreria Editrice Vaticana i diritti d'autore del papa. Pagherà invece fino all'ultimo centesimo la casa editrice Piemme che a luglio 2005 ha dato alle stampe un libro del vaticanista del “Giornale”, Andrea Tornielli, I miracoli di Papa Wojtyla (pp. 136, euro 12,90). Per la pubblicazione, in appendice, del cosiddetto “testamento spirituale” di Giovanni Paolo II (che occupa uno spazio di 9 pagine) - peraltro distribuito a suo tempo a tutti i giornalisti direttamente dalla Sala Stampa vaticana, senza alcuna indicazione di copyright -, la Lev ha chiesto 5mila euro.


33199. ROMA-ADISTA

sabato 31 dicembre 2005

Buon 2006

"Buon 2006", e non "Buon Anno"!
Sono 365 giorni unici,
irripetibili.
No!
Non ritorneranno.
Non daranno proroghe alla nostra accidia;
Non faranno sconti alla nostra intraprendenza.
Non ritorneranno ma nemmeno passeranno,
Se aiuteremo il nuovo a crescere;
Se "forzeremo l’aurora a nascere".

............

E non l’anno sarà nuovo!

Nuovo sarà il domani se noi saremo nuovi:
Se avremo nuovi occhi per vedere spazi di libertà creativa là dove le necessità del sistema tolgono anche l’aria del respiro.

Nuovo sarà il domani se noi saremo nuovi:
Se avremo nuovi orecchi per ascoltare l’umana invocazione di aiuto la dove l’irata bestemmia spezza ogni speranza.

Nuovo sarà il domani se noi saremo nuovi:
se sapremo volare alto, nell’orizzonte tinto di sangue muto, sulle orme di Francesco, più che sulle ali del Condor!


Don Aldo Antonelli (http://www.ildialogo.org/editoriali/augurialdo31122005.htm)

lunedì 26 dicembre 2005

Papa di cartone?

<...>

Natale, Papa Benedetto XVI :

"dare coraggio a tutti gli uomini di buona volontà in Iraq, Libano e Terrasanta, dove i segni di speranza, che non mancano, hanno bisogno di essere confermati da azioni ispirate alla giustizia e alla saggezza"

"protezione per tutti coloro che soffrono di tragiche crisi umanitarie, soprattutto nel Darfur, ma anche nel resto dell'Africa"

"favorire la continuazione del dialogo nella penisola coreana, ma anche in altre parti dell'Asia", in modo che dispute pericolose "si risolvano con conclusioni pacifiche", e infine la "speranza che i popoli dell'America Latina possano vivere in pace ed armonia"

"un'umanità unita potrà meglio risolvere i preoccupanti problemi attuali: dalla minaccia del terrorismo, alla proliferazione di armi, alle pandemie alla distruzione ambientale che minaccia il nostro pianeta"

Con un discorso così a me non mi prendono nemmeno a distribuire i volantini per gli Hare Krishna. Quelli per vendere gli incensini e il Balsamo di Tigre, però, non quelli già impegnativi che parlano di fratellanza universale.

<...>

Massimo Mazzucco

da www.luogocomune.net/site/modules/news/article.php?storyid=948&com_id=27556&com_rootid=27539&#comment27556

domenica 11 dicembre 2005

CEI: tempo di censure?

La censura della Conferenza episcopale italiana si abbatte sulla tradizionale marcia pacifista di Capodanno promossa da Pax Christi, insieme alla Caritas italiana e all'Ufficio nazionale per il problemi sociali e il lavoro della stessa Cei. I relatori dell'incontro-dibattito che precederà la marcia vera e propria - quest'anno in programma a Trento -, Arturo Paoli e Antonio Papisca, sono stati bocciati dalla segreteria generale della Cei, da cui dipende l'Ufficio nazionale per il problemi sociali e il lavoro, e sostituiti con nomi di fiducia del vertice della Chiesa italiana, senza nessun tipo di confronto con la Commissione che da mesi lavora alla preparazione della marcia.

L'organizzazione dell'evento, infatti, era stata affidata ad un gruppo di lavoro locale, in cui, oltre all'Ufficio nazionale della Cei per i problemi sociali e il lavoro, erano rappresentati tutti i soggetti promotori (Pax Christi, Caritas diocesana, Commissione Giustizia e pace e Ufficio per l'ecumenismo della Diocesi di Trento, Centro missionario, e alcune associazioni e movimenti laicali trentinI fra cui Acli, Movimento dei Focolari e Agesci), che aveva messo a punto il programma della manifestazione, approvandolo all'unanimità: un incontro-dibattito al palazzetto dello sport di Gardolo e, a seguire, la fiaccolata verso il duomo di Trento. Erano stati individuati anche i relatori: Arturo Paoli, piccolo fratello di Charles de Foucauld per oltre 40 anni missionario in America Latina, e Antonio Papisca, docente di Diritto internazionale all'Università di Padova; e, a coordinare il dibattito, Francesco Comina, giornalista e membro di Pax Christi. Il programma è stato poi inviato a Roma, all'Ufficio nazionale per il problemi sociali e il lavoro della Cei, per l'approvazione definitiva ma è tornato corretto al mittente. I nomi dei relatori erano stati cancellati a penna e sostituiti da altri: mons. Mariano Manzana (trentino, vescovo della diocesi brasiliana di Mossorò) e p. Gabriele Ferrari (già Superiore Generale dei Missionari Saveriani) al posto di Arturo Paoli; il politologo Gianni Bonvicini (trentino, direttore dell'Istituto Affari Internazionali di Roma) al posto di Antonio Papisca; e Umberto Folena, giornalista di "Avvenire", al posto di Francesco Comina.

La Commissione organizzatrice ha chiesto spiegazioni a don Paolo Tarchi, direttore dell'Ufficio nazionale della Cei per i problemi sociali e il lavoro, il quale però non ha fornito alcun chiarimento, rinviando tutto ad un confronto con i quattro vescovi interessati dall'iniziativa: mons. Luigi Bressan, vescovo di Trento, mons. Arrigo Miglio, presidente della Commissione Cei per i problemi sociali e del lavoro, mons. Tommaso Valentinetti, presidente di Pax Christi, e mons. Francesco Montenegro, presidente della Caritas italiana.

"Un confronto che cercheremo", spiega ad Adista Alberto Conci, che partecipa al gruppo organizzatore della marcia in qualità di membro di Pax Christi e della Commissione Giustizia e pace della Diocesi. "Rimane però un grande problema di metodo: qual è il senso del lavoro di una Commissione ecclesiale locale come la nostra se poi arrivano delle direttive dall'alto che non è possibile nemmeno discutere?".

In assenza di spiegazioni si fanno delle ipotesi: "Evidentemente qualcuno ha voluto zittire le voci di chi crede ancora nella Chiesa del sociale", taglia corto Luisa Zanotelli, componente del Movimento per la pace e sorella di p. Alex (L'Adige 26/11). "Forse qualcuno temeva che Papisca avrebbe detto qualcosa contro la guerra, un qualcosa che alla Chiesa ufficiale non piace".

Sembra poi che alla Cei non siano piaciute alcune cose che Arturo Paoli va dicendo da qualche tempo a proposito del papato ("la sede di Pietro è vacante da quando è morto papa Roncalli"; un'affermazione comparsa anche sulle pagine del n. 6 di "Micromega", nel dialogo sulla Chiesa fra quattro "preti di frontiera"). Oppure che la Cei abbia voluto inviare subito un segnale al nuovo coordinatore di Pax Christi (don Fabio Corazzina che da pochi mesi ha sostituito don Tonio Dell'Olio), per fissare dei 'paletti' rispetto all'autonomia del movimento.

Non ci saranno comunque rotture, conferma don Corazzina, che però chiede chiarimenti sul piano del metodo: "una decisione, senza motivazioni, venuta dall'alto, non è giustificabile". "Spero che il popolo dei laici possa essere preso sul serio e spero che i nostri vescovi, in futuro, si esprimeranno in termini comunitari".

Luca Kocci - ADISTA

domenica 27 novembre 2005

Ad Assisi "sacrificavano" anche i polli

Non potevamo mancare di segnalare questa intervista a Vittorio Messori comparsa su La Stampa il 21 novembre 2005.

Le residue certezze legate al "poverello di Assisi" si stanno sgretolando. Francesco pacifista? Animalista? Ecumenico? Tutte balle diffuse da "Una vulgata falsa, che ne svilisce il messaggio". Francesco è "il figlio più autentico della Chiesa delle crociate". (red.)



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“La Chiesa ha la memoria lunga. É dal meeting interreligioso del 1986 che Joseph Ratzinger aveva un conto da saldare con i frati di Assisi. Ora le cose sono a posto”. Vittorio Messori, lo scrittore cattolico italiano più letto nel mondo (unico ad aver scritto un libro con gli ultimi due Papi) svela cosa c'è dietro il “commissariamento” pontificio del Sacro Convento e racconta di quando il futuro Benedetto XVI si indignò per i sacrifici pagani compiuti sull'altare di Santa Chiara, a ridosso della cripta gotica che conserva i resti terreni della fondatrice dell'ordine delle Clarisse.

Sacrifici pagani ad Assisi?
“Ratzinger non ha perdonato alla comunità francescana gli eccessi della prima giornata di preghiera dei leader religiosi con Karol Wojtyla. Una carnevalata, a detta di molti, che forzò la mano al Papa e furono proprio i frati ad andare molto aldilà degli accordi presi. Permisero addirittura agli animisti africani di uccidere due polli sull'altare di Santa Chiara e ai pellerossa americani di danzare in chiesa. Ratzinger aveva fortissime perplessità dall'inizio, non volle andare ad Assisi e le sue riserve limitarono i danni”.

In che modo?
“La notte prima del meeting limò il testo del discorso frenando Giovanni Paolo II. E divenne nitido nella sua mente che l'enclave francescana, sganciata da ogni collegamento con il vescovo di Assisi, era un'anomalia da sanare. Andava limitata e riportata sotto il pieno controllo giuridico della Chiesa. Il conto per quelle basiliche cristiane cedute ai culti pagani è stato saldato 19 anni dopo”.

Troppa autonomia?
“I frati hanno abusato del cosiddetto spirito di Assisi. In realtà loro venerano e diffondono illegittimamente un santino romantico e di derivazione protestante, ossia il San Francesco del mito, uno scemo del villaggio che parla con lupi e uccellini, dà pacche sulle spalle a tutti. Una vulgata falsa, che ne svilisce il messaggio. Il Francesco della storia, infatti, è il figlio più autentico della Chiesa delle crociate”.

Non era pacifista?
“Assolutamente no. Alla quinta crociata, San Francesco partecipò come cappellano delle truppe mica da uomo di pace. Cercò in ogni modo il martirio per riconquistare la Terra Santa e cadde in depressione quando i crociati persero. Dal sultano non ci andò per dialogare ma per convertirlo e lo sfidò a camminare sui carboni ardenti per verificare se fosse più potente Cristo o Maometto. E non era neppure animalista. Nel Cantico delle creature gli animali non sono mai nominati. E poi, ma quale ecologista! Si oppone ai suoi seguaci che volevano diventare comunità vegetariana».

Ora, dunque, il Pontefice vuole ristabilire l'ortodossia?
“Certo. Anche a San Giovanni Rotondo i francescani avevano sfilato il santuario dal controllo della diocesi. Adesso sia lì che ad Assisi le iniziative dei frati andranno concordate con l'episcopato. Ed è un bene anche per il Sacro Convento, così la smetteranno con la demagogia del politicamente e teologicamente corretto. Stop all'artificio di pace, ecologia, ecumenismo e alle velleità pseudo-coraggiose che poi fanno stringere le mani dei dittatori e violare le chiese”.

Il Pontefice “normalizza”?
“Lo spirito di Assisi non è come lo hanno inteso i frati del Sacro Convento e Joseph Ratzinger è pienamente consapevole di questo colossale errore dalla giornata mondiale di preghiera del 1986. Tanto che tre anni fa riuscì ad attenuare la deriva sincretista dell'ultimo meeting interreligioso di Assisi. Il tradimento della figura storica di Francesco andava corretto. Ed è sconcertante che finora il vescovo di Assisi sapesse delle iniziative dei frati solo dai giornali”.

Fine della capitale mondiale dell'ecumenismo?
“I santuari devono coordinarsi con i vescovi. L'intervento di Ratzinger è inappuntabile. Il Pontefice ha seguito il suo stile, agendo in maniera rispettosa, perché non interferisce con la vita dell'ordine religioso, ma decisa, in modo che serva da avvertimento per tutti. Non sono più ammesse realtà ecclesiali sciolte dalle leggi della Chiesa. É scelta che rientra appieno nella strategia pastorale di Benedetto XVI. Toccherà anche ad altri. Nessuno può essere “Iegibus solutus”.

lunedì 21 novembre 2005

Lettera di Alessandro Santoro, prete delle Piagge in Firenze

Caro Spirito Santo, mi rivolgo a te che sei datore di vita e soffio di speranza per l’umanità intera perché tu possa penetrare nelle stanze del potere ecclesiastico per restituire quell’”alito di vita” e di profonda compassione nel cuore di questo nuovo Papa e del suo entourage perché imparino ad ascoltare la tua voce e non continuino, una volta per tutte, a farsi trascinare nei tatticismi e negli intrighi di palazzo e di potere.

Fa che questo Papa sia a piedi scalzi, semplice e umile, che diventi compagno di strada e di vita di chi fa fatica e si sente escluso e oppresso, come del resto ha fatto Gesù che ha scelto la Galilea delle genti, luogo dell’esclusione e della emarginazione per ridare vita al mondo.

Fa che questo Papa abbia il coraggio di incarnarsi nella storia degli altri, che abdichi alla Verità assoluta che schiaccia e uccide e senta il bisogno di incontrare e nutrirsi delle Verità dell’altro. Dio non ha un nome, prende ed assume il nome dei volti e delle storie degli emarginati di questo mondo e nessuno detiene la verità di Dio e può pretendere di possederla.

Fa che questo Papa scenda nei bassifondi della storia, che abbandoni i palazzi del potere, che non viva più in Vaticano, luogo del potere curiale e torni ad essere il pastore di tutti, uomo tra gli uomini senza più nessuna enfasi trionfalistica. Non abbiamo bisogno di un Papa con strutture forti e apparati pesanti, proprie dei sovrani e dei potenti, ma di un Papa che si spogli di tutto quello che lo separa e lo divide dalle persone, che sappia lasciare tutto ciò che lo rende ricco e possa concedersi l’unica ricchezza possibile per chi si fa servo, quella in umanità.
Siamo stanchi dei troppi orpelli, troppi luccichii, troppi ori che appesantiscono la sua casa, ed è arrivata l’ora che il Papa possa prendere le distanze da questo sfarzo senza senso e che impari a vivere nella povertà senza ostentazioni.

Fa che questo Papa sia capace di Vangelo, testimone e profeta di un Vangelo possibile per tutti, che sappia piangere con chi piange, ridere con chi ride, soffrire con chi soffre. Fa che sia intransigente solo nell’amore e continui a gridare forte contro tutte le guerre del mondo e possa aiutarci, e aiutare i grandi della terra, a considerare la guerra, le guerre e la corsa agli armamenti una assurda follia.
Fa che possa far diventare la guerra un tabù inaccettabile e cancelli l’ipocrisia assurda di chi, anche nella nostra Chiesa ritiene ancora plausibile una guerra giusta.

Fa che questo Papa sia capace di perdono, che non abbia paura a riconoscere la violenza e le violenze della nostra religione, che sappia soffiare nella nostre vite e nelle nostre comunità umane uno spirito di tenerezza, perché per tutti, chiunque sia, ci possa essere un pezzo di pane, una carezza, un abbraccio e una vera liberazione.

Fa che questo Papa non ci riempia di encicliche e di documenti, troppe parole hanno inchiostrato la nostra fede, fa che cresca nell’ascolto di quella parola di Dio che è la vita degli uomini e delle donne. L’unica parola possibile da rendere viva e vera nella nostra storia è quella del Vangelo. Rendi questo Papa carico di utopia, capace di vedere oltre e di darci il coraggio di fare un passo più in là, un Papa meno maestro e più fratello, meno grande e più debole, meno forte e più dolce, meno sicuro e più compagno. Gesù sognava e praticava il sogno di Dio, fatto di una politica di giustizia, di una economia di uguaglianza e di un Dio pienamente libero; fà che negli occhi, nelle mani, nel cuore, nella pancia, nei piedi di questo Papa ci possa essere questo stesso sogno necessario perché questo nostro affaticato mondo riabbia la vita e “l’abbia in abbondanza”.

Fa che questo Papa abbia il coraggio di abbandonare i segni del potere e possa ritrovare e concedersi il potere dei segni, perché la nostra Chiesa possa spogliarsi della porpora e rivestirsi del grembiule, possa abbandonare i conservatorismi comodi al potere e recuperare la libertà piena e viva dei figli di Dio.

Fa che questo Papa ridia spazio e attualità alla rivoluzione del Concilio che voleva che le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini e dei poveri diventassero pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce del Vicario di Cristo e delle comunità cristiane. Le grandi aperture e novità del Concilio sono state tradite e burocratizzate, la tensione verso il nuovo si è persa nei meandri delle chiusure, delle prudenze e meschinità curiali.

Fa che questo Papa possa finalmente ridare spazio ad una collegialità vera, ad una chiesa Popolo di Dio, ad una comunione incarnata, ad una conversione senza mezze misure e compromessi. Dagli la forza ed il coraggio di proporre un nuovo concilio dove la Chiesa ripensi se stessa con il contributo vero e profondo di tutti, proprio di tutti.

Fa che questo Papa si apra all’idea di libertà e di responsabilità, che rinneghi una Chiesa moralista e sessuofoba, che possa dare spazio con pari dignità a tutte le relazioni affettive, a quell’amore plurale fatto anche di omossessuali, transessuali, divorziati, separati; è anche attraverso di loro che l’amore di Dio, così grande e universale ritroverà spazio nelle nostre comunità, troppo spesso abituate soltanto a giudicare e a condannare e non ad accogliere e a celebrare la vita.

Fa che questo Papa sappia riconoscere il valore imprescindibile delle donne, perché senza la loro sensibilità, la loro capacità di “precederci” e di amare con tenerezza, la Chiesa rimarrà sempre sterile ed incapace di futuro.

A Te Spirito Santo l’impegno di portare il respiro di tutti i piccoli e i poveri del mondo e soffiare questa brezza leggera dei perdenti e dei vinti nel cuore del Principe della Chiesa perché possa rinunciare ai titoli e alle lusinghe del Potere e possa farsi degno del Vangelo di libertà e di pace del nostro fratello Gesù di Nazaret. Così lo sentiremo compagno e amico in questa avventura che è la vita.

Alessandro Santoro

martedì 15 novembre 2005

SE LO SCETTICO AFFRONTA LA FEDE

Che cos'è un miracolo? L'infrazione di una legge di natura, l'interruzione della regolarità del suo ciclo. Ma siccome noi non conosciamo la natura fino nei suoi recessi più segreti, la credenza nel miracolo è il sostituto della nostra ignoranza. Così parla David Hume, filosofo empirista inglese, in un suo Trattato sui miracoli, scritto nel 1720 e inserito nella decima sezione dei suoi Saggi filosofici del 1743, dove si riassume il Trattato sulla natura umana (1740), al cui interno il trattato sui miracoli non compariva.

L'inserzione  ha quindi un carattere provocatorio e consapevolmente scandalistico per smobilitare un pezzo forte della credenza umana, sempre disposta a dar credito allo "straordinario" per il piacere istintivo che l'animo umano prova di fronte all'insolito.

Il filosofo illuminista, nella sua argomentazione, utilizza uno dei temi generali della sua filosofia secondo cui la fede, per sua natura, non poggia sulla ragione, perché io non credo in ciò che so. Non credo che due più due faccia quattro perchè lo so. E intorno a ciò che so non c'è bisogno di fede. La fede, infatti, è un assenso della volontà (e non dell'intelletto) su un dato di fatto, ma siccome i dati di fatto sono contingenti e non necessari come la verità di ragione, l'assenso che ad essi si concede è assolutamente gratuito.

Così argomentando, lo scettico Hume, per quelle strane vertigini a cui ci abitua il pensiero, finisce col sostenere a sua insaputa quanto già sostenevano Paolo di Tarso e Tommaso d'Acquino quando dicevano che la fede è promossa non dall'evidenza del contenuto  (ut ad proprium terminum) ma dalla volontà /ex voluntate) perchè, a differenza del sapere, la fede imprigiona l'intelletto conducendolo "in captivitatem", per cui, di fronte alla fede, l'intelletto è inquieto (nondum quietatus), in una condizione di timore e infermità (in infirmitate et timore et remore multo).

Questa affinità di argomentazione con i padri antichi medievali della dottrina cristiana, se poteva sfuggire a Hume, non sfugge al vescovo di Salisbury John Douglas che, in una lunga lettera aperta indirizzata ad Adam Smith dal titolo Criterion dedica una sezione ai miracoli, distinguendo quelli riferiti dal Vangelo a cui bisogna dare la massima credibilità e quelli a cui il popolo di tanto in tanto presta fede. Questo secondo tipo di miracolo, scrive Douglas: “Sono opera della natura, scambiati per prodigi dall’ignoranza, dalla suggestione del popolo e dalla macchinazione perversa di qualche furbo.”

Il riferimento del vescovo di Salisbury è ai miracoli attribuiti post mortem all’Abbè de Paris, santo giansenista in odore di eresia, la cui devozione era osteggiata dalle chiese sia cattolica sia protestante. Ma quel che qui interessa è che, nel confutare la fede popolare nei miracoli, John Douglas utilizza gli stessi argomenti adottati da Hume contro la fede in generale, rivelando una curiosa contaminazione con lo spirito illuminista che vedeva nel progresso delle scienze l’erosione della fede.

E come Hume utilizza, non sappiamo con quanta consapevolezza, argomenti cristiani contro la fede, così Douglas utilizza, lui sì consapevolmente, argomenti scettico-illuministici contro la fede popolare. Dal punto di vista della ragione Hume ha tutte le ragioni, mentre dal punto di vista della fede il vescovo di Salisbury avrebbe potuto risolvere la questione rifacendosi al quel passo del Vangelo dove Cristo, senza esitazione, dice: “Voi credete perché vedete, ma beati saranno coloro che crederanno senza vedere”. Tra fede e ragione, infatti, non c’è concomitanza e tanto meno subordinazione perché, come ci ricorda Hume, la fede affonda le sue radici nella dimensione irrazionale, di cui l’uomo si alimenta quando la ragione non offre sufficienti ancoraggi.

Umberto Galimberti
 

sabato 12 novembre 2005

Malattia planetaria

I gravissimi disordini che stanno sconvolgendo la Francia, la loro ampiezza, il loro carattere epidemico, impongono una riflessione che vada al di là delle facili ricette politiche legate all’immediatezza delle cronache. Io vi vedo i sintomi di una malattia planetaria. Il fatto che si manifestino con tanta virulenza nella civilissima Francia, e che abbiano anzi preso le mosse da quei «cento ettari» su cui più si è pensato nella storia dell'individuo occidentale, non deve farci perdere di vista il quadro complessivo in cui essi si iscrivono.

Se infatti si alza lo sguardo all’orizzonte, si scoprirà che ondate di instabilità si stanno muovendo simultaneamente in molte altre zone del mondo. Le radici del problema, io credo, non sono da ricercare tanto - o soltanto - negli errori commessi dai Paesi sviluppati nella gestione delle politiche migratorie, per meglio dire delle ondate di immigrati che li stanno investendo, quanto piuttosto nella vertiginosa crescita della disuguaglianza globale che si è verificata, e incessantemente è cresciuta, negli ultimi venticinque anni. L’ultima generazione è cresciuta in questa disuguaglianza crescente e i leader dei Paesi ricchi si sono illusi che milioni e miliardi si sarebbero adattati a questa situazione. Ora cominciamo a vedere che la crescita smodata della ricchezza di pochi non è più accettata da masse crescenti di poveri, ovvero di coloro che finiscono di sentirsi poveri (anche se con i metri del passato non lo sarebbero) di fronte all’ostentazione della ricchezza dei ricchi, che viene percepita come un’offesa.
Non è un caso che vengano dati alle fiamme i simboli della civiltà dei consumi e che, nello stesso tempo, la lotta politica e sindacale, che in altri tempi erano la norma, siano state scavalcate dall’esercizio di una violenza che non ha apparentemente obiettivi se non quello della distruzione.

Diamo un’occhiata a come è finito il recente summit pan-latino americano: un clamoroso fallimento dopo la constatazione di contraddizioni insanabili che hanno costretto il presidente degli Stati Uniti, George Bush, ad abbandonare la riunione senza avere ottenuto nulla, accompagnato dal conclamato dissenso dei dirigenti di Brasile, Argentina e Venezuela, cioè dei tre maggiori Paesi del continente latino americano. In questo caso il contrasto tra ricchi e poveri si è manifestato non nella forma di guerriglia urbana, ma in una rottura politica che non ha precedenti nella storia dei rapporti inter-americani.
E stiamo parlando, comunque, sempre del mondo occidentale, dove in apparenza sembrano essere in vigore gli stessi principi. Ma se spingiamo lo sguardo ancora un po’ oltre, non facciamo fatica a vedere un’area dove vivono oltre un miliardo d’individui che si sentono - così per lo meno a loro sembra - relegati ai margini del processo storico, respinti, umiliati, offesi. Sto parlando dei Paesi islamici, ovviamente. Che, per giunta, sono gli eredi di coloro che per 1500 anni esercitarono un’enorme influenza sul corso degli eventi mondiali e sulla cultura di tutte le civiltà vicine, inclusa quella europea.

Ho l’impressione che ciò che sta accadendo in Francia potrebbe ripetersi e moltiplicarsi in tutta Europa. A ben vedere, sebbene io mi auguri che ciò non accada, ve ne sono tutte le condizioni. In primo luogo, evidentemente, questi sono i frutti amari di una grave deficienza delle politiche di accoglimento migratorio che seguirono la fine del sistema coloniale. La Francia, che pure aveva accumulato una vasta esperienza dopo la tragedia della guerra algerina, sembrava aver realizzato un modello d’integrazione adeguato e funzionante. Adesso vediamo che le cose non stavano esattamente così e che la condizione sociale delle masse di immigrati era rimasta molto indietro sia rispetto alle condizioni dei cittadini di prima classe, sia rispetto alle aspettative maturate tra i cittadini di seconda classe. Il problema della giustizia e dell'uguaglianza è infine esploso come una bomba a scoppio ritardato.

Ma, come ho detto all’inizio, questo aspetto del problema è solo una parte e non la maggiore. Il fatto è che il «libero flusso dei capitali», che ha aperto e inaugurato l’era globale, non poteva non produrre alla lunga anche un immenso flusso di uomini e donne. Assai meno «libero», assai più obbligato, tragico, senza freni. E i nuovi arrivati sono diversi dai vecchi: conoscono - perché lo vedono in televisione - tutto ciò che viene reclamizzato come ottenibile, a portata di mano, ma sperimentano di non poterlo ottenere né adesso né mai. In questo assai simili a coloro che, nei Paesi ricchi, erano un tempo cittadini di prima classe e che stanno perdendo la loro cittadinanza tra i ricchi (o la speranza di ottenerla, prima o dopo). Lo prova il fatto che, nei disordini, si trovano implicati migliaia di giovani francesi, quelli di pelle bianca intendo dire.

E vorrei dire qualcosa anche sulla Russia. Io credo che la Russia non sia minacciata da una guerra con il mondo islamico. La Russia è da secoli un mondo di mondi, di popoli e di culture. Eppure i dirigenti politici russi non possono sfuggire, neppure loro, alla lezione dei tempi. Anche da noi si sta verificando una tensione crescente, che si manifesta in forme di disprezzo verso altre nazionalità. Sarebbe un errore sottovalutarle. Anche perché, in Russia come altrove, si troveranno assai rapidamente, quando non si siano già trovati, speculatori irresponsabili che vorranno usare queste tensioni a proprio vantaggio.

Mikhail Gorbaciov, La Stampa, 11 Novembre 2005

domenica 6 novembre 2005

Dr. Sergio e Mr. Cofferati

Il problema non è di stabilire se la legalità è un valore di destra o di sinistra, e nemmeno quello di schierarsi pro o contro Cofferati, ma di vedere che tipo di problemi sollevano le ordinanze del sindaco di Bologna alle nostre coscienze beate, use ad assopirsi nelle visioni del mondo che le ideologie offrono con generosità, impedendoci di vedere come è davvero il mondo, come cambia, e che posizione dobbiamo assumere di fronte ai suoi radicali mutamenti.

Una prima contraddizione in cui tutti ci veniamo a trovare, e che le ordinanze di Cofferati evidenziano, è quella tra "il mondo della vita" e "il mondo della legge". Tutti stiamo dalla parte del mondo della vita perché è bello, perché a regolarlo è l'anarchia del desiderio che conosce solo il principio del piacere, dove basta desiderare per avere. Memoria infantile. Fissazione a un'età da cui, se non ci fossimo evoluti, non saremmo divenuti adulti.

È bello bere tutti insieme la birra in piazza facendo tutto il rumore che ci piace, lasciando le lattine e quant'altro sul selciato. È bello. Non si può negare. Così come non si può negare che è bello e anche facile occupare una casa abusiva semplicemente perché se ne ha bisogno, trascurando in pari tempo chi, come noi, ne ha altrettanto bisogno, ma non ne ha la forza. È bello vivere tutti assieme tra occupanti, tra gente che si sente dalla stessa parte, come i bambini quando fanno banda o gruppo. È bello. Ma non è adulto.

Il mondo della vita ti porta anche gli immigrati in casa. E siccome gli immigrati valgono meno della merce che producono e comunque hanno minor possibilità di circolazione di quanta non ne abbiano i beni da loro prodotti, con loro si può fare ciò che si vuole. Li si può impiegare regolarmente, oppure in nero, li si può cooptare nelle forme del caporalato che li assolda a giornata, oppure per altri mestieri che vanno racket allo spaccio. Il mondo della vita è che questo ed è per vivere che gli immigrati si adattano a questo. Dietro le loro facce che sembrano icone della sofferenza, c'è chi nell'illegalità li usa per fare gli affari suoi, sporchi o puliti che siano.

Il mondo della vita è variopinto e ricco ospita tutte le forme dell'esistenza che riescono a trovare espressione, ma senza regole è possibile la loro convivenza? Non dimentichiamo che la regola è l'unico argine al sopruso, che tale rimane anche quando si presenta sotto le forme del bisogno, della necessità, o addirittura della carità. Anche la mafia, fuori dalla legalità, dà lavoro ai figli della sua terra, viene incontro al bisogno, alla necessità, e se volete anche alla carità.

Oltre alla contraddizione tra il mondo della vita e il mondo della legge, le ordinanze di Cofferati mettono opportunamente in luce la stridente contraddizione, che la nostra assopita coscienza fatica ad avvertire, tra il "mondo delle idee" e le nostre "pratiche di vita". Davvero riusciamo a sopportare tutto quello che le nostre idee predicano? La loro predica la conosciamo: dobbiamo assistere con piacere ai giovani che bevono la birra in piazza fino a tarda ora perché è segno di socializzazione, dobbiamo capire quelli che occupano la case perché gli affitti sono troppo elevati, dobbiamo accogliere gli immigrati, trovar loro un lavoro e una sistemazione, e tollerare che nel frattempo ci lavino i vetri puliti delle nostre automobili per consentir loro di sbarcare il lunario.

Tutto giusto, tutto bello, tutto vero. Ma ce la facciamo? Davvero le nostre forze di sopportazione sono all'altezza delle nostre idee, o abbiamo posto l'asticella delle nostre idee troppo in alto per sentirci nobili, elevati e soprattutto giusti, ma assolutamente inadeguati per quanto riguarda i margini di tolleranza che la nostra vita vissuta ci concede? Certo è bello sentir parlare per strada l'arabo, il cinese, il bengalese, mescolati al bolognese, come si mescolano i colori differenti della pelle e degli occhi che si incrociano. Si ha la sensazione tangibile di essere entrati davvero nella modernità, nella società complessa, nella globalizzazione che non è solo Internet o movimento di capitali, ma incrocio di lingue, mescolanze di odori, facce diverse da quelle patinate della pubblicità.

Ma poi quando ci capita di storcere il naso perché nauseati dall'aroma che proviene dal ristorante cinese sotto casa, quando esitiamo a salire in ascensore con due nigeriani per altro gentili, quando imprechiamo per la scarsa igiene e il degrado delle nostre vie lastricate di lattine di birra e mozziconi di sigarette con espressioni più vicine al razzismo che al semplice disagio, non ci viene il sospetto che le nostre idee siano troppo accoglienti e filantropiche rispetto alla nostra capacità di sopportazione, quasi che il nostro corpo si rifiutasse alla generosità delle nostre idee?

Non abbiamo alle volte concepito idee troppo grandi rispetto alle nostre capacità? E queste idee non ci piombano addosso per sconfiggerci intimamente? Non è meglio che un po' di legalità abbassi l'asticella dove abbiamo collocato le nostre idee filantropiche per renderle compatibili col grado di tolleranza di cui siamo di fatto capaci, ma non oltre?

Le ordinanze di Cofferati hanno dunque messo in evidenza due contraddizioni rimosse dalle nostre coscienze beate e assopite, due limiti che il mondo della legge pone opportunamente al mondo della vita per renderla praticabile, e che le pratiche di vita pongono al mondo delle nostre idee che sono tanto più filantropiche e generose quanto più siamo certi che nessuno ce ne chiede l'attuazione. Ma c'è un terzo elemento che non è una contraddizione, ma un rischio da cui le ordinanze di Cofferati tentano di metterci al riparo: il rischio della "deterritorializzazione" come risvolto negativo della globalizzazione.

Per deterritorializzazione intendo quel processo (accompagnato dalla percezione diffusa che siamo solo all'inizio) che traduce le grandi città in agglomerati di sconosciuti, senza più quel tessuto sociale che creava quel rapporto fiduciario tra gli abitanti del territorio i quali, se anche non si conoscevano, sapevano di sottostare a quella legge non scritta che era l'uso e il costume degli abitanti di quella città. Già da vent'anni i demografi che, al pari dei geologi nessuno ascolta perché gli uni e gli altri parlano di tempi che non sono l'oggi e il domani, avevano annunciato che nel 2030 i quattro quinti dell'umanità si sarebbero raccolti in 30 città. E questo cosa significa? Significa che le città avrebbero perso i loro connotati e sarebbero diventate pure estensioni di uomini, concentrati l'uno a fianco dell'altro, con l'unico vincolo che è il procacciamento del denaro. Non più un denaro prodotto dalle arti e dai mestieri del territorio, ma un denaro da tutto sradicato, che ha nei confini del territorio il suo maggior ostacolo.

Già oggi merci e denaro percorrono le vie del mondo più liberi dell'uomo, e rispetto a loro l'uomo trova il proprio riconoscimento solo come funzionario delle merci e funzionario del denaro. Funzionari legali come tutti quelli che vanno in fabbrica o in ufficio, funzionari illegali come quelli che, ai bordi della città, premono con le loro pratiche di capitalizzazione selvaggia che da sempre sono la prostituzione, l'usura, il commercio della droga e delle armi.

Ma quando il denaro legale o illegale che sia, diventa l'unico vincolo di convivenza di quegli agglomerati di varia umanità che, senza più usi, costumi e tradizioni comuni, solo per pigrizia mentale continuiamo a chiamare "città", allora è prevedibile che il tessuto di convivenza si dissolva e l'azione criminale, se non gesto quotidiano, rischia di diventare gesto frequente.

Forse le ordinanze di Cofferati tentano un'estrema difesa del territorio con la specificità dei suoi usi, costumi e rapporti fiduciari, contro il processo di deterritorializzazione che diventa irreversibile quando il denaro, e solo il denaro, assurge a unico generatore simbolico di comportamenti, mentalità, relazione fra gli uomini. E tutto ciò nel tentativo, non si sa quanto utopico o realistico, di consentire a chi viene dopo di noi di riconoscersi ancora nella specificità di una città, e non nell'anonimato di un amorfo agglomerato umano, dove non solo gli immigrati, ma gli stessi abitanti della città faticheranno a reperire la loro identità e la loro appartenenza.


Umberto Galimberti

Salute!

Quindici milioni di persone muoiono ogni anno a causa di malattie infettive. Il 97% dei decessi avviene nei Paesi in Via di Sviluppo. La maggior parte di queste morti sono morti evitabili.

Polmonite, tubercolosi, malaria, diarrea e HIV/AIDS sono le malattie infettive responsabili della metà dei decessi . L'AIDS è la prima causa di morte nei paesi dell'Africa sub-sahariana.

Secondo l'OMS ( World Health Report 2004 ), queste sono le cifre di mortalità per le principali malattie infettive:
infezioni respiratorie: 4 milioni di morti;
AIDS/HIV: 2,8 milioni;
diarrea: 1,8 milioni;
tubercolosi: 1,6 milioni;
malaria: 1,3 milioni;
malattie infantili prevenibili: 1,1 milioni
meningite: 173.000;
leishmaniosi: 51.000
tripanosomiasi (malattia del sonno): 48.000.

Le morti materne (correlate alla gravidanza o al parto) sono ancora 510.000 all'anno ( World Health Report 2004 ).

Nel Sud del mondo e nei paesi in transizione dell'Est europeo ci sono circa due miliardi di persone che non hanno accesso alle cure adatte.

I Paesi a reddito più basso portano il peso dell'85% del carico globale di malattie, ma ancora incidono solo per l'11% della spesa sanitaria globale (fonte : World Bank Development Indicators 2002-publications.worldbank.org/WDI)


Le malattie infettive sono responsabili di più dei 2/3 dei decessi nella fascia sub-sahariana del continente africano.
A causa della non potabilità dell'acqua che consumano, circa 2 miliardi di individui ogni anno sono colpiti da diverse malattie e conseguentemente ogni anno muoiono più di 2 milioni di donne, di uomini e di bambini (fonte: Documento conclusivo del secondo Forum Mondiale dell'Acqua-2005)


Su 1.233 farmaci immessi sul mercato negli ultimi 25 anni del secolo scorso, solo 13 hanno un'indicazione specifica per le malattie tropicali (fonte : Trouiller et al., Lancet 2002, 359). La situazione resta tragicamente invariata
Malattie considerate scomparse stanno ricomparendo e diffondendo in forme molto pericolose, perché resistenti ai trattamenti standard (farmaco-resistenza): i farmaci conosciuti non sono più completamente efficaci.


Il 90% degli investimenti per la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci è destinato a problemi sanitari che riguardano il 10% della popolazione mondiale ( fonte : “ 10/90 Report on Health Research 2003-2004” – Global Forum for Health Research 2004)
Solo lo 0,2% degli investimenti per la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci riguarda polmonite, diarrea e tubercolosi, che causano il 18% delle morti nel mondo.
I costi stimati per il 2005 per le attività di cura, prevenzione e riduzione del danno sociale da infezione da HIV/AIDS nei Paesi a basse risorse finanziarie ammontano a 11,5 miliardi di dollari ( fonte : “The Macroeconomics of HIV/AIDS”, pag. 211-212, International Monetary Fund, 2004)
I costi stimati per conseguire gli obiettivi internazionali di lotta alla malaria ammontano a 3,2 miliardi di dollari all'anno, di cui il 36% per i farmaci efficaci e il 17% per test diagnostici rapidi ( fonte “World Malaria Report 2005”, section III, Roll Back Malaria-WHO/Unicef, 2005)


da http://www.msf.it/cosafacciamo/accesso/situazione.shtml

domenica 9 ottobre 2005

Vescovi e Fede

Intervista a don Franco Barbero

Mi sembra che la gerarchia cattolica stia entrando in campo in maniera sempre più diretta e pesante, proprio in Italia in modo particolare. Come vede questo interventismo?

Taluni sottolineano giustamente i toni da crociata di Ruini, Ratzinger, Sodano e altri gerarchi. Forse occorre portare la nostra attenzione sulla vastità dell’operazione: dalla scuola alla sanità, dalla cultura ai diritti civili, dalla legge sugli oratori fino alla statalizzazione degli insegnanti di religione, dalla difesa di Fazio fino all’alleanza con gli “atei devoti” non c’è ambito della politica che non registri una diretta iniziativa della Conferenza episcopale italiana. Essa, per giunta, trova spazi enormi nelle televisioni e pronto ascolto nel governo.

Lei, don Barbero, alcuni mesi fa parlava di una chiesa che ormai è prevalentemente una organizzazione politica, solidamente alleata con le culture e i progetti dei governi più reazionari. Conferma?

E chi non lo vede? Non si tratta semplicemente di un’onda conservatrice. Qui ci troviamo a fare i conti con una svolta reazionaria. La Conferenza dei vescovi è governata da un monarca che prende ordini direttamente dal papa. E’ la centralizzazione assoluta che vede i vescovi obbedienti come agnellini e li riduce a semplici comparse, a caporali di giornata.

E, secondo lei, ci sono figure emergenti che formano il “coro vaticano” di cui Ruini e Ratzinger si fidano ciecamente?

Tra tutti si distinguono per assoluta fedeltà ai dicktat vaticani tre vescovi: Fisichella, Caffarra, Bruno Forte. Faranno una carriera folgorante.

Come vede la partita sul terreno politico?

E’ evidente che i movimenti, i partiti e le forze sociali attive si trovano di fronte ad un compito prioritario. Programmare l’uscita dal pantano e progettare una politica “laica” liberandosi di Berlusconi e gettando alle spalle la soggezione al potere ecclesiastico. Certo le difficoltà sono reali anche per la presenza di monsignor Rutelli, un autentico cardinale vaticano imprestato (volevo dire infiltrato) alla politica. Una presenza ingombrante che non conosce che cos’è la laicità dello Stato.

Ma siamo proprio destinati in Italia a vivere nella soggezione al potere religioso cattolico?

E’ la mancanza di lungimiranza e di intelligenza di troppi nostri politici. La Spagna era un paese dove i legami tra Stato e Chiesa cattolica erano fortissimi. Il governo Zapatero ha messo in campo una cultura laica che, coerentemente tradotta in politica, oggi ha ottenuto anche l’appoggio di una parte del mondo cattolico.

Ci sono altre cose che Lei ritiene più gravi in questo periodo all’interno della chiesa?

Mi sto domandando come mai i tanti e celebri preti impegnati nel sociale, tanto legati al pacifismo e al terzomondismo, su questi temi siano così silenziosi. E’ per scontata e non mi turba la “canzone” di Ratzinger e Ruini. Mi turba, invece, il silenzio di chi, su questi temi così impegnativi, che riguardano milioni di persone, non nutre la stessa passione e non sente lo stesso bisogno di parlare chiaro. Per me “lottare contro l’impero” è un impegno che parte dal luogo in cui mi trovo e poi s’allarga all’Africa, all’India, al Centroamerica. Altrimenti debbo continuare a constatare che può diventare più comodo occuparsi del “disagio” dei poveri lontani che degli emarginati e scomunicati vicini. Fuori casa si diventa degli eroi. Mi sembra che prima di tutto bisogna giocare la partita in casa propria, prendendo posizioni che siano leggibili, comprensibili, chiare. Questa è la mia opinione. Non servono i dissensi di corridoio o di sacrestia. Occorre uscire allo scoperto per una cultura e una politica veramente laiche.

E allora?

Allora nutro tanta fiducia nell’azione di chi lotta per dare gambe ai diritti, per sostenerli e “legittimarli”, sia con il dibattito nella società civile, sia con il lavoro parlamentare. E poi tanta fiducia nel lavoro quotidiano contro il pregiudizio, l’intolleranza, la manipolazione delle coscienze. Ogni piccola voce può arricchire il dialogo. Vedo con gioioso stupore che il nostro sito www.viottoli.it è frequentatissimo: non avrei mai creduto che esistessero tante migliaia di persone che hanno il desiderio di cercare, di confrontarsi, di non allinearsi al potere... Questa è speranza vissuta nell’oggi. Se ci mettiamo tutto il nostro cuore e se affidiamo tutto alle mani di Dio, anche una piccola voce serve alla causa della liberazione.

Sul piano della fede, come legge l’attuale panorama?

Contro tanti scoraggiamenti e tante “lamentazioni” io continuo a pensare che l’attuale dirigenza vaticana, proprio per la sua estraneità ad ogni pratica di libertà, offre l’opportunità di creare nuovi spazi di fede fuori, assolutamente fuori, dall’obbedienza “canonica”. Voglio chiarire: non fuori dalla chiesa, ma fuori dal recinto imprigionante gestito dalla gerarchia. Chi vuole stare in questa chiesa “asilo infantile”, caserma, istituzione per chi ha bisogno di obbedire per stare bene, faccia pure. Ma oggi è finalmente possibile leggere la Bibbia, celebrare i sacramenti, sentirsi chiesa senza svendere la libertà interiore, senza allinearsi ai voleri vaticani. E’ davvero fondamentale questa svolta nella nostra concezione dell’esperienza cristiana. Non è l’ora di andarsene: è l’ora di restare, di gettare semi, di alimentare il dibattito, con tanta gioia, tanta fiducia in Dio, negli uomini e nelle donne. Studiando, pregando, sorridendo.

lunedì 3 ottobre 2005

quattro ottobre duemilacinque

Se il tempo è il pulviscolo sperimentabile dell'eternità, i 780 anni che ci separano dalla morte di Francesco d'Assisi non sono un segmento apprezzabile della storia umana.

Gli schiamazzi dei garibaldini e l'oratoria metallica dei rivoluzionari dell'89 sono ancora udibili dietro l'angolo della storia europea.

Poco più in là, è percepibile il plumbeo respiro del contadino dell'Ancien régime e persino il nitrito dei cavalli dei capitani di ventura. Ma è sufficiente raccordare la mano all'orecchio per distinguere, tra le urla religiose dei crociati, il Cantico delle creature del povero cristiano Francesco.

Se è vero che l'umanità ha bisogno di una storia monumentale, perché - come afferma Nietzsche - ciò che un giorno fu capace di dilatare la nozione di uomo e di realizzarla con maggior bellezza, deve esistere in eterno, allora Francesco d'Assisi appartiene alla piccola famiglia di quei giganti che si chiamano l'un l'altro a dialogo, attraverso le desolate distanze delle ère.

Egli, tuttavia, non resta incorruttibile come un satiro di fronte alle civiltà che passano; ma pur camminando scalzo ripropone agli uomini fratelli un discorso sulla totalità dell'essere, senza mai proclamare l'innocenza del divenire.

Francesco, infatti, non divinizza ogni cosa esistente, ma si sforza di portare ogni essere esistente - e primo fra tutti, l'uomo - alla sua perfezione divina.

La storia, perciò, non ha bisogno di lottare contro il tempo per richiamarlo in vita o per schierarlo di nuovo in battaglia. Chi parla dell'essere e lo attesta non ha neanche bisogno, per nobilitare se stesso, di operare per la comunità; né ha bisogno di intermediario alcuno per diventare illustre e memorabile.

Chi parla dell'essere e lo attesta risulta vivo e presente in sé e per sé, né mai conosce la mestizia del tramonto. (a.b.)

mercoledì 21 settembre 2005

Proposta libraria

E se Dio rifiuta la "religione"? Un interrogativo provocatorio, che, in un certo senso, sembrerebbe essere stato posto dallo stesso Gesù di Nazareth alla sua gente, guardando la realtà del Tempio, dei riti, dei divieti. Una religione che adora un Dio irraggiungibile che punisce, scomunica e non tollera. Un religione che però Dio rifiuta. Una domanda intrigante, alla quale i contributi raccolti nel volume cercano una risposta attraverso un confronto tra esponenti ed esperti delle tre religioni monoteistiche (cristianesimo, islam ed ebraismo) e del buddhismo. Un tema che viene qui sviluppato su più piani: biblico, teologico, pastorale e della fenomenologia delle religioni.

http://www.internetbookshop.it/ser/serdsp.asp?shop=1090&c=YUB6T3T4FFYMJ

lunedì 19 settembre 2005

Ovazione accoglie il discorso alle N.U. del presidente venezuelano Chavez

Mentre il discorso del "nostro" primo ministro all'ONU, fatto di solite melense menzogne, ha suscitato un tiepidissimo applauso di rito, ben diversa la sorte toccata al primo ministro venezuelano Chavez, accolto con un vero e proprio boato (quasi i 90 minuti di applausi fantozziani!!).

In breve Chavez ha ricordato che oggi sappiamo che non c'erano armi di distruzione di massa in Iraq, ma nonostante questo il Paese è stato bombardato e occupato contro il parere espresso dall'ONU, organismo diventato oggi completamente inutile e che ha bisogno non di riforme, ma di profondi cambiamenti.

Bisogna uscire dalla dittatura di Washington e la sede non dovrebbe più essere a New York. Sono gli Stati Uniti, con il loro atteggiamento e la guerra preventiva ad aizzare il terrorismo, ricordando inoltre l'episodio di un noto evangelista, sostenitore di Bush, che durante la sua trasmissione televisiva ha invitato i servizi segreti americani ad ucciderlo, chiaro esempio di crimine internazionale.

Aumento del numero delle Nazioni nel consiglio di sicurezza, rafforzamento del ruolo del segretario generale, eliminazione del diritto di veto alle cinque nazioni che lo posseggono... questi le principali modifiche che devono essere fatte, invece del progetto di riforma imposto, che se verrà accettato "siamo tutti perduti, spegniamo la luce, chiudiamo le porte e andiamocene..."

sabato 17 settembre 2005

LA FAMIGLIA È UN'ALTRA COSA

ALLE UNIONI DI FATTO È GIUSTO DARE RICONOSCIMENTO R1CONOSCIMENTO GIURIDICO. PAROLA DI MONS. CHIARINELLI

Solo per citare i casi più recenti, c'è la durissima lettera del vescovo di Pistoia, mons. Simone Scatizzi, al Consiglio comunale della sua città contro le unioni gay (v. Adista n. 57/05), ma anche le parole del vescovo di Isernia, mons. Andrea Gemma, che ha accostato gli omosessuali ai ladri, e le dichiarazioni del card. Ruini che ha sostenuto (v. Adista n. 49/05) che criterio fondamentale della dignità della persona umana è il matrimonio uomo-donna. Il riaccendersi del dibattito intorno ai Pacs, dopo che a luglio 45 parlamentari dell'Unione hanno depositato al Senato un disegno di legge in materia (su cui pare convergere quasi tutto il centro sinistra e parte del centrodestra), ripropone anche all'interno del mondo ecclesiale la questione di una qualche forma di riconoscimento delle unioni tra omosessuali. All'interno della gerarchia cattolica si registrano però reazioni di estrema chiusura e durezza.

Tra esse, proprio quella di mons. Scatizzi, con i luoghi comuni, le sciocchezze e le falsità che la infarciscono, è sembrata a Gianni Geraci, portavoce del Coordinamento Gruppi di Omosessuali Cristiani in Italia, un esempio illuminante delle conseguenze negative a cui porta l'atteggiamento di presuntuosa ignoranza con cui molti vescovi cattolici continuano a trat¬tare l'omosessualità. Negli anni scorsi - racconta Geraci in una nota della fine di luglio - sono state più di una le lettere che abbiamo mandato ai vescovi per chiedere loro di incontrarci e di aprire un canale di comunicazione che li aiutasse a capire cosa è veramente l'omosessualità. Purtroppo - ammette - i segnali di risposta sono stati troppo timidi.

Un passo avanti, rispetto allo scenario tracciato da Geraci, potrebbe essere rappresentato da una lettera alla diocesi scritta alla fine del mese di luglio da mons. Lorenzo Chiarinelli, vescovo di Viterbo e fino al maggio scorso presidente della Commissione CEI per la Dottrina della Fede. Certo, nessuna apertura al matrimonio gay, ma sul riconoscimento giuridico delle unioni di fatto il vescovo di Viterbo, nel suo documento intitolato Quale famiglia, sembra lasciare aperto qualche spiraglio.

Nel testo, Chiarinelli precisa che l'art. 29 della Costituzione e il suo dettame non può essere equivocato, anche se spesso per motivare certe 'aperture' o 'aggiornamenti' vengono avanzate le 'ragioni sociali'; occorre, si dice, venire incontro a ogni tipo di convivenza, per non fare discriminazioni, per rimuovere gli ostacoli di tutti i cittadini. Su questo punto - spiega - bisogna intendersi con chiarezza estrema e distinguere tra persona e famiglia. La persona è soggetto unico, irripetibile, connotato da uguaglianza senza eccezioni, con diritti irrinunciabili, non passibili di alcuna discriminazione. La famiglia, invece, non è una semplice somma di persone; perciò non si può confondere o barattare il doveroso sostegno, senza discriminazioni, dovuto alle persone, a tutte le persone, con il sostegno dovuto alle famiglie. Il fatto che le persone stiano assieme non produce di per sé una realtà qualitativamente nuova quale è la famiglia.

Ciò detto, Chiarinelli afferma però che le 'unioni di fatto', con il loro definirsi 'di fatto', intendono dire alla collettività che non sono una 'qualità nuova'. Cioè che tra lo stare assieme comunque e lo stare assieme con vincolo matrimoniale c'è un salto di qualità, civile e sociale. Poiché le unioni di fatto questo salto, per definizione, non lo compiono, ma si tratta pur sempre di persone che stanno insieme, i cui diritti vanno riconosciuti e garantiti, è dentro questa linea, contenuta nella Costituzione, che vanno collocate e normate le questioni concernenti le cosiddette nuove forme di convivenza, etero o omosessuali. Insomma, oltre ad una chiara condanna di ogni forma di discriminazione, Chiarinelli si spinge a ipotizzare che, purché non si confondano le unioni di fatto, omo ed eterosessuali che siano, con la famiglia, che è 'realtà altra' socialmente rilevante, l'istituzione per esse di una qualche forma di tutela giuridica potrebbe non trovare ostile la Chiesa cattolica.

Curioso il fatto che, mentre l'intervento di Chiarinelli ha trovato ospitalità anche su Avvenire (24/7), sorte ben diversa, qualche anno fa, ebbero le dichiarazioni, il cui contenuto era assai simile a quello del documento di Chiarinelli, rilasciate nel 1999 dalla allora neo presidente dell'Azione Cattolica Paola Bignardi all'Unità (v. Adista nn. 23 e 25/99). La Bignardi, nell'intervista, sosteneva la necessità di far uscire dal limbo giuridico in cui si trovano le tante forme di convivenza di fatto che ormai esistono nel Paese. Affermazioni che le costarono una dura reprimenda da parte di Ruini e l'obbligo di una rapida e secca smentita. Che la Bignardi affidò ad un'altra intervista all'Avvenire il 12 marzo 1999.

sabato 6 agosto 2005

60 anni fa, l'olocausto terroristico di Hiroshima

Il 1945, anno di sollievo per la fine della massima guerra della storia, anno felice per l'inizio, sebbene imperfetto, del diritto planetario di pace (nell'Organizzazione delle Nazioni Unite), resta un anno orribile, segnato dal massimo atto di violenza bellica e scientifica; un atto istantaneo, ma con effetti lunghissimi nel tempo: l'olocausto terroristico di Hiroshima e Nagasaki.

La tesi ufficiale statunitense, riproposta nel 1995, nel cinquantenario, su una serie di francobolli commemorativi, giustificò la strage come risparmio di vite umane (americane) e accelerazione della pace. Vediamo se tale versione verrà di nuovo discussa adeguatamente quest'anno, nel sessantesimo anniversario.

Il libro di Gar Alperovitz, Atomic Diplomacy (prima edizione 1965, seconda edizione nel 1985, tr. it. Einaudi 1966 col titolo Un asso nella manica) documenta come le bombe atomiche non erano militarmente necessarie, perché il Giappone chiedeva la pace, ma furono usate, nonostante i dissensi tra gli scienziati, tra i militari e dentro lo stesso governo Usa, per "uscire dall'affare giapponese prima che i russi vi entrino".

Hiroshima e Nagasaki sarebbero quindi atti di "diplomazia atomica" nei confronti dell'Urss, il primo atto della guerra fredda, a spese di centinaia di migliaia di vite di civili giapponesi, e di avvelenamento di altre vite e della pace negli anni successivi. Un atto col quale il mondo scivolava nella spirale atomica e veniva consegnato ad un nuovo potere della morte.

Dovremmo avere imparato, da allora ad oggi, che la minaccia accresce la minaccia, mentre de-minacciare produce maggior sicurezza per tutti. Quella conclusione atomica della guerra, quella "pace atomica", dà fondamento alla tesi paradossale che la seconda guerra mondiale l'abbia vinta Hitler, dal momento che il suo sterminismo a scopo di dominio fu ereditato e accresciuto, come minaccia e pericolo tuttora incombente, dai vincitori. Lo dicono diversi studiosi. Ascoltiamo qualche altra parola di saggezza sul crimine di guerra impunito dell'agosto 1945.

Gandhi scriveva: "La bomba atomica ha fatto ottenere una vuota vittoria agli eserciti alleati, ma ha significato la distruzione dell'anima del Giappone. É ancora troppo presto per vedere che cosa é avvenuto nell'anima della nazione che ha impiegato la bomba atomica".

Dieci anni fa leggevamo il piccolo libro Hiroshima, non dovevamo, del filosofo John Rawls (autore di Una teoria della giustizia, 1971) insieme ad altri autori statunitensi come lui. A cinquant'anni da quell'agosto atomico, il dibattito su Hiroshima era riesploso negli Usa: ufficialmente si era chiuso sulle posizioni governative, uguali a quelle del 1945, ma fu vivace e approfondito nella cultura, come dimostra questo libro, e persino nelle televisioni. La mostra sull'Enola Gay, per l'insorgere dei veterani e della destra, dovette sostituire il catalogo ampiamente critico, con poche pagine asettiche. Rawls, entro i vecchi limiti dello jus in bello (regole da rispettare nella guerra), proponeva sei principi o postulati che impegnano "una società democratica decente".

Li riassumo: 1) lo scopo di una guerra giusta é una pace giusta e duratura anche coi nemici del momento (osservo che lo stesso chiede Kant, Per la pace perpetua, VI articolo preliminare); 2) una società democratica combatte soltanto contro uno stato non democratico, espansionista, minaccioso; 3) nella guerra contro un tale nemico, una società democratica distingue attentamente tra governanti, soldati, popolazione civile e considera responsabili della guerra soltanto i primi; 4) una società democratica rispetta i diritti umani dei nemici, sia civili che militari, primo perché sono sempre membri della società umana, secondo per insegnare loro con l'esempio, perciò non li attacca mai direttamente salvo che in caso di crisi estrema; 5) i popoli giusti devono prefigurare, durante la guerra, il tipo di pace e di rapporti internazionali a cui mirano (cfr. Kant); 6) la valutazione pratica dell'opportunità di un'azione deve sempre essere severamente limitata dai principi suesposti.

Si può dedurre dall'insieme che non furono veri "uomini di stato" né quelli che imposero alla Germania nel 1919 la pace punitiva di Versailles, culla del nazismo, né quelli che decisero l'uso dell'atomica. Hiroshima - dice Rawls ed é ormai accertato - non configurava il caso di crisi estrema; Truman e Churchill, che non rispettarono quei limiti alla conduzione della guerra, non furono veri "uomini di stato"; Truman é "fallito come uomo di stato" (p. 31); sia Hiroshima che i bombardamenti incendiari sulle città giapponesi o su Dresda furono "gravi torti" e "gravi errori" (p. 29). I governanti non ebbero tempo per riflettere, la guerra impedisce di pensare.

É ciò che il pensiero della pace afferma: la guerra non continua la politica, ma la nega. E nega la democrazia. Dobbiamo infatti dedurre (pur distinguendo fra i loro governanti e la società civile, da cui vennero subito alcune condanne dell'uso dell'atomica: v. p. 46), che gli Stati Uniti non furono "una società democratica decente" in quella circostanza che ha determinato la storia universale successiva.

Il guaio grave é che ancora nel 1995 la tesi ufficiale giustificò accanitamente le bombe di Hiroshima e Nagasaki. Clinton concluse: "Truman ha fatto quel che si doveva fare". Il 76% degli americani (84% oltre i 65 anni) riteneva che gli Usa non dovessero presentare scuse al Giappone. Potevamo dire già allora che il modello statunitense, tanto idolatrato, configura una società che può diventare democratica e giusta, all'esterno come all'interno, perché dove c'é possibilità di dibattito c'é correggibilità, anche se non lo é ancora, purché guarisca dai propri mali spirituali profondi.

Giovanni XXIII, nella Pacem in terris (1963), dedicava al disarmo i nn. 59-63 (nell'edizione ufficiale in italiano):

"Ci é pure doloroso costatare come nelle comunità politiche economicamente più sviluppate si siano creati e si continuano a creare armamenti giganteschi (...). Gli armamenti, come é noto, si sogliono giustificare adducendo il motivo che se una pace oggi é possibile, non può essere che la pace fondata sull'equilibrio delle forze. Quindi se una comunità politica si arma, le altre comunità politiche devono tenere il passo ed armarsi esse pure. E se una comunità politica produce armi atomiche, le altre devono pure produrre armi atomiche di potenza distruttiva pari. In conseguenza gli esseri umani vivono sotto l'incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una travolgenza inimmaginabile. (...)

Giustizia, saggezza ed umanità domandano che venga arrestata la corsa agli armamenti, si riducano simultaneamente e reciprocamente gli armamenti già esistenti; si mettano al bando le armi nucleari; e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci (...)

[É necessario] che al criterio della pace che si regge sull'equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia. Noi riteniamo che si tratti di un obiettivo che può essere conseguito. Giacché esso é reclamato dalla retta ragione, é desideratissimo, ed é della più alta utilità. (...)

I rapporti fra le comunità politiche, come quelli fra i singoli esseri umani, vanno regolati non facendo ricorso alla forza delle armi, ma nella luce della ragione; e cioé nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante".

Tutto la terribile tirannia atomica sulla vita dell'umanità, che, proliferando tra gli stati nuclearisti, non ha fatto altro che accrescersi, é nata dalla strage di Hiroshima e Nagasaki.

É vero che gli Stati Uniti costruirono l'atomica, su consiglio di Einstein, nel timore che arrivasse a costruirla per prima la Germania, ma é altrettanto vero che lo stesso Einstein e i migliori degli scienziati atomici furono contrari all'impiego di quell'arma, quando la Germania era già vinta e il Giappone si piegava, e furono alla testa del movimento antinucleare: quest'anno é anche il cinquantesimo anniversario del grande manifesto Einstein-Russell.

Jean-Marie Muller, nel recentissimo Dictionnaire de la non-violence, alla voce Terrorismo scrive: "La condanna del terrorismo avrà tanta minor forza e coerenza se giustifica altre forme di azione violenta che non sono meno micidiali e possono essere ugualmente criminali. Esiste anche un 'terrorismo di stato’ che non merita alcuna indulgenza, non più dell'altro".

La ricorrenza di quel crimine atomico cade quest'anno in un momento molto minacciato dalla violenza statale e dalla violenza privata, complici e alimento l'una dell'altra. Ma in questi anni l'opposizione popolare alle violenze, o almeno la sempre minore rassegnazione fatalistica del passato al regno della violenza, caratterizzano una linea di fondo del movimento storico.

Il no alla violenza, tuttavia, é nobile ma rimane impotente se i popoli non crescono nella conoscenza e nella pratica della nonviolenza positiva e attiva, che é rifiuto di riprodurre la violenza, ma é soprattutto lotta per la giustizia coi mezzi della giustizia, con la forza della verità umana, dell'unità, del coraggio, dell'amore anche per l'avversario violento, per resistergli e per ricuperarlo alla convivenza umana decente.

Affinché la nonviolenza possa diventare cultura e educazione popolare, perciò politica, occorre che i tanti gruppi e movimenti impegnati per la pace si conoscano e si incontrino assai di più, nell'autonomia di metodi e ispirazioni, fino a rappresentare una federazione nonviolenta attiva di forze nazionali e internazionali, che producano una politica di pace. Lo chiedono a noi, gridando in silenzio dentro i nostri cuori e le nostre menti, tutte le vittime di ogni violenza, prima e dopo il giorno di Hiroshima, fino ad oggi.